Distanze tra le costruzioni
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Le distanze tra le costruzioni – II^ edizione del 15.3.2016
Le distanze – I^ edizione del 3.3.2011
A) Introduzione e la disciplina generale
Preliminarmente, è opportuno rappresentare che i limiti legali sulle distanze delle costruzioni sono regolati dagli articoli 873 – 877 c.c. e dalla normativa Nazionale vigente, che successivamente brevemente, stante la vasta portata, sarà trattata.
Si riportano qui di seguito gli articoli di riferimento del codice civile
art. 873 c.c. distanze nelle costruzioni
le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di 3 (tre) metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
art. 874 c.c. comunione forzosa del muro sul confine
il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione (2932) per tutta l’altezza o per parte di essa, purché lo faccia per tutta l’estensione della sua proprietà. Per ottenere la comunione deve pagare la metà del valore del muro, o della parte di muro resa comune, e la metà del valore del suolo su cui il muro è costruito. Deve inoltre eseguire le opere che occorrono per non danneggiare il vicino.
art. 875 c.c. comunione forzosa del muro che non è sul confine
quando il muro si trova a una distanza dal confine minore di un metro e mezzo ovvero a distanza minore della metà di quella stabilita dai regolamenti locali, il vicino può chiedere la comunione del muro soltanto allo scopo di fabbricare contro il muro stesso, pagando, oltre il valore della metà del muro, il valore del suolo da occupare con la nuova fabbrica, salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro sino al confine.
Il vicino che intende domandare la comunione deve interpellare preventivamente il proprietario se preferisca di estendere il muro al confine o di procedere alla sua demolizione. Questi deve manifestare la propria volontà entro il termine (2964) di giorni quindici e deve procedere alla costruzione o alla demolizione entro sei mesi dal giorno in cui ha comunicato la risposta.
art. 876 c.c. innesto nel muro sul confine
se il vicino vuole servirsi del muro esistente sul confine solo per innestarvi un capo del proprio muro, non ha l’obbligo di renderlo comune a norma dell’art. 874, ma deve pagare un’indennità per l’innesto.
art. 877 c.c. costruzioni in aderenza
il vicino, senza chiedere la comunione del muro posto sul confine, può costruire sul confine stesso in aderenza (904), ma senza appoggiare la sua fabbrica a quella preesistente.
Questa norma si applica anche nel caso previsto dall’art. 875; il vicino in tal caso deve pagare soltanto il valore del suolo.
È vero, infatti, che il proprietario di un fondo, ottenuti i necessari permessi (inciso non del tutto pleonastico – anche se ai fini delle distanze come si avrà modo di leggere non assume rilevanza la circostanza che il nuovo manufatto non risulti in regola con i permessi amministrativi), può costruire sul suo terreno, e questo diritto gli spetta su tutta la sua proprietà (anche per il noto principio della pienezza del diritto di proprietà[1]), sino al confine (come vedremo spesso anche oltre il confine).
Ma può accadere (quasi sempre) che il fondo del proprietario può confinare con quello di altro soggetto che ha analogo diritto.
E’ bene già segnalare che, la nozione di fondi finitimi è diversa da quella di fondi meramente “vicini“, dovendo per fondi finitimi intendersi quelli che hanno in comune, in tutto o in parte, la linea di confine, ossia quelli le cui linee di confine, a prescindere dall’essere o meno parallele, se fatte avanzare idealmente l’una verso l’altra, vengono ad incontrarsi almeno per un segmento; ne consegue che non possono essere invocate le norme sul rispetto delle distanze ove i fondi abbiano in comune soltanto uno spigolo o i cui spigoli si fronteggino pur rimanendo distanti[2].
Poi, come statuito anche da altra Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 4 ottobre 2016, n. 19790
in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell’articolo 873 c.c., le norme che impongono l’osservanza delle distanze dai confini prescindono dall’avvenuta edificazione e dalla futura edificabilità del fondo limitrofo.
Inoltre, è stato precisato dalla cassazione, con altra pronuncia
Corte di Cassazione, sezione sesta civile, Ordinanza 8 maggio 2018, n. 11011
anche la presenza di una striscia di proprieta’ aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a quella minima, non preclude la possibilita’ di invocare il rispetto delle distanze in questione, sebbene con l’adozione di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente l’onere del rispetto delle distanze, alla luce dell’esistenza del fondo alieno interposto.
L’obbligo di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina urbanistica, va rispettato anche nell’ipotesi in cui i fondi, anziche’ essere contigui, siano separati da una striscia di terreno di proprieta’ di terzi.
Nell’ipotesi di fondi non confinanti, perche’ separati da una striscia di terreno di proprieta’ di un terzo e di larghezza inferiore alla distanza minima legale, sebbene non operi il principio della prevenzione, non essendo oggettivamente configurabile l’ipotesi di una costruzione “sul confine”, giacche’ quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all’altro fondo, come distaccata dal confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina delle costruzioni “con distacco”.
Le norme sul rispetto delle distanze trovano, una prima deroga nel caso di previsioni normative antisismiche.
Infatti, in tema di costruzioni in località sismiche, l’art. 6 n. 4 della legge 25 novembre 1962 n. 1684, (secondo cui la larghezza degli intervalli di isolamento fra due edifici misurata tra i muri frontali non deve essere inferiore a sei metri, ove l’area frapposta sia sottratta al pubblico transito mediante chiusura) comprende tutte le ipotesi in cui i muri perimetrali di costruzioni finitime si trovino in posizione antagonistica, idonea cioè a provocare, in caso di crollo di uno degli edifici, danni a quello confinante.
Pertanto, la presenza, nei detti muri perimetrali, di spigoli e angoli non esclude l’applicazione della norma citata, in quanto ogni angolo o spigolo è formato da due linee che, sul piano costruttivo, costituiscono vere e proprie “fronti”, le quali, a loro volta, realizzano, rispetto all’opposta costruzione, quella posizione antagonistica la cui potenziale pericolosità viene eliminata o attenuata dal rispetto della distanza minima.
Peraltro, tale principio opera nel caso in cui le due rette che si dipartono dall’angolo secondo le direttrici dei lati di questo vadano ad intersecare il perimetro della costruzione che si vuole opposta, mentre, qualora tali linee non attraversino idealmente il corpo dell’edificio vicino, non v’è antagonismo tra le costruzioni, nè sussiste quella frontalità che la norma in oggetto prevede come presupposto dell’osservanza della distanza di sei metri a scopo di prevenzione antisismica tra i segmenti perimetrali degli edifici. Pertanto, la misurazione della distanza non può essere eseguita in senso radiale, utilizzando un compasso che, avendo come punto di riferimento ciascuno spigolo del fabbricato (asseritamente fronteggiante), delimiti con il suo movimento circolare un’area libera inferiore a sei metri di raggio, sì da comprendere l’angolo del fabbricato opposto[3].
Sempre nell’ambito della normativa antisismica, è bene, inoltre, far presente che nelle zone in cui vige tale normativa – contenuta nella legge 25 novembre 1962, n.1684 – non sono applicabili le disposizioni di cui agli artt. 874, 876, 884 c.c., secondo le quali il proprietario del fondo contiguo al muro altrui ha la facoltà, rispettivamente, di chiederne la comunione forzosa, di innestarvi il proprio muro, di costruirvi il proprio edificio in appoggio, perchè è invece necessario che ogni costruzione costituisca un organismo a sè stante, mediante l’adozione di giunti o altri opportuni accorgimenti idonei a consentire la libera ed indipendente oscillazione degli edifici[4].
Ma, comunque, come da recente adagio della Cassazione[5] l’illiceità di una costruzione realizzata a distanza inferiore di quella prescritta dalle norme regolamentari, e la conseguente facoltà del proprietario del fondo confinante di chiedere la riduzione in pristino, secondo la previsione dell’articolo 872 c.c., non restano escluse dal fatto che la costruzione medesima sia stata eseguita in conformità di licenza o concessione edilizia, ovvero, nelle zone sismiche, di progetto approvato dall’ufficio del genio civile ai sensi della Legge 25 novembre 1962, n. 1684, articolo 25, poiché tali provvedimenti amministrativi non incidono sui suddetti rapporti, né pregiudicano i diritti soggettivi dei terzi, i quali rimangono tutelabili davanti al giudice ordinario, senza che si renda necessaria da parte di detto giudice una delibazione incidentale della legittimità o meno di quei provvedimenti[6].
Massima ribadita anche con altra recente pronuncia
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 28 settembre 2018, n. 23543.
secondo la quale, appunto, l’illiceita’ di una costruzione realizzata a distanza inferiore di quella prescritta dalle norme regolamentari, e la conseguente facolta’ del proprietario del fondo confinante di chiedere la riduzione in pristino, secondo la previsione dell’articolo 872 c.c., non restano escluse dal fatto che la costruzione medesima sia stata eseguita in conformita’ di licenza o concessione edilizia, poiche’ tali provvedimenti amministrativi non incidono sui suddetti rapporti, ne’ pregiudicano i diritti soggettivi dei terzi, i quali rimangono tutelabili davanti al giudice ordinario (senza che si renda necessaria da parte di detto giudice una delibazione incidentale della legittimita’ o meno di quei provvedimenti)
Altra deroga, confermata anche da una pronuncia della Cassazione, è disciplinata dalla Legge 9 gennaio 1989, n. 13 “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati” secondo la quale le opere che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118, ed all’articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’intemo degli edifici privati possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati.
É fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.
Secondo, poi, ulteriore Cassazione[7] anche l’ascensore può ritenersi un elemento necessario per l’abitabilità di un appartamento (a prescindere dalla effettiva utilizzazione degli edifici considerati da parte di persone portatrici di handicap) e dunque la sua installazione può avvenire anche in deroga alla normativa sulle distanze minime.
Nella valutazione del Legislatore, l’installazione dell’ascensore o di altri congegni idonei ad assicurare l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici, costituisce elemento che deve necessariamente essere previsto dai progetti relativi alla costruzione dei nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici. Per la Cassazione gli ascensori sono diventati funzionali ad assicurare la vivibilità dell’appartamento al pari di luce, acqua e gas.
Altra deroga è prevista dall’art. 1, comma 4, della l. n. 10 del 1991 e successivamente dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003.
Sul punto di recente la S.C.
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|19 maggio 2021| n. 13626.
ha riaffermato che le opere private realizzate, senza alcuna espropriazione, per la produzione di energia elettrica alimentata da fonti rinnovabili in violazione delle distanze legali non soggiacciono alla disciplina di cui all’art. 873 c.c. e alle relative sanzioni, in virtù dell’espressa loro equiparazione “alle opere dichiarate indifferibili e urgenti ai fini dell’applicazione delle leggi sulle opere pubbliche”, disposta prima dall’art. 1, comma 4, della l. n. 10 del 1991 e successivamente dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, sicchè è possibile ottenere la sola tutela indennitaria per il pregiudizio sofferto, trattandosi di interventi rispetto ai quali deve cedere anche la posizione di diritto soggettivo del proprietario confinante.
Infine, sempre in ordine al ripristino ed alla tutela per equivalente, altra Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 29 ottobre 2018, n. 27364
ha avuto modo di affermare (anche se in contraddizione di quanto stabilisce il d.m. 1444 del 1968 che appresso si avrà modo di affrontare) le disposizioni di legge e regolamentari tra le quali, fra l’altro, il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione, cui rinvia l’art. 879, comma secondo, cod. civ. per il caso delle costruzioni “in confine con le piazze e le vie pubbliche”, non sono dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della proprietà, ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della circolazione stradale; per cui è da ritenersi insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a tutela ripristinatoria. Per l’accoglimento della domanda di riduzione in pristino proposta dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze fra costruzioni contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è necessario che le norme violate abbiano carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.) richiamate, e che si tratti di costruzioni soggette all’obbligo delle distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879, secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa la riduzione in pristino se tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche, ancorché la norma edilizia locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile) prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata anche nel caso che tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche.
Orbene, ciò premesso in merito ad alcune deroghe, al fine di dirimere potenziali contrasti tra i confinanti, il codice civile, come visto, è intervenuto con una puntuale regolamentazione, che, però come si andrà a sviscerare, può essere derogata in melius dai regolamenti locali, e più in generale dai piani regolatori (approvati).
Su questo punto, d’altronde, è opportuno sottolineare che in tale saggio non ci si occuperà a pieno dei limiti imposti da leggi e regolamenti al diritto di proprietà per finalità di interesse pubblico, se non con un breve cenno, ma saranno analizzati i limiti imposti dal codice civile nei rapporti di vicinato, nei rapporti, quindi, tra i proprietari confinati.
Di conseguenza i regolamenti locali ed in particolare i piani regolatori che interessano, cui fa riferimento il codice all’art. 873, sono quelli che integrano e/o modificano le disposizioni del codice, mentre le altre norme (ad ambito Nazionale) che impongono regole nell’interesse generale rientrano nei limiti di pubblico interesse (primario) imposti al diritto di proprietà.
I regolamenti edilizi possono stabilire una distanza tra edifici maggiore di quella di 3 mt, ma non minore (derogare in meius e non in peius).
La distanza prevista nell’art. 873 c.c. va osservata in ogni punto o angolo della costruzione.
Anche se con altra pronuncia la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 4 gennaio 2017, n. 98
ha avuto modo di affermare che le distanze legali oggetto della previsione di cui all’art. 873 sono le distanze lineari; pertanto non possono essere considerate nè quelle che si misurano in verticale tra una porzione di fabbricato sottostante e quella sovrastante, né le consistenze immobiliari appartenenti ai soggetti terzi.
Pertanto, stante la finalità di perseguire un interesse pubblico, accertata l’inosservanza delle distanze legali, è da ritenere irrilevante qualsiasi ulteriore accertamento sull’edificabilità o meno del fondo o sulla concreta pericolosità o dannosità delle intercapedini, essendo tale situazione presupposta dalla norma.
Infatti, con ultimo arresto, la Cassazione[8] ha avuto modo di ribadire che qualora sia accertata la violazione delle distanze tra costruzioni, é preclusa al giudice ogni indagine sull’idoneità dell’intercapedine ad arrecare il pregiudizio per l’igiene e la salubrità dello ambiente, che le norme sulle distanze intendono impedire, in quanto la legge, imponendo l’osservanza di determinate distanze, ha ritenuto che soltanto queste valgano presuntivamente a soddisfare le esigenze di sicurezza e di igiene.
Poi, secondo altra sentenza della Suprema Corte[9], ove due fondi siano delimitati da un muro comune, la linea di confine non si identifica con la linea mediana del muro medesimo, giacché su di esso, e sull’area di relativa incidenza, i proprietari confinanti esercitano la contitolarità del rispettivo diritto per l’intera estensione ed ampiezza. Ne consegue che, ai fini della misurazione della distanza legale di una siepe dal muro comune, si deve avere riguardo alla facciata del muro stesso prospiciente alla siepe, e non calcolarsi detta distanza rispetto alla linea mediana del muro comune.
Inoltre, è opportuno già precisare che, come statuito da ultima Cassazione[10], le costruzioni sorgenti in una zona omogenea del territorio comunale, per la quale siano previste determinate distanze dai confini o dalle costruzioni sorgenti sui lotti vicini, saranno tenute a rispettare dette distanze, a prescindere dalla circostanza che il lotta finitimo (o la costruzione posta su di esso) sia ubicato in altra zona per cui vigano standard diversi.
B) La ratio delle distanze
La pacifica nonché quasi unanime giurisprudenza, sviluppatasi negli ultimi cinquantanni, è concorde nel ritenere che la ratio della disposizione in oggetto sia quella di impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini che, per la loro esiguità, abbiano a risultare pericolose[11].
In altre parole, esse sono dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e per di più hanno il fine di evitare la creazione (non solo fastidiosa ed antiestetica) di intercapedini antigieniche e pericolose.
Secondo altra definizione, ma senza portare alcuna differenza nella sostanza, le norme sulle distanze minime tra le costruzioni hanno fondamento nell’esigenza di evitare quei pregiudizi che distanze troppo brevi arrechino alla vivibilità degli edifici.
Secondo l’unanime giurisprudenza della Cassazione l’art. 873 c.c. non comprende, invece, nè le opere completamente realizzate nel sottosuolo nè i manufatti che non si elevino oltre il livello del suolo, non ricorrendo per le une o per gli altri la ragione giustificatrice della norma stessa.
Conformemente alla sua ratio, l’art. 873 trova applicazione solo nel caso in cui due fabbricati, sorgenti da strisce opposte rispetto alla linea di demarcazione di confine, si fronteggino prospetticamente.
Le distanze di cui all’articolo in esame, pertanto, non sono applicabili al caso di fabbricati disposti ad angolo senza avere pareti contrapposte come già segnalato in precedenza.
Ma ciò non toglie che, i regolamenti locali, nello stabilire distanze maggiori, possono anche determinare punti di riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie distanze previste in sede regolamentare[12].
Le norme che prevedono questi limiti hanno carattere preventivo, (diverso dal concetto di prevenzione che da qui a poco si andrà ad analizzare), in quanto si applicano indipendentemente dall’esistenza di un danno.
I diritti dettati dalle norme predette sono imprescrittibili: ma naturalmente l’obbligo del loro rispetto potrebbe cadere di fronte alla costituzione di una servitù[13] oppure in forza di usucapione[14], come nel caso in cui sia stata aperta una veduta senza rispettare le distanze di legge da oltre venti anni.
Infatti, come da pronuncia della Corte di Cassazione, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali[15].
In tema, con altro adagio[16], il Sommo collegio ha affermato che i poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze nelle costruzioni, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi, naturalmente, gli effetti dell’usucapione, che, in tema di violazione delle norme sulle distanze, può dar luogo all’acquisto del diritto (servitù prediale) a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale.
Inoltre, l’actio negatoria sevitutis è azione imprescrittibile, con la conseguenza che il proprietario del preteso fondo servente può in ogni momento, e fatti salvi gli effetti dell’intervenuta usucapione, chiedere che venga accertata, per mancanza del titolo o del decorso del termine per l’usucapione, l’inesistenza di una servitù contraria al rispetto delle distanze legali, giacché, diversamente opinando, si configurerebbe, di fatto, l’acquisto di una servitù in base al possesso decennale e non ventennale, come invece disposto dall’art. 1158 cod. civ.
Infine, come statuito anche da altra sentenza di Palazzo Spada
Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 11 luglio 2018, n. 4229.
la finalità della disciplina pubblicistica sulle distanze tra le costruzioni è quella di preservare l’ordinato sviluppo dell’attività edilizia, nonché quella di preservare la salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane.
Ne consegue che, all’atto del rilascio del permesso di costruire per una nuova costruzione, devono comunque essere rispettate le distanze previste dalle norme applicabili, anche in riferimento ad un fabbricato che risulti abusivo.
Invero, ragionando a contrario, l’accennata finalità della disciplina sulle distanze verrebbe ad essere sostanzialmente vanificata, posto che il mancato rispetto delle distanze da un fabbricato, nonostante il carattere abusivo dello stesso, porta di fatto a quel disordinato svilupparsi dell’attività edilizia ed al formarsi di intercapedini insalubri che l’ordinamento vuole evitare.
Ovviamente, l’Amministrazione comunale deve senza indugio emanare i provvedimenti sanzionatori, volti se del caso alla rimozione delle opere che risultino abusive (anche su sollecitazione proprio del vicino): fin quando però i manufatti abusivi continuino ad esistere, di essi si deve tenere conto in sede di applicazione delle distanze.
C) Il sistema della prevenzione
In materia di costruzioni sul confine, la legge si ispira al principio della prevenzione temporale ricavabile dal combinato disposto degli artt. 873, 874, 875 e 877 c.c., secondo il quale il proprietario che costruisce per primo determina[17], in concreto, le distanze da osservare per le altre costruzioni da edificare sui fondi vicini.
Principio ripreso in pieno dalla giurisprudenza secondo la quale: l’art. 873 c.c, operando in stretta connessione con gli artt. 875 e 877 c.c., sul diritto di prevenzione, concede al primo tra i proprietari confinanti che edifica sul proprio fondo una triplice facoltà: costruire sul confine; costruire a distanza dal confine non inferiore a quella legale; costruire a distanza inferiore a quella legale salvo riconoscere al proprietario contiguo che costruisca successivamente il diritto di avanzare la propria opera alle condizioni previste dall’art. 875 c.c. nel caso in cui non voglia che analoga facoltà venga esercitata dal preveniente per la comunione forzosa del muro[18].
In altre parole chi effettua l’opera per primo su di un fondo contiguo ad un altro ha questa descritta triplice facoltà alternativa, ovvero:
1) costruire sul confine:
– di conseguenza il vicino potrà costruire in aderenza o in appoggio (pagando per tale evenienza, ai sensi dell’art. 874, la metà del valore del muro);
2) costruire con distacco dal confine: e cioè alla distanza di un metro e mezzo dallo stesso o a quella maggiore stabilita dai regolamenti locali;
– in tal caso il vicino si vedrà costretto a costruire alla distanza stabilita dal codice civile o dagli strumenti urbanistici locali;
3) costruire con distacco dal confine ad una distanza inferiore alla metà di quella totale prescritta per le costruzioni su fondi finitimi salvo il diritto del vicino, che costruisca successivamente, di avanzare la propria fabbrica fino a quella preesistente, pagando il valore del suolo;
– in tal caso, il vicino potrà costruire in appoggio, domandando la comunione del muro che non si trova sul confine (ed in tale ipotesi deve pagare, ai sensi dell’art. 875 c.c., la metà del valore del muro) oppure in aderenza. La disposizione dell’art. 875 c.c. in esame subordina, dunque, l’acquisto della comunione[19] al mancato esercizio da parte del proprietario del diritto di estendere il muro sino al confine.
A tal fine, il proprietario del fondo contiguo dovrà preventivamente interpellare il proprietario del muro per sapere se intende estendere il muro al confine, procedere alla sua demolizione o arretrarlo alla distanza legale onde consentirgli di sottrarlo alla comunione.
La mancata risposta dell’interpellato e, quindi, il suo silenzio assenso (per usare un’analogia con il procedimento amministrativo), equivarrà al mancato esercizio del potere di ostacolare la comunione forzosa (indotta) e secondo la dottrina, qualora trascorso il termine, il proprietario iniziasse a demolire il muro, tale attività sarebbe illegittima e comunque inidonea ad impedire l’acquisto della comunione.
Secondo poi la Corte di legittimità[20] affinché si verifichi l’ipotesi di costruzione in aderenza, fattispecie prevista dall’art. 877 c.c., è necessario che la nuova opera e quella preesistente combacino perfettamente da uno dei lati, in modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve tratto o ad intervalli, uno spazio vuoto, ancorché totalmente chiuso, che lasci scoperte, sia pure in parte, le relative facciate[21].
Il diritto di prevenzione, riconosciuto a chi per primo edifica, si esaurisce con il completamento, dal punto di vista strutturale e funzionale, della costruzione.
Esso, pertanto, non può giovare automaticamente per un successivo manufatto, ancorché accessorio ad una preesistente costruzione, se il giudice del merito ne accerta le caratteristiche di costruzione in senso tecnico-giuridico[22].
Giova rappresentare, come da ultimo arresto della Cassazione[23] che, quando una costruzione sia stata realizzata non già lungo una linea retta, ma lungo una linea spezzata, ora coincidente con il confine, ora no, il vicino prevenuto deve rispettare le distanze imposte dalla legge e dai locali regolamenti edilizi, computate dalle sporgenze e dalle rientranze dell’altrui fabbrica (e) quindi potrà costruire in aderenza solo in quei tratti in cui l’edificio del preveniente si trova sul confine
Nel caso della sopraelevazione – che secondo la pacifica giurisprudenza costituisce una nuova costruzione, come si avrà modo di enunciare successivamente – il criterio della prevenzione non esclude che il preveniente sia tenuto al rispetto della sopravvenuta disciplina regolamentare integrativa di quella dettata dal codice civile e debba pertanto effettuare la sopraelevazione del proprio fabbricato rispettando la diversa distanza legale stabilita da tale disciplina, con la conseguenza che, ove lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto, abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine, è da escludere il diritto a sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione.
Principio, ripreso anche da altra Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 10 maggio 2018, n. 11320 (ripresa poi anche da altra: Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|7 maggio 2024| n. 12292)
secondo la quale, appunto, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicche’ deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest’ultima. Ne consegue che, qualora tale normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione originaria, il preveniente non potra’ sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione, non trovando applicazione il criterio della prevenzione, che – nel caso di costruzione sul confine – impone a colui che edifica per primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a distanza non inferiore a quella legale, in modo da non costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile a linea spezzata.
Fermo restando che le disposizioni dei piani regolatori che stabiliscono una determinata distanza delle costruzioni tra loro o dai confini dei fondi appartengono alla categoria delle norme integrative del codice civile (che, se violate, conferiscono al vicino la facolta’ di ottenere la riduzione in pristino), nel caso in cui lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto, abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine ovvero tra le costruzioni, tale nuova disciplina, integrativa di quella codicistica, vincola anche il preveniente, che e’ cosi’ tenuto, se vuole sopraelevare, alla osservanza della diversa distanza stabilita senza alcuna facolta’ di allineamento (in verticale) alla originaria preesistente costruzione, a meno che la normativa regolamentare non preveda una espressa eccezione in proposito. In siffatta evenienza, quindi, in difetto di una norma regolamentare in deroga, e’ da escludere il diritto a sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione ed e’ del tutto irrilevante che i preesistenti edifici siano stati realizzati in aderenza, dovendosi osservare la prescritta distanza dal confine sancita dalla nuova normativa regolamentare in via inderogabile e senza alcuna eccezione in proposito.
In tema di distanze nelle costruzioni, solo quando due fabbricati sono in aderenza, il proprietario di uno di essi non puo’ dolersi della costruzione da parte del proprietario dell’altro di un muro sul confine, al di sopra del fabbricato, tenuto conto che l’articolo 873 c.c. trova applicazione soltanto con riguardo a costruzioni su fondi finitimi non aderenti, essendo, pertanto, in tali casi legittima la sopraelevazione effettuata in aderenza sopra la verticale della costruzione preesistente.
In merito, la Cassazione[24] ha riaffermato che la regola che vincola il proprietario che ha costruito per primo sul confine, secondo il principio della prevenzione, alla scelta compiuta, imponendogli, nel caso di sopraelevazione, di rispettare il filo della precedente fabbrica, non è applicabile nel caso in cui lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto, abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine ovvero tra le costruzioni perché tale nuova disciplina, integrativa di quella codicistica, vincola anche il preveniente, che è così tenuto, se vuole sopraelevare, alla osservanza della diversa distanza stabilita senza alcuna facoltà di allineamento (in verticale) alla originaria preesistente costruzione, a meno che la normativa regolamentare non preveda un’espressa eccezione in proposito.
Sotto un profilo meramente processuale, poi, qualora la priorità nel tempo della costruzione non emerga dallo stato dei luoghi o delle cose, l’onere della prova di aver costruito per primo grava su colui che chiede l’arretramento del fabbricato altrui, sul presupposto della preesistenza della propria costruzione[25].
In via generale, la prevenzione non opera quando gli strumenti urbanistici locali prevedono una distanza minima dal confine.
Un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilita’ di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla meta’ di quella prescritta tra le costruzioni, ne’ al prevenuto la corrispondente facolta’ di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli articoli 874, 875 e 877 c.c.
La giurisprudenza, a tal proposito, ha chiarito che in tema di distanze legali, solo se i regolamenti edilizi stabiliscono espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine, vietando la costruzione sullo stesso, non può trovare applicazione il principio della prevenzione; viceversa, qualora tali regolamenti consentano la predetta facoltà di costruire sul confine (in aderenza o in appoggio), come alternativa all’obbligo di rispettare una determinata distanza da esso, si versa in ipotesi del tutto analoga, sul piano normativo, a quella prevista e disciplinata dagli artt. 873 ss c.c., con la conseguente operatività del principio della prevenzione.
In tema, con altra sentenza, la Cassazione[26] ha avuto modo di ripetere che in tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l’operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’articolo 873 c.c. e segg., con la conseguenza che é consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dall’articolo 875 c.c. e articolo 877 c.c., comma II), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico. Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a consentire l’esercizio delle predette facoltà che, diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria sulle distanze dal confine e tra fabbricati.
Sempre sul punto la medesima Cassazione[27], con una pronuncia successiva, ha riaffermato il principio secondo il quale il criterio della prevenzione, quale si evince dal combinato disposto degli articoli 873 e 875 c.c., é derogato dal regolamento comunale edilizio nel caso in cui questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse costruzioni dal confine; che siffatta deroga non opera allorché il regolamento edilizio, pur imponendo il rispetto di una data distanza altresì dal confine, consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio, con la conseguenza che in tale ipotesi il primo costruttore ha la scelta tra il costruire alla distanza regolamentare dal confine e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo; che, tuttavia, in tal ultima evenienza il preveniente non ha anche la possibilità di costruire a distanza inferiore dal confine.
Poi, però, con ultimo intervento, la Corte nomofilattica[28] ha rimesso alle sezioni unite se, nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine, o se, invece, allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione debba intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell’operatività del criterio cosiddetto “della prevenzione”.
Si legge nella sentenza in commento che nella giurisprudenza della medesima Corte[29] è pacifica l’inoperatività del criterio della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini.
Meno univoca, invece, è la soluzione concernente l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica.
A tale ultimo riguardo nella giurisprudenza di questa seconda sezione si registra un contrasto sincrono.
Un primo indirizzo[30] afferma che nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine.
In base al secondo orientamento[31], invece, allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell’operatività del criterio cosiddetto della prevenzione.
In ordine, poi, alla specifica incidenza sul criterio della prevenzione delle norme regolamentari locali che in materia edilizia stabiliscano una distanza non espressamente collegata al confine – prosegue la medesima sentenza in commento – le S.U.[32] della stessa Corte si sono pronunciate una sola volta, allorché hanno affermato che nel caso di norma regolamentare che determina la distanza fra costruzioni non dal confine, ma in via assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei corpi di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul confine e l’applicabilità del criterio della prevenzione, onde colui che costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine, una distanza pari alla meta dell’altezza dell’erigendo fabbricato.
Mentre, una ben più recente sentenza[33] ha affrontato, risolvendolo in senso affermativo, il diverso problema della compatibilità del principio codicistico della prevenzione con la disciplina sulle distanze tra fabbricati vicini dettata dall’art. 41-quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (aggiunto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765); e ne ha tratto la conseguenza che quando il fabbricato del preveniente si trovi a una distanza dal confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati prescritto dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi dell’art. 875 c.c., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro allo scopo di costruirvi contro .
In conclusione, pertanto, secondo la Cassazione, ricorrono, le condizioni per rimettere la relativa questione alle S.U. per la soluzione del contrasto.
Sul punto, la Cassazione[34] successiva a quella interlocutoria, ha nuovamente riaffermato che il criterio della prevenzione, previsto dagli articoli 873 e 875 c.c., é derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle stesse dal confine; salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio, nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l’edificare a distanza regolamentare e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare l’estremo limite del confine medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine, poiché detta prescrizione ha lo scopo di ripartire tra i proprietari confinanti l’onere della creazione della zona di distacco[35]. Ciò perché, quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano la possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli articoli 873 e ss. cod. civ., con la conseguenza che é consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dall’articolo 875 c.c., e articolo 877 c.c., comma 2), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico[36].
Ed è stato dichiarato il seguente principio di diritto:
“Quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano anche la possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’articolo 873 c.c. e ss., con la conseguenza si applica il criterio della prevenzione, in forza del quale che é consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo cosi’ il vicino – che intenda a sua volta edificare – nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli articoli 875 e 877, secondo comma, cod. civ.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico”.
Ebbene, le Sezioni Unite
Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 19 maggio 2016, n. 10318
sono intervenute, andando così (si spera) definitivamente a privilegiare l’interpretazione favorevole all’operativita’, nella ipotesi considerata, del criterio della prevenzione, non apparendo convincenti le ragioni che nella elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sono state addotte a sostegno dell’opposta tesi.
Infatti, si legge nella sentenza a sezioni unite, che un argomento sovente utilizzato ai fini dell’esclusione del criterio della prevenzione poggia sul dato letterale delle disposizioni regolamentari che prescrivono un determinato distacco minimo “assoluto” tra costruzioni, per desumerne, anche in considerazione dell’esigenza di assicurare un’equa ripartizione del relativo onere tra le parti, il carattere “inderogabile” di tale distacco.
Piu’ in generale, a sostegno dell’orientamento contrario alla operativita’ del criterio di prevenzione, sono state svolte considerazione attinenti alla natura stessa del relativo meccanismo, che si porrebbe in contrasto con la funzione propria della disciplina dei distacchi tra edifici, volta ad assicurare un equo contemperamento degli interessi e dei sacrifici dei proprietari dei fondi confinanti. E’ in tale prospettiva che si e’ formato l’orientamento giurisprudenziale che ha ravvisato nei regolamenti locali che impongono un distacco assoluto tra costruzioni un implicito riferimento al confine e, quindi, l’obbligo per ciascuna parte di rispettare una distanza minima dal confine pari alla meta’ di quella complessiva prescritta per i distacchi tra edifici. Solo in tal modo, infatti, secondo i fautori della tesi esposta, potrebbe essere soddisfatta l’esigenza di evitare eccessivi sacrifici a carico di colui che costruisca per secondo; obiettivo che verrebbe frustrato in caso di applicazione del principio di prevenzione, di per se’ incompatibile con un’equa ripartizione tra le parti dell’onere imposto dalla previsione del distacco.
In dottrina, poi, alcuni autori hanno rimarcato il carattere di “specialita’” della disciplina dettata dai regolamenti edilizi rispetto a quella codicistica, per ravvisare in tale normativa una deroga non solo al dato numerico della distanza, ma all’intero sistema dei rapporti tra proprietari limitrofi delineato dal codice civile.
Un ulteriore argomento invocato a sostegno della inoperativita’ del criterio della prevenzione e’ quello che si fonda sul rilievo della natura pubblicistica dei regolamenti locali, connessa al fatto che essi concorrerebbero a comporre la complessiva disciplina urbanistica; a detta natura conseguirebbe la non praticabilita’ della disciplina codicistica della prevenzione, tipicamente destinata a regolare i rapporti tra privati. In tale ottica si pone la gia’ citata pronunzia delle Sezioni Unite n. 3873/1974, che ha osservato come l’intento insito nella norma regolamentare sia quello “di garantire in ogni caso un ampio spazio tra gli edifici onde soddisfare interessi di ordine generale, come quelli igienici, di quiete pubblica e di estetica edilizia… intento, questo, che rimarrebbe ovviamente frustrato se, nel contempo, venissero consentite costruzioni sul confine e fosse quindi permessa, da parte del vicino, la costruzione in aderenza”.
Gli argomenti sopra richiamati, ad avviso delle Sezioni Unite, non costituiscono un ostacolo all’affermazione dell’operativita’ in materia dell’istituto codicistico della prevenzione, apparendo agevolmente confutabili.
E invero, secondo la Cassazione, al criterio di interpretazione letterale, che si fonda sulla pretesa assimilazione degli attributi “assoluto” e “inderogabile”, puo’ opporsi, in conformita’ di un’autorevole opinione dottrinale, come la normativa edilizia contempli effettivamente la previsione di distanze “inderogabili”, come tali destinate a non tollerare in alcun caso la possibilita’ di costruire sul confine o in aderenza. Al di fuori di tali ipotesi, tuttavia, in presenza di una norma regolamentare che si limiti a prevedere un distacco “assoluto” tra costruzioni, non sembra possibile escludere in radice la possibilita’ di edificare sul confine o a distanza dal confine inferiore alla meta’ di quella legale, ferma restando la necessita’, nel caso in cui non vengano realizzate costruzioni in appoggio o in aderenza, di rispettare la distanza minima prescritta dal regolamento locale.
Quanto all’ostacolo derivante dalla necessita’ di assicurare un’equa ripartizione dell’onere tra i proprietari confinanti, e’ facile obiettare che un equo contemperamento degli interessi delle parti e’ garantito dalla possibilita’, offerta al prevenuto, di chiedere la comunione forzosa del muro o di costruire in aderenza alla fabbrica eretta dal preveniente sul confine o a distanza dallo stesso inferiore alla meta’ del distacco fissato dalla norma regolamentare. Il meccanismo della prevenzione, come congegnato dal codice civile, pertanto, consente di regolare armonicamente il rapporto di successione temporale tra le costruzioni che sorgono su fondi contigui, senza assicurare posizioni di vantaggio a colui che costruisce per primo in danno di colui che costruisce per secondo: alle facolta’ riconosciute al preveniente, infatti, fanno da contrappeso quelle attribuite al prevenuto, alle quali il primo non puo’ opporsi.
All’argomento basato sul carattere di “specialita’” dei regolamenti edilizi, poi, puo’ replicarsi che detti regolamenti, proprio in ragione di tale specialita’, sono di stretta interpretazione; con la conseguenza che, allorche’ essi si limitino ad imporre un distacco minimo tra costruzioni, senza prescrivere espressamente altresi’ una distanza minima dal confine, non pare lecito cogliere negli stessi una deroga al criterio della prevenzione sancito in via generale dal codice civile. I regolamenti locali, infatti, in virtu’ del rinvio previsto nell’articolo 873 c.c., hanno portata integrativa delle prescrizioni del codice civile in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi; sicche’ ad essi, salva espressa previsione contraria, deve ritenersi applicabile l’intera disciplina codicistica dettata in materia, compreso il meccanismo della prevenzione.
La tesi che ravvisa la ragione della incompatibilita’ del principio della prevenzione con la disciplina extracodicistica delle distanze nella natura “pubblicistica” di tale normativa, infine, e’ stata gia’ considerata insostenibile da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 11489/2002, nella quale e’ stato rilevato che e’ “evidente la componente pubblicistica, accanto a quella privatistica, di tutta la disciplina, anche codicistica, sulle distanze, volta, com’e’ noto, ad armonizzare la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato con l’interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico”.
Una simile componente pubblicistica, pertanto, cosi’ come non ha impedito la previsione nel codice civile della regola della prevenzione, allo stesso modo non puo’ costituire un serio ostacolo all’estensione della relativa disciplina alla materia regolata dai regolamenti locali.
Ne’ potrebbe sostenersi la natura esclusivamente pubblicistica della normativa extracodicistica in materia di distanze, ove solo si tenga conto della natura tipicamente privatistica della sanzione prevista in caso di violazione delle relative disposizioni, costituita dal rimedio della riduzione in pristino, rimesso all’iniziativa del vicino, il quale potrebbe anche non farvi ricorso. Ove, poi, si consideri che la ratio delle norme sulle distanze minime tra costruzioni e’, secondo l’opinione dominante, quella di evitare il pregiudizio che potrebbe derivare agli edifici dalla creazioni di intercapedini troppo ristrette, appare evidente che una simile finalita’ non viene frustrata dalla previsione della facolta’ di costruire in aderenza o in appoggio, escludendosi in tal modo la possibilita’ stessa della formazione di intercapedini pericolose tra i due fabbricati.
In definitiva, nessuna delle ragioni preclusive evidenziate in giurisprudenza e in dottrina osta all’applicabilita’ del principio codicistico della prevenzione nell’ipotesi in cui un regolamento locale si limiti a stabilire un distacco minimo tra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall’articolo 873 c.c., senza prescrivere altresi’ una distanza minima delle costruzioni dal confine o vietare espressamente la costruzione in appoggio o in aderenza.
In conclusione, se le norme regolamentari, cosi’ come in concreto strutturate, postulano solo l’esigenza del rispetto di una distanza minima tra fabbricati, non vi e’ alcun valido motivo per negare a colui che costruisca per primo la possibilita’ di avvalersi delle facolta’ connesse al principio di prevenzione in base alla disciplina codicistica.
Le norme dei regolamenti edilizi che fissano le distanze tra le costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile, infatti, in virtu’ del rinvio contenuto nell’articolo 873 c.c., hanno portata integrativa delle disposizioni dettate in materia dal codice civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga alle distanze minime previste dal codice, ma si estende all’intero impianto di regole e principi dallo stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i regolamenti locali possono eventualmente escludere, prescrivendo una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando espressamente la facolta’ di costruire in appoggio o in aderenza. Ne discende che un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilita’ di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla meta’ di quella prescritta tra le costruzioni, ne’ al prevenuto la corrispondente facolta’ di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli articoli 874, 875 e 877 c.c..
Allineata alle sezioni unite risulta anche ultima giurisprudenza amministrativa
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 24 gennaio 2017, n. 284
secondo la quale, deve trovare applicazione il principio di prevenzione di cui all’art. 873 c.c. secondo l’interpretazione offertane dalla Sezioni Unite della Cassazione con la pronuncia n. 10318/2016, secondo la quale: “Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c.”. Quindi, non era inibito all’originario controinteressato costruire in aderenza, come del resto si desume anche dall’art. 8 della L. 25/11/1962, n. 1684: “Qualora colui che per primo ha costruito si sia tenuto sul confine od a meno di tre metri da questo, il vicino, qualora, non intenda costruire in aderenza – à sensi dell’articolo 877 del Codice civile – deve arretrare fino a costituire l’intervallo di isolamento regolamentare fra i due edifici”. Anche nella disciplina dell’edilizia antisismica contenuta negli art. 6 e 8 l. 26 novembre 1962 n. 1684 è, infatti, integralmente accolto il principio della prevenzione espresso negli art. 875 e 877 c.c., con la conseguenza che nelle zone in cui si applica l’art. 8 della legge predetta il proprietario di un fondo non ancora edificato non ha diritto di opporsi alla costruzione eretta nel fondo del vicino a meno di m. 3 di distanza dal confine comune, dovendo in tal caso, qualora voglia costruire, arretrarsi sino a lasciare il prescritto intervallo di isolamento di m. 6 ovvero erigere la propria fabbrica in aderenza a quella preesistente.
Successivamente la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5146
nuovamente compulsata sul punto ha così affermato:
in tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni. Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in aderenza alla fabbrica realizzata per prima, se questa sia stata posta sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati. (Nella specie, in applicazione del richiamato principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto che l’indicazione di un distacco minimo tra fabbricati da parte di un regolamento edilizio comunale escludesse la facoltà, in capo ai proprietari dei fondi confinanti, di costruire in prevenzione, essendo implicito in quella disciplina il richiamo alla distanza da mantenere rispetto ai confini).
Ancora di recente la S.C.
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|17 settembre 2021| n. 25191
in tema di distanze legali, il principio della prevenzione di cui all’art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest’ultimo caso l’obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza.
Vale la pena, infine, osservare che il principio della prevenzione, nei rapporti tra privati, opera anche nel caso in cui la prima costruzione sia stata realizzata senza la prescritta concessione e quindi sia illegittima dal punto di vista urbanistico[37].
Inoltre, come stabilito anche in ultima pronuncia della Cassazione[38] è ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici, anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem.
La sanatoria o il condono degli illeciti urbanistici, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, esplicano i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici – amministrativi, penali e/o fiscali – e non hanno alcuna incidenza nei rapporti fra privati, lasciando impregiudicati i diritti dei privati confinanti derivanti dalla eventuale violazione delle distanze legali previste dal codice civile e dalla norme regolamentari di esse integratrici.
In altre parole, la concessione in sanatoria ha valore nei soli confronti della la pubblica amministrazione in quanto il rilascio della stessa, ai sensi degli artt. 31 e ss. della legge n. 47/85, non comporta alcuna deroga alla disciplina urbanistica limitandosi a disciplinare la regolarizzazione delle opere dal punto di vista amministrativo, penale e fiscale per fini di interesse pubblico, con la conseguenza che nelle controversie tra privati confinanti, in ipotesi di violazione delle norme di cui all’art. 873 c.c., non assume valenza scriminante[39].
Principio riaffermato con altra pronuncia dalla Corte di Piazza Cavour[40] secondo la quale, appunto, in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell’art. 873 c.c., i provvedimenti amministrativi concessori o di sanatoria edilizia, esplicando i loro effetti sul piano dei rapporti pubblicistici tra P.A. e privato costruttore, non hanno incidenza nel rapporti tra privati, i quali hanno ugualmente facoltà di chiedere la tutela ripristinatoria apprestata dall’art. 872 c.c. per le violazioni delle distanze previste dal codice civile e dalle norme regolamentari integratrici.
Peraltro, su un piano più ampio, è stato statuito[41] che la sanatoria prevista dagli artt. 31 e seguenti della legge 28 febbraio 1985 n. 47 e 39 della legge 23 dicembre 1994 n. 724 (cosiddetto condono edilizio) e quella rilasciata ai sensi dell’art. 13 della medesima legge n. 47 del 1985, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, non hanno alcuna incidenza nei rapporti fra privati, non valgono a mutare la normativa in concreto applicabile e non privano il proprietario del fondo contiguo leso dalla violazione delle norme urbanistiche edilizie, del diritto di chiedere ed ottenere l’abbattimento o l’arretramento dell’opera illegittima.
Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti
1) tanto la esistenza della concessione
2) quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione,
è del pari irrilevante la mancanza della licenza o della concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni normative sopraindicate (come ristabilito in altra sentenza della Cassazione[42] – secondo la quale ai fini dell’osservanza delle distanze legali tra costruzioni finitime, non assume rilevanza la circostanza che il nuovo manufatto non risulti in regola con i permessi amministrativi bensì il solo fatto che la violazione dei limiti privatistici ad esso ricondotta sia effettivamente sussistente.)
In altri termini[43] la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato, richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati dato che il conflitto tra proprietari, interessati in senso opposto alla costruzione, va risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera, in queste compresa la sua ubicazione, e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi quelle di cui agli artt. 31 della legge 17 agosto 1942 n. 1150 e 4 della legge 28 gennaio 1977 n. 10, concernenti rispettivamente la licenza e la concessione per costruire; norme, queste, che riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva e non contengono regole da osservarsi nelle costruzioni, come richiesto dall’art. 871 c.c.
Pertanto, come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’avere eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento del danno.
Infine, occorre precisare in riferimento al D.M. 1444 del 1968, che successivamente sarà meglio analizzato, come stabilito da ultima sentenza della Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 aprile 2023| n. 9685
l’articolo 9, n. 2, del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante va mantenuta la distanza di metri 10, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di metri 5 dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno metri 5 dal confine. Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di metri 10 dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all’interpello di cui all’articolo 875, comma 2, Cc, qualora ne ricorrano i presupposti.
D) Brevi cenni sulle norme nazionali e le norme locali (regolamenti e piani regolatori)
La materia delle distanze è regolata, oltre che dal codice civile, anche
A) da norme nazionali[44] e
B) da norme locali, cioè dai piani regolatori e dai regolamenti comunali, che, hanno natura integrativa e/o modificativa delle disposizioni dettate in materia di distanze legali tra proprietà finitime, avendo la finalità non solo di disciplinare i rapporti di vicinato fra privati ma anche quello di promuovere un ordinato assetto urbanistico[45].
Secondo un arresto della S.C.[46] le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l’altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l’assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l’utilizzazione edilizia dei suoli privati e, pertanto, la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino.
Questa Corte
- ha anche affermato che in tema di distanze legali, le norme del P.R.G. devono essere considerate integrative rispetto alla disciplina dettata dal codice civile, ove siano stabilite nelle materie disciplinate dall’articolo 873 c.c. e segg. e tendano ad armonizzare la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato con il pubblico interesse ad un ordinato assetto urbanistico, con la conseguenza che appartengono a tale novero le disposizioni del piano regolatore che stabiliscono una determinata distanza delle costruzioni dal confine del fondo[47];
- ha, inoltre, precisato che, nella materia in questione, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell’ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini; ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo é ammessa la sola tutela risarcitoria[48].
Sul punto è tornata la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 9 febbraio 2016, n. 2574
riaffermando il seguente principio: in tema di distanze legali, le norme degli strumenti urbanistici integrano la disciplina dettata dal c.c. nelle materie regolate dall’articolo 873 c.c. e ss., ove tendano ad armonizzare l’interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico del territorio con l’interesse privato relativo ai rapporti intersoggettivi di vicinato sicche’ vanno incluse in tale novero le disposizioni del piano regolatore generale dell’ente territoriale che stabiliscano la distanza minima delle costruzioni dal confine del fondo e non tra contrapposti edifici (v. Sez. U, Sentenza n. 20107 del 24/09/2014 Rv. 632855; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 3854 del 18/02/2014 Rv. 629629; Sez. 2, Sentenza n. 24013 del 24/09/2008 Rv. 605174; Sez. 2, Sentenza n. 17390 del 30/08/2004 Rv. 576384)
È cosa giusta, specificare, poi, che in materia urbanistica – poiché il piano regolatore generale edilizio si perfeziona, in quanto atto amministrativo complesso, solo dopo la sua approvazione da parte dei competenti organi di controllo e la relativa pubblicazione, non essendo sufficiente la mera adozione dello stesso – prima del perfezionamento di questo “iter” tale strumento urbanistico non può spiegare effetti integrativi del codice civile[49].
Di recente è stato, poi, nuovamente chiarito dalla S.C.
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza 16 ottobre 2020, n. 22589
in tema di distanze fra le costruzioni, le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l’approvazione del piano medesimo da parte dell’autorità regionale. Qualora uno dei due atti che costituiscono l’atto complesso sia annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l’applicazione delle misure di salvaguardia.
Ancora, infine, la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|2 febbraio 2022| n. 3241
ha riaffermato che sia le norme tecniche di attuazione del PRG che i regolamenti edilizi hanno valenza integrativa dell’articolo 873 c.c., sicchè la prevalenza delle diverse prescrizioni è – in materia – affidata essenzialmente ad un criterio di successione temporale delle norme locali.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che regolamenti edilizi comunali e le prescrizioni generali ed astratte dei piani regolatori generali e delle relative norme tecniche, avendo entrambe natura regolamentare o di atti amministrativi generali, sono subordinati solamente alle norme di rango primario in esecuzione delle quali sono stati emanati (Consiglio di Stato 2707/2012; Tar Brescia 1629/2011; Tar Firenze 2439/2008).
Si è perciò riconosciuto che, è munita di forza abrogativa la norma di un regolamento edilizio che disciplini “ex novo” tutta la materia delle distanze, con conseguente venir meno di una precedente disposizione derogatoria contenuta nelle norme di attuazione del piano regolatore generale (Consiglio di Stato 104/1994).
Il D.P.R. n. 380/01 ha ridisegnato nonché unificato una materia complessa ed assolutamente disarticolata quale quella urbanistica riunendo e coordinando la preesistente normativa di settore, ma senza introdurre, in realtà, novità significative rispetto al previgente ordinamento.
L’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, tutt’ora vigente, che disciplina i limiti di distanza tra i fabbricati, afferma:
le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale.
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di mt 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml 12.
Le distanze minime tra fabbricati – tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di: – ml. 5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7.- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15; – ml. 10,000 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15. Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche.
Il D.M. fissa dunque l’inderogabilità assoluta (come tra poco si specificherà) distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, vincolando, pertanto i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima, essendo consentita alla P.A. regionale o locale solo la fissazione di distanze superiori.
Con ultimo provvedimento il Consiglio di Stato[50]
ha riaffermato che la distanza minima fissata dall’art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro. La norma, in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico testè indicate, ha, dunque, carattere cogente e tassativo, prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva. L’applicabilità della normativa predetta, tuttavia, è subordinata alla indispensabile condizione della esistenza di due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata, tale che in mancanza la stessa non può trovare applicazione.
E’ stato, di recente,
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 3 ottobre 2018, n. 24076
anche precisato che la distanza minima di dieci metri tra le costruzioni, stabilita dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, deve osservarsi in modo assoluto, poiche’ la “ratio” della norma non e’ la tutela della riservatezza, bensi’ quella della salubrita’ e sicurezza. Tale norma va pertanto applicata indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle pareti di questi, purche’ sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Inoltre, la S.C.[51] ha avuto modo di ribadire che in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, secondo comma, del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765; ne consegue che, poiché il citato art. 9 dispone l’inderogabilità dei limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, i Comuni sono obbligati – in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici – a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono ove i regolamenti locali siano con esse in contrasto.
Nella specie, si continua a leggere nella sentenza in commento, può ritenersi pacifico che il regolamento vigente al momento della costruzione realizzata dai convenuti era stato adottato nel 1967 (prima dell’entrata in vigore del decreto del 1968) ma venne approvato nel 1971.
Orbene, continua la Cassazione, al fine di stabilire se lo stesso dovesse osservare le prescrizioni di cui al citato decreto ministeriale e se dovessero prevalere le disposizioni di quest’ ultimo in caso di contrasto, va considerata la natura del procedimento di formazione dello strumento urbanistico, che è un atto complesso, il quale si conclude con l’approvazione da parte dell’organo di controllo di guisa che, prima di tale atto, esso è improduttivo di effetti. Ne consegue che la circostanza che lo stesso fosse stata adottato in data anteriore al decreto n. 1444 del 1968 è irrilevante, posto che la normativa alla quale esso doveva conformarsi era quella vigente al momento della sua approvazione.
Pertanto, conclude la Corte, la sentenza ha erroneamente ritenuto che, essendo il regolamento locale preesistente all’entrata in vigore del d.m. n. 1444 del 1968, non trovassero applicazioni le più restrittive norme in materia di distanze tra fabbricati previste dal suddetto decreto.
È stato, poi, precisato[52] in merito agli interventi edilizi che assumano le caratteristiche della nuova edificazione non può che applicarsi la disciplina generale dettata per le nuove costruzioni (di cui al comma 1, n. 2, dell’art. 9), atteso che la necessità di evitare intercapedini dannose per la salute non cambia a seconda delle zone e anzi nelle zone A (caratterizzate da insediamenti più addensati) essa appare maggiormente pressante[53] .
Questo Collegio, aderendo all’orientamento di tale giurisprudenza maggioritaria, è dunque del parere che anche nelle zone A debba essere rispettata la distanza minima di 10 m, qualora l’attività edilizia superi il semplice restauro conservativo o la ristrutturazione dei volumi già esistenti, prevedendo nuova cubatura e modifiche della sagoma attraverso sopraelevazioni o innalzamenti.
Più in particolare è stato affermato che
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza del 23 gennaio 2018, n. 1616
In tema di distanze tra costruzioni, il Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, comma 1 – traendo la sua forza cogente dall’articolo 41 quinquies L. Urb., commi 8 e 9 e prescrivendo, per la zona A, per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti – e’ disciplina integrativa dell’articolo 873 c.c. immediatamente idonea a incidere sui rapporti interprivatistici, per cui, sia in caso di adozione di strumenti urbanistici contrastanti con la norma citata, sia con ancor maggior fondamento in caso di mancanza di contrasto e quindi in presenza di disposizioni di divieto assoluto di costruire, sussiste l’obbligo per il giudice di merito – nel primo caso mediante disapplicazione della disposizione illegittima, nel secondo caso mediante diretta applicazione della norma di divieto – di dare attuazione alla disposizione integrativa dell’articolo 873 c.c., ove il costruttore sia stato proprietario di un preesistente volume edilizio, mediante condanna all’arretramento di quanto successivamente edificato oltre i limiti di tale volume o, qualora invece non sussistesse alcun preesistente volume, mediante condanna all’integrale eliminazione della nuova edificazione.
Va da ultimo segnalato che la norma dettata dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968 è stata pacificamente ritenuta, da un lato integratrice dell’art. 873 c.c.[54] , dall’altro, dotata di “efficacia precettiva ed inderogabile”. Formula, quest’ultima, ribadita dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 134 del 2014, la quale configura altresì l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 come “costituente un corpo unico con la regolazione codicistica” e fonte principale della disciplina nazionale in materia di distanze tra edifici.
Conseguentemente, secondo il TAR Campania[55], ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata. L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
La prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
Ancora sul punto la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 26 luglio 2016, n. 15458
ha affermato i seguenti principi:
sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l’inserzione automatica, nello strumento urbanistico, della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante – in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all’art. 873 cod. civ. – anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno trovare applicazione né i criteri stabiliti dall’art. 873, né quelli di cui all’art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967;
quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha – per sua natura – carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse previsioni di uno strumento urbanistico successivo.
Altra Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 14 novembre 2016, n. 23136
è dovuta intervenire andando a precisare che:
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non e’, quindi, recata dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, u.c., bensi’ dallo stesso articolo 9, comma 1, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12424 del 20/05/2010). Come piu’ generalmente affermato da Corte cost. 23 gennaio 2013, n. 6, il Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, u.c., costituisce espressione di una “sintesi normativa”, consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di “efficacia precettiva e inderogabile”, solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici siano “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”.
Per lo effetto, non e’ ravvisabile fatto illecito, dal quale sia derivato un danno ingiusto risarcibile, nel comportamento osservato dal Comune, consistente nel rilascio di concessioni edilizie rivelatesi illegittime, e percio’ disapplicate, in quanto contrastanti con il Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, (norma che prescrive una distanza minima inderogabile immediatamente operante anche nei confronti dei privati dopo la predisposizione dello strumento urbanistico locale), non essendo configurabile un interesse legittimo pretensivo allo svolgimento di attivita’ edilizia oggettivamente non consentita dall’ordinamento, ne’ meritando tutela, alla stregua del diritto positivo, l’interesse al bene della vita correlato alle spese ed agli investimenti che la il richiedente la concessione era stato indotto a sostenere in conseguenza dell’affidamento riposto nelle illegittime concessioni edilizie conseguite.
Poi, secondo ultimo adagio di Palazzo Spada
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 30 dicembre 2016, n. 5552
in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, i detti elementi architettonici possono non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Inoltre, bisogna precisare, come da recente intervento della Cassazione
Corte di Cassazione, sezione sesta (seconda) civile, Ordinanza 8 febbraio 2019, n. 3890.
che la distanza minima di metri dieci e’ applicabile anche al caso in cui una sola delle pareti sia finestrata.
In riferimento al Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, che prevede una distanza di 10 metri delle costruzioni dalle “pareti finestrate”, tale disposizione esige in maniera assoluta il rispetto della distanza in questione, essendo destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale.
In tema di pareti finestrate l’obbligo di osservare determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute e non alle luci ma e’ ammissibile la tutela possessoria delle luci.
Sul punto ancora la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Sentenza|5 aprile 2022| n. 11048
di recente ha riaffermato che in materia di distanze tra fabbricati, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 va interpretato nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell’edificio preesistente, essendo sufficiente, per l’applicazione di detta distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, benché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, con la conseguenza che il rispetto della distanza minima è dovuto pure per i tratti di parete parzialmente privi di finestre.
Al fine di verificare se siano rispettati i vincoli di altezza fissati dai regolamenti edilizi quando l’entità del distacco tra fabbricati sia stabilita in rapporto all’altezza delle costruzioni che si fronteggiano, l’altezza da prendere in considerazione è quella dei prospetti che delimitano il distacco e deve essere misurata avendo riguardo al livello del suolo (anche con riferimento a quello di eventuali piani interrati) dei prospetti medesimi, dovendosi, in caso di fabbricati con prospetti su più fronti a quote diverse, aver riguardo, in particolare, all’altezza di ciascun prospetto.
Principio confermato anche da altra recente pronuncia
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|25 gennaio 2023| n. 2268
In tema di distanze nelle costruzioni il cosiddetto criterio della prevenzione, come già analizzato in precedenza, di cui agli artt. 873 e 875 c.c. è derogato dal regolamento edilizio locale nel caso in cui questo fissi le distanze non solo tra le costruzioni ma anche delle stesse dal confine, tranne che consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio.
Bisogna in sostanza distinguere due ipotesi:
1) se i regolamenti consentono la facoltà di costruire sul confine (in aderenza o in appoggio), come alternativa all’obbligo di rispettare una determinata distanza da esso, si verifica un’ipotesi del tutto analoga, sul piano normativo, a quella prevista e disciplinata dagli artt. 873 ss. c.c., con la conseguente operatività del principio della prevenzione, in base al quale chi edifica per primo sul fondo contiguo ad altro ha la triplice facoltà alternativa già analizzata.
2) viceversa quando il regolamento edilizio locale fissa le distanze non solo tra le costruzioni ma anche delle stesse dal confine, non opera il criterio della prevenzione, e quindi chi costruisce per primo ha la scelta fra il costruire alla distanza regolamentare e l’erigere la propria fabbrica fino ad occupare il limite estremo del confine medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine, con la conseguenza della necessaria ricostituzione della situazione antecedente.
Meno univoca (come già scritto sopra – in forza del recente quesito posto alle Sezioni unite dell’annoso problema), invece, è la soluzione concernente l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica.
La giurisprudenza consolidata ritiene, dunque, che solo in presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine si ponga l’esigenza di una equa ripartizione tra proprietari confinanti dell’onere di rispettare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una tale prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, con la conseguente possibilità, per il prevenuto, di costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati.
Calzante risulta essere, a parere di chi scrive, questa pronuncia della Suprema Corte[56] che sempre in tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l’operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, c.c.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
Ma, con l’intervento delle Sezioni unite
Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 19 maggio 2016, n. 10318
di cui già ampiamente illustrato nel precedente paragrafo, la Giurisprudenza di legittimità ha definitivamente espresso l’ammissibilità del criterio della prevenzione.
La misura minima dei 3 mt, tuttavia, riassumendo, è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate dal comma II dell’art. 9:
è consentito edificare a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal comma I soltanto
1) per i piani particolareggiati[57] e
2) per le lottizzazioni convenzionate[58],
e non anche per gli interventi edilizi diretti, consentiti dallo strumento urbanistico, interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire.
Orbene la Cassazione[59], ha più volte affermato che in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal primo comma dello stesso articolo 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
Con ultimo provvedimento la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 7 novembre 2017, n. 26354
ha riaffermato che:
L’ipotesi derogatoria contemplata del Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, u.c., che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione (“Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”), riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata.
Ove le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non e’, quindi, recata del Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9, u.c., bensi’ dal comma 1 dello stesso articolo 9 (“Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…)”), quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva.
Come piu’ generalmente affermato da Corte Cost. 23 gennaio 2013, n. 6, del Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, u.c., costituisce espressione di una “sintesi normativa”, consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di “efficacia precettiva e inderogabile”, solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici siano “inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio”.
Per la Suprema Corte[60] in tema di distanze nelle costruzioni, stante la sostanziale identità tra piano regolatore e programma di fabbricazione, già affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 23 del 1978, anche nei comuni dotati di regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione é legittimo adottare, in attuazione di quest’ultimo, strumenti più dettagliati volti a disciplinare l’attività urbanistico-edilizia in particolari zone del territorio comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici, organici e funzionali, adeguati alla specificità di singoli settori urbani. In tali casi, siffatti strumenti attuativi possono legittimamente derogare alle prescrizioni generali sulle distanze contenute nell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 (nella specie, quella sulla distanza di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti).
Per di più, sempre secondo la Cassazione[61], il riferimento fatto da un regolamento edilizio a “lotti liberi da preesistenti costruzioni” ad una certa data, va inteso nel significato tecnico proprio della materia urbanistica e, quindi, riguarda la porzione di un’area più vasta oggetto, a sua volta, di suddivisione inequivocabilmente destinata all’edificazione, secondo un progetto diretto a tale scopo e con la predisposizione di opere rivelatrici della futura lottizzazione, non rilevando il solo frazionamento e la cessione del terreno in porzioni separate (nella specie avvenuti prima della data presa a riferimento dal regolamento edilizio).
Poi, secondo sempre la Corte di Piazza Cavour[62] in tema di distanze tra le costruzioni, stante la sostanziale identità tra piano regolatore e programma di fabbricazione, anche nei Comuni dotati di regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione è legittimo adottare, in attuazione di quest’ultimo, strumenti più dettagliati volti a disciplinare l’attività urbanistico edilizia in particolari zone del territorio comunale, secondo uniformi criteri planovolumetrici, organici e funzionali adeguati alla specificità di singoli settori urbani. In tali casi questi strumenti attuativi possono derogare alle prescrizioni generali sulle distanze contenute nell’articolo 9 del Dm Lavori pubblici n. 1444 del 1968.
In merito ad un caso particolare, la S.C.[63] ha affermato che ai fini della derogabilità, in sede regolamentare, delle norme in materia di distanze legali con riferimento ai cd bassi fabbricati, ciò che rileva non è la unità strutturale della costruzione, ma che la costruzione accessoria (autorimessa o locale) sia effettivamente vincolata in base alla concessione edilizia e che rispetti le dimensioni dettate dalla norma regolamentare, ben potendo unirsi alla costruzione “principale”.
Con altro intervento, come già segnalato in precedenza, la Corte di Legittimità[64] ha avuto modo di precisare, in un caso di specie, che lo Studio Unitario d’Ambito (SUA) e la Convenzione Programma, relativi al territorio comunale, non possono essere equiparati per analogia, ad un piano particolareggiato o ad una lottizzazione convenzionata.
Per la Corte, l’equiparazione, astrattamente ipotizzabile, non é concretamente sostenibile essenzialmente perché, tenuto conto della normativa di cui all’articolo 32 della Legge urbanistica Piemontese n. 56 del 1977, lo Studio Unitario d’Ambito non é uno strumento urbanistico esecutivo al pari della lottizzazione convenzionata o del piano particolareggiato, cui fa riferimento l’ultima parte del Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, u.c., ma é un programma da tradurre successivamente in un atto di pianificazione secondaria, ovvero, in uno strumento urbanistico esecutivo.
Come bene afferma la Corte di merito, nel caso in esame, lo Studio Unitario d’Ambito non poteva essere assimilato alla lottizzazione convenzionata o ad un piano particolareggiato, anche perché la Convenzione programma non individuava neppure gli strumenti idonei a garantire l’attuazione completa dell’auspicata trasformazione della zona, tanto é vero che la relazione illustrativa (dello Studio Unitario d’Ambito) specificava che la trasformazione del sub ambito 2 sarebbe avvenuta sempre per mezzo di PEC e di Concessione.
E di più, ad ulteriore conferma dell’esclusione dell’assimilazione dello Studio Unitario d’Ambito ad un piano particolareggiato o ad una lottizzazione convenzionata, la Corte torinese ha avuto modo di chiarire che le misure idonee ad assicurare l’azione coordinata per garantire la progressiva attuazione degli interventi e la complessiva trasformazione dell’ambito 2, nel caso in esame, non esistevano proprio, perché in relazione al sub-ambito 2, la Convenzione Programma, non poteva che limitarsi a prendere atto che la trasformazione non era prevedibile, né che avvenisse, né quando, perché l’area era attualmente occupata da residenza ed attività artigianali.
La deroga alle distanze minime è ammessa, quindi, soltanto per la pianificazione attuativa e non, si ripeta ancora una volta, anche per i titoli abilitativi diretti tra i quali figura il permesso di costruire.
In effetti secondo la corte d’appello Partenopea [65] le costruzioni eseguite senza osservare le disposizioni sui limiti di distanza fra fabbricati stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici vigenti all’epoca delle costruzioni stesse sono sanate solo nell’ipotesi in cui le nuove previsioni contenute in leggi e negli strumenti urbanistici successivamente approvati consentano quelle edificazioni che prima erano vietate e non anche nell’ipotesi opposta in cui disposizioni di legge o previsioni di strumenti urbanistici successivi escludano l’edificabilità in maniera assoluta; in tale ultima ipotesi le disposizioni sulle distanze fra fabbricati stabilite dall’art. 873 c.c. trovano applicazione nei rapporti tra privati solo per le costruzioni eseguite dopo l’entrata in vigore delle nuove previsioni urbanistiche.
Altra inderogabilità è prevista per i piani di recupero del patrimonio edilizio, difatti per la Corte di Cassazione[66] in tema di distanze tra costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani di recupero formati ai sensi dell’art. 28 L. n. 457/1978 per la rimozione dello stato di degrado del patrimonio edilizio comunale sono soggette all’osservanza delle disposizioni del piano regolatore generale quali norme di grado superiore, sicché, in caso di interventi edilizi previsti dal detto piano di recupero, non è ammissibile la deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali in tema di distanze tra costruzioni; d’altra parte, la esistenza di una autorizzazione da parte del Comune alla edificazione, facendo salvi i diritti dei terzi, è priva di rilevanza nei rapporti tra privati, i quali, ove lesi dalla costruzione realizzata senza il rispetto delle disposizioni sulle distanze, conservano il diritto a ottenere la riduzione in pristino.
Infine, l’art. 9 del D.M. n. 1444/68 è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione e, dunque, anche alle ristrutturazioni che comportino un incremento non trascurabile dell’altezza del fabbricato. Infatti secondo la Suprema Corte[67] la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione.
E) La deroga alle norme del codice civile mediante convenzione tra privati
Prima di tutto occorre precisare, come da ultimo ha avuto modo di riaffermare la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Sentenza|15 settembre 2021| n. 24940.
che questa Corte, invero, ha avuto piu’ volte modo di affermare che le convenzioni tra privati, con le quali si stabiliscono reciproche limitazioni o vantaggi a favore e a carico delle rispettive proprieta’ individuali specie in ordine alle modalita’ di edificabilita’, restringono o ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprieta’, attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realita’ inquadrabili nello schema delle servitu’, senza che siffatto carattere venga meno qualora le parti non la menzionino espressamente, e che, pertanto, nell’ipotesi, come quella in esame, di (accertata) inosservanza della convenzione (contenuta, nella specie, nel regolamento consortile) limitativa, con carattere di realita’ (concernendo sin da subito i fondi confinanti), dell’edificabilita’, il proprietario del fondo dominante puo’ agire nei confronti del proprietario del fondo servente con azione di natura reale per chiedere ed ottenere la demolizione dell’opera abusiva, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni previste dagli articoli 872 e 873 c.c. (cfr. Cass. n. 4770 del 1996; Cass. n. 4624 del 1984).
In effetti, “al fine di accertare se… i contraenti abbiano inteso costituire una servitu’ prediale a vantaggio o a carico di fondi esistenti ovvero dei costruendi edifici, e’ necessario far ricorso al criterio dell’attualita’ e meno dell’utilitas in cui si concreta il contenuto della servitu’, poiche’ se l’utilitas presuppone la costruzione degli edifici, nel senso che, in loro mancanza, il contenuto del rapporto risulterebbe privo dell’inerenza necessaria a dare vita concreta alla servitu’ (come, ad esempio, nel caso di servitu’ di veduta, di stillicidio, di acquedotto per dotare di acqua l’erigenda costruzione), si verte nell’ipotesi contemplate dell’articolo 1029 c.c., comma 2 e, pertanto, il patto costitutivo della servitu’ ha efficacia meramente obbligatoria, in quanto la servitu’ sorge soltanto con la realizzazione della costruzione, mentre, qualora il vantaggio ed il corrispondente peso siano indipendenti da tale realizzazione edificatoria in guisa da inerire direttamente ai suoli non ancora edificati con carattere di realta’ – come si verifica normalmente nelle pattuizioni che, vietando di costruire ad una certa distanza dal confine, limitano, da un lato, l’edificabilita’ del fondo servente, restringendo i poteri di godimento e di utilizzazione inerenti al relativo diritto di proprieta’, e attribuiscono, dall’altro, i corrispondenti vantaggi al contiguo fondo dominante, ancora prima e indipendentemente dalla sua avvenuta edificazione -, si verte nell’ipotesi, prevista dal primo comma del citato articolo, di servitu’ immediatamente costituita con carattere ed effetti reali” (Cass. n. 1267 del 1996, in motiv.; Cass. n. 8227 del 1997; Cass. n. 8885 del 2000; Cass. n. 235 del 1982; Cass. n. 5287 del 1983).
Si tratta di un concetto che questa Corte ha espresso sin dalla sentenza n. 4142 del 1976: quando, in particolare, aveva chiarito che “le pattuizioni con le quali i proprietari di piu’ lotti vicini, compresi in una lottizzazione di aree fabbricabili, stabiliscono i criteri ai quali ciascuno dovra’ conformarsi nell’esecuzione degli edifici da costruirsi, rientrano nella figura della servitu’ a favore o a carico di un edificio da costruire, di cui al capoverso dell’articolo 1029 c.c., tale diritto ha natura reale sin dall’origine, dovendo ritenersi costituito a favore del suolo su cui l’edificio dovra’ sorgere ed al quale mira precisamente ad assicurare i cospicui vantaggi derivanti da una determinata futura utilizzazione edificatoria, che, secondo le comuni regole in materia di rapporti di vicinato tra proprietari confinanti, sarebbe invece vietata”.
I divieti di costruire ad una certa distanza dal confine ovvero quelli di edificare oltre certi limiti comportano, sotto questo profilo, un’immediata limitazione dell’edificabilita’ del fondo (servente), che si sostanzia, per un verso, nella restrizione dei poteri di godimento e di utilizzazione del medesimo e, per altro verso, in un altrettanto immediato accrescimento dell’utilitas del contiguo fondo (Cass. n. 8227 del 1997).
In effetti, le pattuizioni con le quali vengono poste a carico di un fondo ed a favore di altri limitazioni di edificabilita’, restringono permanentemente i poteri connessi alla proprieta’ dell’area gravata e mirano ad assicurare stabilmente e correlativamente particolari utilita’ a vantaggio del proprietario dell’area contigua, sicche’ tali pattuizioni si atteggiano, rispetto ai terreni che vi sono considerati, a permanente minorazione della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia o ne divenga proprietario, ed attribuiscono al fondo vicino un corrispondente vantaggio che a questo inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realita’ tali da inquadrarsi nello schema delle servitu’, senza che siffatto carattere venga meno qualora le parti non parlino espressamente di servitu’ (Cass. n. 14580 del 2012).
Tale principio trova applicazione anche per l’ipotesi in cui pattuizioni di tale natura siano contenute nelle clausole di uno statuto consortile, onde assicurare all’intera zona particolari caratteristiche di amenita’ o comodita’, ed abbiano introdotto, com’e’ accaduto nel caso di specie, i limiti di costruibilita’ attraverso il rinvio (diretto o indiretto, e cioe’ per il tramite dell’autorizzazione comunale) a corrispondenti disposizioni del regolamento edilizio comunale, atteso che tale richiamo inserisce le stesse nel rapporto convenzionale e le rende operanti nei confronti delle relative parti (cfr. Cass. n. 4399 del 1982).
In ordine alle deroghe, in linea di massima ha stabilito la Suprema Corte che le norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c., sono derogabili mediante convenzione tra privati.
Ma tale convenzione, atto eccezionale, in primis non deve incidere negativamente sui diritti o le facoltà di terzi estranei alla convenzione richiamata[68].
Deve ricordarsi che l’accordo tra vicini con il quali si deroghi, a favore di uno di essi, alle distanze legali nelle costruzioni non può essere che un contratto costitutivo di servitù[69] ex art. 1058 c.c., dato che, in tal caso, col venir meno del limite legale, si acquista, come diritto reale, la facoltà di invadere la sfera esclusiva di un fondo per l’utilità di un altro fondo.
Ancora la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 febbraio 2021| n. 3684
ha avuto modo di precisare che alfine di mantenere una costruzione a distanza minore di quella prescritta dalla legge, non è sufficiente un'”autorizzazione” scritta unilaterale del proprietario del fondo vicino, che acconsenta alla corrispondente servitù, essendo, al contrario, necessario un contratto che, pur senza ricorrere a formule sacramentali, dia luogo alla costituzione di una servitù prediale, ex art. 1058 c.c., esplicitando, in una dichiarazione scritta, i termini precisi del rapporto reale tra vicini, nel senso che l’accordo, risolvendosi in una menomazione di carattere reale per l’immobile che alla distanza legale avrebbe diritto, a vantaggio del fondo contiguo che ne trae il corrispondente beneficio, faccia venir meno il limite legale per il proprietario del fondo dominante, che così acquista la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente.
Le norme degli strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini – invece – non sono derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica e come tali inderogabili, con la conseguente invalidità delle convenzioni in contrasto con dette norme, anche tra i proprietari di fondi confinanti che le hanno pattuite.
Infatti, secondo la Corte di Piazza Cavour[70] in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati; tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici.
Pertanto, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi sono dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, e quindi non sono derogabili dai privati: ne consegue dunque l’invalidità, anche nei rapporti interni, delle convenzioni stipulate fra proprietari confinanti le quali si rivelino in contrasto con le norme urbanistiche in materia di distanze, salva peraltro rimanendo la possibilità, per questi ultimi, di accordarsi sulla ripartizione tra i rispettivi fondi del distacco da osservare.
Principio riaffermato anche con la sentenza sopra richiamata
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 febbraio 2021| n. 3684
mentre le deroghe pattizie sono consentite relativamente alle norme sulle distanze di cui all’articolo 873 c.c., dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli, non altrettanto puo’ dirsi in relazione alle disposizioni regolamentari in materia di distanze, poiche’ in tal caso la concessa azione di riduzione in pristino e’ volta a mantenere in vita un potere privato, concorrente con quello amministrativo, idoneo ad assicurare, attraverso la rimozione dell’opera illegittima, lo stesso risultato pratico perseguibile con i propri mezzi dalla P. A. e la completa attuazione dell’interesse generale alla realizzazione del modello urbanistico prefigurato: cio’ a maggior ragione quando la norma regolamentare imponga di calcolare la distanza dal confine tra i fondi. Ne consegue che, nel caso di specie trattato dalla Cassazione, ove pure il “consenso all’esecuzione del sopralzo” fosse inteso come esplicitante la volonta’ delle parti di derogare alle norme in tema di distanze dal confine contenute nel programma di fabbricazione del Comune di Capo di Ponte, si tratterebbe comunque di convenzione senz’altro invalida, trattandosi di norme inderogabili perche’ non si limitano a disciplinare i rapporti intersoggettivi di vicinato, ma mirano a tutelare anche interessi generali (cfr. Cass. Sez. 2, 04/05/2018, n. 10734; Cass. Sez. 2, 28/09/2004, n. 19449; Cass. Sez. 2, 04/02/2004, n. 2117; Cass. Sez. 2, 23/11/1999, n. 12984; Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353; Cass. Sez. 2, 16/11/1985, n. 5626).
F) Nozione di costruzione
“Costruzione”, ai fini della disciplina dettata dall’art. 873, è un concetto che non si esaurisce nella dicotomia di “edificio – fabbricato” o di struttura realizzata con muri di cemento o laterizi, ma, come ha chiarito la giurisprudenza, si estende a qualsiasi opera stabilmente infissa al suolo.
Ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, la nozione di “costruzione” comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo[71].
In generale, pertanto, rientra nel concetto di costruzione ogni manufatto, di qualunque materiale esso sia costituito, che emerga in modo sensibile al di sopra del livello del suolo o non sia completamente interrato, e che, pur difettando di una propria individualità, per struttura, solidità, compattezza, consistenza e sporgenza dal terreno, sia idoneo a creare quelle intercapedini dannose, in quanto impediscono il passaggio di aria e luce, che lalegge, stabilendo la distanza minima fra le costruzioni, intende evitare.
In altre parole, è necessario che l’opera sia immobilizzata rispetto al suolo, a nulla rilevando che tale collegamento sia avvenuto mediante l’impiego di malta cementizia, ovvero con mezzi meccanici i quali consentano, mediante procedimenti e manovre inversi, una nuova mobilitazione e l’asportazione del manufatto[72].
Ne consegue che si può parlare di costruzione indipendentemente dal livello di posa dell’opera, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall’uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua destinazione.
I suddetti caratteri, nel caso in cui l’opera da valutare sia costituita da più parti tra loro strutturalmente collegate in maniera stabile e in misura tale da costituire un’entità unica e inscindibile sul piano economico-funzionale, devono essere verificati dal giudice di merito riguardando l’opera nel suo insieme e non nelle singole sue parti, e rapportando, quindi, alla stessa, unitariamente considerata, il giudizio sull’idoneità alla creazione di intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza e alla salubrità del godimento della proprietà immobiliare, idoneità rilevante peraltro al solo fine di stabilire se un’opera presenti le caratteristiche e la natura di costruzione, ma non per decidere, in caso di riscontro positivo, se essa sia soggetta o non all’osservanza delle norme sulle distanze prescritte[73].
Secondo la S.C.[74] ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dagli artt. 873 e seguenti c.c.e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa.
Principio recepito anche dalla giurisprudenza di merito la quale ha previsto che il legislatore, all’art. 873 c.c., si è limitato a stabilire che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri“. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore senza, tuttavia, precisare cosa debba intendersi per “costruzione“.
Altra giurisprudenza ha specificato il concetto in questione precisando che per “costruzione“, ai sensi dell’art. 873 c.c., deve intendersi qualsiasi manufatto avente le caratteristiche della solidità, della stabilità, della compattezza ed immobilizzazione rispetto al suolo, precisando, altresì, che non deve trattarsi di opera completamente interrata[75].
Secondo il Tribunale Brianzolo [76] costituisce costruzione anche il manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, vale a dire qualunque struttura che emergendo in modo sensibile dal suolo (emersione sensibile – concetto del tutto nuovo), abbia le caratteristiche di stabilità e consistenza e che, proprio in ragione di tale consistenza, sia idoneo a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della proprietà.
Ancora, da ultimo intervento della Cassazione[77] si è nuovamente puntualizzato che la nozione di costruzione, agli effetti dell’articolo 873 c.c., é unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali é circoscritto alla sola facoltà di stabilire una “distanza maggiore”.
Orbene, la giurisprudenza di questa Corte [78] – continua la sentenza in commento – é del tutto costante nel ritenere che ai fini dell’applicazione delle norme sulle distanze dettate dall’articolo 873 c.c. e ss., o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per “costruzione” deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo[79], indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente, dall’impiego di malta cementizia.
Ed é altrettanto costantemente affermato[80], in tema di distanze legali, che mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’articolo 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione, devono ritenersi soggetti a tale norma, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente.
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, conclude la Cassazione, deve solo aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione di carattere terminologico sulle espressioni di “terrapieno naturale” e di “terrapieno artificiale” o antropico. La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un muro o) sostenuto da un muro é per definizione opera dell’uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause non immediatamente riferibili all’attività dell’uomo. Dunque, a termini dell’articolo 873 c.c., i muri di sostegno di terrapieni sono costruzioni.
In definitiva, è stato pronunciato il seguente principio di diritto: la nozione di costruzione, agli effetti dell’articolo 873 c.c., é unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali é circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore. Pertanto, é illegittima, e va dunque disapplicata, la norma tecnica d’attuazione del P.R.G. del comune di Pergine Valsugana in materia di distanze delle costruzioni dal confine, sia nella sua formulazione vigente, secondo cui i muri di contenimento con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni o rampe fino a 45 possono essere costruiti nel solo rispetto delle distanze previste dal codice civile, sia nella sua formulazione anteriore, in base alla quale i muri con altezza inferiore a m.1,50 a sostegno di terrapieni, o rampe fino a 45 (pendenza 100%), non costituiscono costruzione e pertanto non debbono rispettare le distanze dai confini.
Anche altra Cassazione[81] recentissima ha riaffermato il principio secondo cui la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità, della immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso con una preesistente fabbrica, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall’uniformità e continuità della massa e dal materiale impiegato per la sua realizzazione.
Sul punto è intervenuta antecedentemente altra pronuncia della S.C.[82] affermando che costituisce costruzione anche un manufatto privo di pareti ma realizzante una determinata volumetria, e pertanto la misura delle distanze legali per verificare se il relativo obbligo è stato rispettato deve esser effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso. Nel caso affrontato la tettoia metallica in questione è stata considerata una costruzione ai fini della distanza dal confine, dal fatto che ha i caratteri della stabilità, consistenza ed immobilizzazione al suolo, pertanto la costruzione di pareti è stata ritenuta irrilevante ai fini dell’osservanza della distanza.
In merito alle tettoie il Consiglio di Stato[83] ha avuto modo di riaffermare che laddove una tettoia sia di consistenza oggettivamente notevole e quindi tale ex se da alterare in modo significativo l’assetto del territorio, essa, quand’anche si trovi in rapporto con altro bene (c.d. principale) e sia in potenza facilmente smontabile, si sottrae per ciò solo ad una definizione in termini di pertinenza, restando di conseguenza soggetta al regime concessorio proprio delle nuove costruzioni.
Per recente Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5142.
allineata alle precedenti costituisce “costruzione”, ai sensi dell’art. 873 c.c., anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria ed abbia i caratteri della stabilità, della consistenza e dell’immobilizzazione al suolo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva qualificato come costruzione una tettoia aperta su un lato e saldamente fissata con la copertura al muro di confine, i cui montanti, pur essendo dei cavalletti mobili, erano cementati al suolo).
Inoltre nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (ad esempio una scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia[84].
Principio ripreso anche da altra Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 10 ottobre 2018, n. 25115
Pertanto, sempre per altra Cassazione[85] anche gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell’immobile, così da ampliarne la superficie o la funzionalità economica sono soggetti al rispetto della normativa sulle distanze.
Per altra recente pronuncia
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|25 gennaio 2023| n. 2268
le costruzioni di natura accessoria e pertinenziale, peraltro, possono ritenersi sottratte alle disposizioni di cui agli strumenti urbanistici, con riguardo ai fabbricati in genere, solo se e nei limiti in cui gli strumenti stessi contengano una esplicita deroga in tal senso (Cass., Sez. 2, 06/05/1987, n. 4208; sent. n. 428 del 1977, n. 426 del 1981), sebbene le deroghe alle distanze tra costruzioni applicabili ai manufatti di natura accessoria e pertinenziale non trovino applicazione ove l’unita’ strutturale della costruzione “secondaria” con quella “principale” impedisca di considerare la prima, indipendentemente dall’uso cui e’ destinata, come costruzione a se’ stante, dotata di sue autonome dimensioni e caratteristiche e, pertanto, di qualificarla come accessoria alla seconda, essendo entrambe parti integranti di un unico intero fabbricato (Cass., Sez. 2, 28/02/2018, n. 4657).
In merito alle pertinenze il Consiglio di Stato[86] con la sentenza già riportata ha, ulteriormente, specificato che la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l’assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall’interessato.
Per quanto riguarda il concetto di volume tecnico per la Corte di legittimità[87] in tema di distanze legali tra fabbricati, integra la nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria della costruzione, solo l’opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanta destinata a contenere impianti serventi – quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore – di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa. Nella specie, entrambi i locali di proprietà ricorrente, ossia tanto quello adibito a “dispensa, lavanderia e cucina”, quanto il garage, cosi’ come accertati e qualificati nella sentenza impugnata, non sono stati ricondotti alla nozione di volumi tecnici o comunque accessori ai sensi dell’articolo 53 delle N.T.A. del P.R.G., essendo ad essi estranea una funzione puramente tecnologica e di servizio.
Sono, invece, sottratti al calcolo gli elementi che hanno funzione puramente ornamentale, le condutture elettriche ed i pali che le sostengono, i manufatti interrati, i muri di contenimento. Proprio in merito a tale ultimo elemento secondo il T.A.R. Calabrese il muro di contenimento di una scarpata, o di un terrapieno naturale, non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento[88].
Con altra non lontana pronuncia il Consiglio di Stato[89] ha confermato la giurisprudenza richiamata affermando che in tema di distanze legali tra gli edifici rientrano nel concetto civilistico di costruzioni le parti dell’edificio (quali, ad esempio, le scale e le terrazze) che, seppur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere nonché ampliare la consistenza del fabbricato. Non sono, invece, computabili quelle sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di finitura, oppure accessoria di entità limitata (mensole, grondaie ecc.). Si può leggere testualmente in sentenza, ricordando precedenti giurisprudenziali sul tema che ……… lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l’obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.
In ogni caso la nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali da parte delle norme secondarie. Pertanto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore[90].
Ma, non una distanza minore o un profilo diverso di concetto, infatti, da ultimo la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|| n. 16975
ha affermato in merito alla trasformazione di una pompeiana in tettoia, che comporti un aumento della sagoma d’ingombro in un edificio, la quale costituisce una nuova costruzione, soggetta al rispetto della disciplina sulle distanze legali. Ne consegue l’irrilevanza del carattere accessorio della costruzione, risultante dalle norme tecniche di attuazione del p.r.g. di un ente locale, atteso che le norme locali non possono modificare la nozione di costruzione risultante dalle disposizioni codicistiche.
In definitiva, esaustiva in termini, è ultima pronuncia della Corte di legittimità[91] secondo la quale, appunto, in tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di “costruzione” le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. “aggettanti”) che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Massima ribadita anche con altra recente pronuncia
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 28 settembre 2018, n. 23543.
secondo la quale, appunto, in tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondita’ ed ampiezza
D’altra parte, agli effetti di cui all’art. 873 c.c., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art.873 c.c. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica[92]. Nella specie, la Corte di merito ha escluso, attraverso una indagine di fatto, che la terrazza costituisca un aggetto sottratto alla disciplina in materia di distanze, rilevando che essa è costituita da un piano di calpestio, da un parapetto in muratura e da una stabile copertura sovrastante, che concorrevano alla creazione di un volume, e che, quindi, essendo posta ad una distanza dal confine inferiore ai cinque metri, come rilevato in sede di c.t.u., è soggetta al rispetto delle distanze.
Sul punto, però, da ultimo il Consiglio di Stato[93] ha precisato che se pure costituisce disposizione inderogabile e ha natura di ordine pubblico la regola (art. 9 D.M. 1444 del 2 aprile 1968) che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, il balcone aggettante, avente funzione architettonica o decorativa può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano li preveda[94], al di là del richiamo che il regolamento comunale effettua agli “aggetti”, differenziandoli dalle “sporgenze”.
Infine, da ultimo la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|| n. 25829
ha avuto modo di precisare che in tema di distanze legali, esiste, ai sensi dell’articolo 873 del Cc, una nozione unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata, anche se realizzata mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa. I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie, non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’articolo 873 del Cc ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.
Tenendo conto della ratio della norma, e venendo ad una breve disamina dei casi particolari, la Cassazione e la Giurisprudenza di merito hanno qualificato come costruzione:
– la tettoia che avanzi rispetto all’edificio già esistente[95];
– una baracca di zinco costituita solo da pilastri sorreggenti lamiere, priva di mura perimetrali ma dotata di copertura[96];
– i balconi[97];
– una pensilina costruita su un terrazzo con materiali metallici;
In merito, per una pronuncia del Tribunale Modenese[98] qualora sia stata costruita in aderenza ad magazzino una pensilina a tettoia, stabilmente infissa all’edificio, tale manufatto presenta le caratteristiche di una costruzione edilizia, trattandosi di opera stabilmente ancorata al fabbricato.
Questa conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza di legittimità[99] secondo la quale “in relazione alle prescrizioni di cui all’art. 873 c.c. costituisce “costruzione “anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, sicché – al fine di verificare l’osservanza o meno delle distanze legali – la misura deve essere effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso (nella specie, tettoia)”.
Inoltre, si continua a leggere nella pronuncia di merito che peraltro, anche a voler ritenere che la tettoia, così come esistente all’epoca di introduzione del giudizio, costituisca una pensilina, si deve rilevare che – per le sue ampie dimensioni – la stessa non può essere considerata un semplice sporto, non calcolabile nelle distanze.
Secondo l’orientamento espresso dalla Suprema Corte[100], infatti, in tema di distanze legali tra edifici, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
– una pensilina di una pompa di benzina[101];
– scala esterna in muratura, qualora questa, presenta connotati di consistenza e stabilità[102];
– un chiosco annesso all’impianto di distribuzione di carburante;
– un manufatto, con finestra, coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, destinata a fienile, magazzino e pollaio;
– un manufatto avente strutture portanti di profilati metallici, tamponature esterne in vetro e copertura in materiale tipo eternit , e un forno per verniciatura costituito da un manufatto chiuso prefabbricato in lamiera metallica, dotato della stessa copertura dell’autofficina e, come questa, stabilmente immobilizzato per incorporazione al suolo[103].
– un’autorimessa ovvero tettoia a copertura di posti-auto[104], anche se munita di pareti laterali a graticcio[105];
– un barbacane[106] quale elemento costruttivo di completamento dell’edificio;
– traliccio metallico alto oltre trenta metri con annessa cabina, destinata alla diffusione radiomobile[107];
– il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall’opera dell’uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle distanze previste dall’art. 873 c.c.e dalle eventuali norme integrative[108];
– un corpo avanzato, privo di aperture, incorporato in uno degli edifici antistanti[109];
– la modificazione del tetto di un fabbricato che integra sopraelevazione e, come tale, una nuova costruzione soltanto se essa produce un aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti, così incidendo sulla struttura e sul modo di essere della copertura[110];
In tema la stessa Cassazione[111], con ultima pronuncia ha affermato che in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione.
Ancora[112], costituisce nuova costruzione qualsiasi modifica della volumetria del fabbricato, derivante sia dall’aumento della sagoma di ingombro sia da qualsiasi sopraelevazione, ancorché di dimensioni ridotte. In entrambi i casi, la normativa da rispettare ai fini delle distanze è quella vigente al momento della modifica suddetta, anche se sopravvenuta rispetto alla costruzione originaria, né rileva la prevenzione, essendo ugualmente obbligati al rispetto della nuova distanza sia il preveniente sia il prevenuto.
Sempre per ultima Cassazione[113] in materia di distanze legali fra edifici, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando la modifica della volumetria del fabbricato con aumento della sagoma di ingombro, costituisce nuova costruzione, soggetta alla disciplina sulle distanze legali in vigore al momento della sua effettuazione; ne consegue che, qualora tale normativa sia diversa da quella prevista per la costruzione originaria, il preveniente non potrà sopraelevare in allineamento con l’originaria costruzione, non trovando applicazione il criterio della prevenzione, che – nel caso di costruzione sul confine – impone a colui che edifica per primo di costruire in corrispondenza della stessa linea di confine su cui ha innalzato il piano inferiore oppure a distanza non inferiore a quella legale, in modo da non costringere il prevenuto ad elevare a sua volta un immobile a linea spezzata[114] .
Infine, sul punto è stato specificato[115] la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione”.
Ancora sul punto la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|21 giugno 2022| n. 20048
ha ritenuto necessario riaffermare il seguente principio: In tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest’ultima. In particolare, alla sopraelevazione è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione.
– la centralina telefonica installata dalla T. davanti al prospetto di alcune abitazioni rappresenta una costruzione in senso tecnico[116].
– ampliamento volumetrico in caso di ristrutturazione e ricostruzine;
Secondo la Cassazione e la giurisprudenza di merito, non rientrano, invece, nel concetto di costruzione e non sono quindi soggette alla normativa sulle distanze:
– le condutture elettriche ed i pali che le sostengono[117];
– una caldaia murale[118];
– uno zoccolo basso in muratura con rete metallica infissa[119];
– i manufatti realizzati all’interno di preesistenti costruzioni eseguite in appoggio o in aderenza ad un muro comune sul confine;
– la canna fumaria, come da ultima sentenza della Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 23 maggio 2016, n. 10618
– un campo da tennis ad uso privato, dato che la rete metallica che di solito circonda simili campi, non può formare un’intercapedine e come tale non rientra nella previsione dell’art. 873;
– una veranda ed una serra, per il Tribunale Trentino (Tribunale di Trento – Sentenza 3 giugno 2016 n. 595), la giurisprudenza amministrativa è pressoché unanime nel sostenere che «la realizzazione di manufatti (del tipo veranda) posti a chiusura di uno spazio aggregato a quello dell’edificio principale, in maniera tale da modificarne la sagoma e creare nuovo volume, costituiscono opere di trasformazione urbanistico-edilizia, incompatibili con la qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o risanamento conservativo o pertinenza dell’immobile principale», per cui «la bussola di ingresso deve essere costruita nel rispetto delle distanze legali previste per le costruzioni». Mentre la serra «non può certo essere definita un tunnel mobile leggero (come inizialmente prospettato dal Ctu), considerato che è ancorata stabilmente al suolo», ne consegue che anch’essa è sottoposta al rispetto delle distanze legali, attualmente si trova 3 metri dal confine.
non sono altresì considerate costruzione
– il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno realizzato per evitare smottamenti o frane[120] e, ai sensi dell’art. 878, il muro di cinta con altezza non superiore ai tre metri;
– la sporgenza di un tetto piovente, di modesta entità[121];
– l’edificazione del parapetto che non abbia determinato alcun aumento di superficie o volume in grado di modificare la servitù di veduta preesistente[122].
Ipotesi discusse.
Quando si realizza un edificio dotato di sporti od aggetti[123], bisogna distinguere a seconda che presentino una funzione meramente decorativa o se, invece, abbiano dimensioni di rilevanza tali da ampliare la superficie o la funzionalità del fabbricato.
Solo in quest’ultimo caso gli sporti od aggetti assumono il carattere di costruzione, mentre quelli di limitata consistenza, secondo la giurisprudenza, non devono essere inclusi nel computo delle distanze, in quanto configurano entità trascurabili rispetto all’interesse tutelato dalla norma considerato nel suo quadruplo aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità, dell’igiene e del decoro.
Difatti secondo la Corte di Piazza Cavour[124], mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di “costruzione” le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti “aggettanti”) che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. D’altra parte, agli effetti di cui all’art. 873 c.c., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
Pertanto, per quanto riguarda i cornicioni, essi non dovrebbero essere computati; deve essere, però, tenuto conto che molti regolamenti locali stabiliscono per essi una sporgenza massima, e, pertanto, si ritiene che in tali casi debbano essere conteggiati se tale limite è superato.
Le distanze tra edifici si misurano solo tra fabbricati che almeno in parte si fronteggiano e non già in ogni direzione, come avviene per le vedute[125].
Ritornando poi, alla problematica già segnalata in merito al muro di contenimento/cinta e nuova costruzione secondo la Cassazione[126] quando si è in presenza di un manufatto creato artificialmente per consentire l’ampliamento del piazzale sovrastante e fargli da sostegno, tale opera deve essere considerata una vera e propria “costruzione”, come tale assoggettata al rispetto delle ordinarie distanze legali dettate in materia dall’art. 873 c.c. e dalle norme integrative locali. Nel caso di specie la Corte Territoriale aveva accertato che i due muri realizzati, costituenti un’unica costruzione, “che consentivano il riempimento con nuovo terreno del volume creato tra il profilo originale del pendio ed il parametro interno della muratura”, non rappresentavano il contenimento di un versante franoso a tutela del fondo sottostante, ma erano destinati al sostegno della parte allargata del piazzale superiore.
Ebbene, si legge nella sentenza in commento, prima di tutto tale accertamento non può essere riposto in discussione nel giudizio di legittimità, costituendo espressione di un apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito quando è sorretto da una motivazione immune da vizi logici, con cui è stato fatto riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio.
Poiché, dunque, i muri in questione non avevano la funzione di mero contenimento di un dislivello naturale, il giudice del gravame ha ritenuto che essi costituivano una “costruzione” in senso tecnico-giuridico, soggetta alla distanza regolamentare di cinque metri dal confine prescritta dallo regolamento locale, senza che in relazione a tali opere potessero trovare applicazione le minori distanze previste, con riferimento ai “muri di cinta e muri di contenimento”, dallo ius superveniens invocato, rappresentato dal nuovo regolamento edilizio del Comune di riferimento.
Così decidendo, la Corte di Appello si è uniformata ai principi più volte enunciati dalla giurisprudenza, secondo cui, in caso di fondi a dislivello, mentre non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, destinato ad impedirne smottamenti o frane, devono invece considerarsi costruzioni in senso tecnico-giuridico il terrapieno ed il relativo muro di contenimento dovuti all’opera dell’uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente[127].
E difatti, proprio in merito a quest’ultimo assunto sull’accertamento di un dislivello naturale o meno è pacifico che in tema di distanze nelle costruzioni, ai sensi dell’articolo 873 c.c., è irrilevante l’esistenza di un dislivello tra i fondi confinanti ai fini del calcolo delle distanze delle costruzioni dal confine[128] poichè, l’art. 873 c.c.trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose[129].
Altra recente Cassazione[130] ha avuto modo di affermare nuovamente che il principio che l’art. 873 c.c. trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
- ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o si trovino alla medesima quota[131];
- le relative misurazioni vanno effettuate sul piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli edifici e delle linee dei confini[132];
- soltanto le costruzioni completamente interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate – o che non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini di un campo da tennis – non sono soggette alla disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più restrittiva dettata dai regolamenti locali[133].
Così come è irrilevante la natura agricola del terreno del confinante, dal momento che, a tali fini, nelle norme di regolamento, come in quelle codicistiche, non si fa distinzione tra suolo edificatorio e suolo non edificabile[134].
E’ determinante per la Corte di Legittimità l’opera dell’uomo; infatti il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall’opera dell’uomo o il naturale preesistente dislivello sia stato artificialmente accentuato, deve considerarsi costruzione a tutti gli effetti e soggetta, pertanto, agli obblighi delle distanze previste dall’art. 873 c.c.e dalle eventuali norme integrative[135].
Per quanto riguarda le opere di ristrutturazione, secondo la Cassazione[136], in base all’art. 31, primo comma, lett. d) della legge 5 agosto 1978, n. 457, costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall’osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell’entità stessa.
Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall’altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell’uomo.
Successivamente la S.C.[137] è ritornata sul punto, affermando che quando in fase di ricostruzione c’è un aumento di una delle componenti (volumetria, superficie di ingombro occupata e altezza), si è in presenza di una nuova costruzione.
A bene vedere, stando alla normativa di cui al Testo Unico dell’Edilizia:
- a) si parla di semplice ristrutturazione qualora “gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un fabbricato le cui componenti essenziali, quali muri perimetrali, strutture orizzontali e copertura siano rimasti inalterati”;
- b) ci si trova di fronte, invece, a una ricostruzione quando “le componenti dell’edificio, per evento naturale o per fatto umano, siano venute meno e l’intervento successivo non abbia comportato alcuna variazione rispetto alle dimensioni originarie dell’edificio, con particolare riferimento alla volumetria, alla superficie di ingombro occupata e all’altezza”. In questo senso, l’opera di demolizione e ricostruzione può essere qualificata quale ristrutturazione purché la nuova opera mantenga le caratteristiche planovolumetriche dell’edificio precedente.
- c) In caso di aumento di una di queste componenti (volumetria, superficie di ingombro occupata e altezza), “si è in presenza di una nuova costruzione, da considerare tale agli effetti del computo delle distanze rispetto agli immobili contigui”, in relazione alle “parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario”.
A sua volta, la giurisprudenza amministrativa, così come anche la giurisprudenza della Cassazione, ha avuto modo di chiarire che la ristrutturazione o ricostruzione postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
In mancanza di tali elementi strutturali, non è possibile valutare l’esistenza e la consistenza dell’edificio da consolidare.
La stessa giurisprudenza ha avuto modo di specificare che i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata considerato che non presentano le caratteristiche di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Con la conseguenza che loro ricostruzione, non costituisce “ristrutturazione”, ma “nuova costruzione”[138].
Nel merito della vicenda la Corte d’Appello Barese chiariva che il manufatto realizzato e oggetto della controversia integrava gli estremi di una nuova costruzione per due diverse ragioni:
- sia perché sostanzialmente il capannone preesistente era un rudere fatiscente (i cui reliquati ancora si intravedevano in alcune fotografie in atti).
- sia perché non poteva dubitarsi della sostanziale diversità tra il rudere preesistente e il capannone ricostruito, atteso che la nuova costruzione aveva avuto una diversa localizzazione rispetto alle fondamenta e all’area di sedime di quella preesistente, essendo stato spostato in avanti per circa 10 – 11 metri e per quanto nel nuovo “capannone fu modificata in alcune parti anche l’altezza del manufatto originario (essendo stata conservata solo l’altezza media dello stesso).
Inoltre, da aggiungersi a tali principi è importante riportare anche altra motivazione della S.C.[139] secondo la quale, appunto, confermando l’indirizzo precedente, nell’ambito delle opere edilizie, si ha semplice ristrutturazione ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all’esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
È ravvisabile, al contrario, una ricostruzione allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse, operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario.
Ma ciò che risulta innovativo è l’ulteriore presupposto analizzato in sentenza secondo cui: non può neppure procedersi ad eventuali compensazioni tra i volumi aggiunti con la sopraelevazione e quelli eliminati, in quanto la semplice constatazione della variazione, in altezza, della originaria sagoma del fabbricato, è sufficiente a rendere l’intervento edilizio di cui trattasi non inquadrabile nella nozione di ricostruzione, come delineata dalla giurisprudenza.
Sul punto recente Cassazione
Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza 17 giugno 2016, n. 12527
ha avuto modo di affermare che la giurisprudenza della Suprema Corte, come già più sopra osservato, è ormai inequivoca nel senso che la ricostruzione dell’immobile non deve arrecare alcun novum esterno per consentirne l’edificazione ad una distanza difforme da quella stabilita dalla normativa vigente, avendo le stesse Sezioni Unite (nell’ordinanza n. 21578 del 19 ottobre 2011) affermato che, anche alla luce dell’articolo 31, primo comma, lettera d), l. 5 agosto 1978 n. 457, si ha “ristrutturazione” nel caso in cui gli interventi, poiché comportanti modifiche esclusivamente interne, abbiano lasciato inalterati i componenti essenziali dell’edificio, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura; e si ha “ricostruzione” quando tali componenti essenziali dell’edificio preesistente siano venuti meno per evento naturale o volontaria demolizione e l’intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria; ma nel caso in cui tali aumenti sussistano, trattasi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla normativa in tema di distanze vigente al momento dell’edificazione, così ribadendosi quanto insegnato da un ampio orientamento (Cass. sez.2, 26 ottobre 2000 n. 14128; Cass. sez.2, 6 ottobre 2005 n. 19469; Cass. sez.2, 27 aprile 2006 n. 9637; Cass. sez.2, 11 febbraio 2009 n. 3391; Cass. sez.2, 27 ottobre 2009 n. 22688) e anche da ultimo rimarcato (Cass. sez.2, 20 agosto 2015 n. 17043).
Non è pertanto sostenibile, in quanto confliggente con il suddetto insegnamento – contro il quale, d’altronde, la corte territoriale non adduce alcuna valida argomentazione ermeneutica se in grado inficiarlo -, che nel caso di specie, nel quale è indiscutibile, per quanto emerge dalle consulenze, che sia stato effettuato un ampliamento volumetrico, l’edificio sia svincolato dalla normativa vigente sulle distanze, non potendosi qualificarlo né ristrutturazione né ricostruzione, bensì nuova costruzione. La ratio decidendi per cui quindi il giudice d’appello dichiara che “la sentenza gravata deve essere confermata” è erronea proprio per quanto denunciato nel motivo in esame.
Ancora sul punto la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|14 luglio 2021| n. 20079
ha riaffermato che nell’ambito delle opere edilizie – anche alla luce dei criteri di cui all’articolo 31, comma 1, lettera d), della legge n. 457 del 1978 (oggi articolo 3 del Dpr n. 380 del 2001) – la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti (incidenti, cioè, sulla non corrispondenza dimensionale e nuova volumetria), si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della realizzazione della medesima che, se violata, comporta l’attuazione della tutela ripristinatoria. E ciò anche con la esclusione della possibilità che i regolamenti locali possano incidere, pure solo indirettamente con la previsione di soglie massime di incremento edilizio, sulle nozioni normative di ristrutturazione e di nuova costruzione, e sui rimedi esperibili nei rapporti tra privati.
Non paga degli innumerevoli interventi la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Sentenza|24 giugno 2022| n. 20428
con ampia motivazione nuovamente ha affermato che rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all’art. 41 sexies l. n. 1150 del 1942, anche ai fini dell’applicabilità dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma altresì gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell’entità delle modificazioni apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente; né assume rilevanza, in senso contrario, il disposto dell’art. 2 bis, comma 1 ter, d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall’art. 10, comma 1, lett. a), d.l. n. 76 del 2020, conv. con modif. in l. n. 120 del 2020, giacché tale norma, se prevede che possano rientrare nella nozione di ricostruzione anche opere che aumentano il volume o modificano la sagoma dell’opera da costruire, richiede pur sempre che l’intervento sia realizzato nel rispetto delle distanze preesistenti, e cioè di quelle conformi alla normativa vigente al momento in cui è stato realizzato l’intervento originario.
Peraltro, continua la sentenza in commento, se la ristrutturazione di un fabbricato si concretizza nella sopraelevazione dell’edificio preesistente, tale sopraelevazione, a sua volta, anche se di dimensione ridotta, comporta pur sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro ed e’, dunque, tenuta, quale nuova costruzione, al rispetto della disciplina delle distanze. La sopraelevazione, infatti, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione (Cass. n. 21059 del 2009; Cass. n. 15528 del 2008; conf., piu’ di recente, Cass. n. 17043 del 2015; Cass. n. 11049 del 2016; Cass. n. 15732 del 2018; Cass. n. 4009 del 2022).
Tale conclusione, si legge ancora, vale anche per la modifica del tetto. In materia di distanze legali tra edifici, infatti, la modificazione del tetto di un fabbricato integra sopraelevazione e, come tale, una nuova costruzione se essa produce un aumento della superficie esterna e della volumetria dei piani sottostanti, cosi’ incidendo sulla struttura e sul modo di essere della copertura, spettando, peraltro, al giudice di merito di volta in volta verificare, in concreto, se l’opera eseguita, avendo carattere ornamentale e funzioni meramente accessorie rispetto al fabbricato, vada esclusa dal calcolo delle distanze legali ovvero se, al contrario, com’e’ stato accertato in fatto nel caso in esame, l’opera presenti le anzidette caratteristiche e sia, come tale, assoggettata alla disciplina sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione (Cass. n. 20786 del 2006; Cass. n. 14932 del 2008), non operando il criterio della prevenzione riferito alle costruzioni originarie in quanto sostituito dal principio della priorita’ temporale correlata al momento della sopraelevazione (Cass. n. 15527 del 2008; Cass. n. 74 del 2011): in tema di distanze legali, con riferimento alla sopraelevazione di un edificio preesistente, il criterio della prevenzione va applicato avendo riguardo all’epoca della sopraelevazione e non a quella della realizzazione della costruzione originaria (Cass. n. 14705 del 2019).
Infine, secondo la medesima sentenza, la nozione di costruzione che rileva ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali, non si identifica, del resto, con la nozione di edificio ma si estende a qualsiasi “manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidita’ stabilita’ ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e cio’ indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa” (Cass. n. 24128 del 2012, in motiv.; Cass. n. 15972 del 2011).
Ne’, ha correttamente aggiunto la corte d’appello, puo’ ritenersi che i volumi realizzati siano irrilevanti ai fini del calcolo delle distanze trattandosi, a dire degli appellanti, di un sottotetto finalizzato all’isolamento tecnico, e cioe’ di un mero volume tecnico, posto che, in realta’, “il sottotetto ha comportato un aumento di altezza della linea di colmo e pure di quella di gronda, per cui non si e’ in presenza di un mero volume tecnico ma di un volume rilevante ai fini dell’altezza dell’edificio con conseguente mancanza di corrispondenza al fabbricato preesistente”. Ed e’ noto che l’aumento di volumetria e’ escluso, ai fini in esame, solo se deriva da un “volume tecnico”, per tale intendendo solo l’opera edilizia (la cui emergenza dagli atti di causa, nella specie, non e’ stata neppure dedotta dai ricorrenti) priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore, di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali dell’abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce, come il vano scale, parte integrante del fabbricato (Cass. n. 2566 del 2011), con la conseguenza che, in tanto l’altezza di un fabbricato puo’ essere fissata, ai fini della disciplina edilizia, nella linea di gronda, in quanto cio’ che ne ecceda costituisca un volume tecnico, come per l’appunto un sottotetto non abitabile, avente la sola funzione di isolamento termico: diversamente, ai fini della disciplina edilizia occorre considerare come altezza del fabbricato non la linea di gronda, ma quella di colmo, vale a dire la retta d’intersezione tra le due falde piane di un tetto inclinato (Cass. n. 11049 del 2016)
Sentenza confermata anche da altra recente pronuncia:
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|25 gennaio 2023| n. 2268
Infine, riassumendo, la distanza prevista nell’articolo di cui trattasi, non si applica:
– alle mura di confine isolate con altezza inferiore ai tre metri (Come già indicato precedentemente in tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora l’andamento altimetrico del piano di campagna – originariamente livellato sul confine tra due fondi – sia stato artificialmente modificato, deve ritenersi che il muro di cinta abbia la funzione di contenere un terrapieno creato “ex novo” dall’opera dell’uomo, e vada, per l’effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni)
– alle costruzioni completamente interrate
– pali e condutture elettriche
– alle costruzioni presenti sullo stesso fondo
– le costruzioni volte ad eliminare le barriere architettoniche (come già analizzato in precedenza); infatti secondo una sentenza di merito se in un determinato edificio in condominio sia impossibile il superamento delle barriere architettoniche rispettando le distanze legali prescritte dagli artt. 873 e 907 c.c., la realizzazione di una simile opera potrà violare il limite di tre metri da aperture, vedute o altre costruzioni nel condominio ma l’innovazione deve attuarsi in modo da non danneggiare sensibilmente i singoli condomini[140].
– alle ristrutturazioni e alle ricostruzioni non comportanti nuova costruzione quando le componenti dell’edificio, per evento naturale o per fatto umano, siano venute meno e l’intervento successivo non abbia comportato alcuna variazione rispetto alle dimensioni originarie dell’edificio, con particolare riferimento alla volumetria, alla superficie di ingombro occupata e all’altezza.
G) Le distanze legali ed il condominio
Ottima disamina della fattispecie ci viene offerta dalla Corte territoriale Partenopea con una sentenza dell’08 settembre 2010, n. 2972 a mente della quale le norme dettate in materia di distanze legali, seppur fondamentalmente dirette alla regolamentazione di proprietà autonome e contigue, devono intendersi applicabili anche in relazione ad un edificio condominiale, pur dovendosi all’uopo necessariamente distinguere tra opere eseguite sulle parti comuni, e sempre che si tratti di uso normale di queste ultime, e rapporti tra unità individuali inserite nello stabile condominiale.
Nel primo caso vige, invero, il principio della non operatività della normativa sulle distanze legali, la quale potrà trovare applicazione solo se ed in quanto sia possibile attuare il disposto ex art. 1102 c.c., diversamente da quanto accade in relazione ai rapporti tra le singole proprietà esclusive dei vari condomini, laddove la disciplina richiamata, seppur in modo non assoluto, deve intendersi applicabile. In ipotesi siffatte, invero, detta disciplina trova un limite di operatività allorquando la struttura dell’edificio e le caratteristiche concrete dello stato dei luoghi impediscano il suo rispetto e le opere che con essa contrastino rispondano ad una esigenza essenziale di utilizzazione dell’immobile da parte del condomino.
Ciò posto, pare necessario rilevare, altresì, che il delineato sistema riflettente la osservanza delle distanze legali in ambito condominiale è destinato a valere sia nelle ipotesi in cui sia invocata la tutela petitoria sia in quelle in cui, come nella specie, sia invocata tutela possessoria, mediante l’esperimento di un’azione di manutenzione (giustificata dal pregiudizio derivante dall’intervenuto ampliamento, sia in altezza che in larghezza, di 20 cm di un manufatto che, in luogo panoramico, limitava di fatto la veduta esercitata da una finestra).
Per la S.C.[141], in tema, le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale quando siano compatibili con l’applicazione delle norme particolari relative all’uso delle cose comuni (art. 1102 c. c. ), cioè quando l’applicazione di quest’ultime non sia in contrasto con le prime ; nell’ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime.
Altra sentenza[142], meno recente, ma in maniera più esplicita ha affermato che le norme sulle distanze delle costruzioni dalle vedute si osservano anche nei rapporti tra condomini di un edificio in quanto l’articolo 1102 del Cc non deroga al disposto dell’articolo 907 del Cc; il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta a piombo fino alla base dell’edificio e di opporsi, conseguentemente, a ogni costruzione degli altri condomini che direttamente o indirettamente pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possa rilevare la lieve entità del pregiudizio arrecato.
Ultima pronuncia della S.C.[143], invece, nuovamente ha riaffermato che le norme sulle distante sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distante che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale.
H) La tutela e questioni processuali
Il proprietario ha diritto – qualora venga realizzata una costruzione compresa fra le opere per le quali devono essere rispettati i distacchi dal confine – alla riduzione in pristino ex art. 872 c.c. (di natura reale, qualificabile come ”negatoria servitutis“ [144]) ed al risarcimento del danno (di natura obbligatoria).
Come ricordato anche da ultima Cassazione,
Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 26 luglio 2016, n. 15458
l’azione diretta ad ottenere il rispetto delle distanze legali non si estingue per il decorso del tempo, con gli effetti dell’eventuale usucapione, la quale da’ luogo all’acquisto del diritto di una servitu’ avente ad oggetto il mantenimento della costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4240 del 22/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19289 del 07/09/2009).
Ancora, in senso generale, la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|31 maggio 2021| n. 15142.
da ultimo ha avuto modo di precisare che i poteri inerenti al diritto di proprietà, incluso quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione di distanza inferiore a quella legale: ne consegue che anche la domanda volta ad ottenere il rispetto delle distanze legali è imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell'”actio negatoria servitutis”, rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, ma a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù.
Unico legittimato a proporre domanda di riduzione in pristino a seguito di violazione delle distanze legali è il proprietario dell’immobile rispetto al quale la distanza della costruzione eseguita sul fondo finitimo sia inferiore a quella legale[145].
L’art. 872 c.c., concede al proprietario del fondo vicino, che dalla violazione della disciplina lamenti un danno, oltre all’azione risarcitoria aquiliana di natura obbligatoria, quella ripristinatoria di natura reale.
Secondo la Suprema Corte, le violazioni delle distanze legali tra costruzioni – al pari di qualsiasi atto del vicino idoneo a determinare situazioni di fatto corrispondenti all’esercizio di una servitù – sono denunciabili ex art. 1170 c.c. con l’azione di manutenzione nel possesso (come avremo modo di analizzare successivamente), costituendo attentati alla libertà del fondo di fatto gravato, e, pertanto, turbative nell’esercizio del relativo possesso (fattispecie in tema di creazione di affacci e vedute in parte inesistenti, in parte preesistenti ma accresciute)[146].
Inoltre, per Tribunale Salernitano le due azioni non sono automaticamente complementari ma a norma dell’art. 872 c.c., colui che ha subito un danno per effetto della violazione delle leggi speciali e dei regolamenti comunali in materia di edilizia ha diritto al relativo risarcimento, mentre solo la violazione delle disposizioni contenute negli artt. 873 c.c. e ss., in materia di distanze, ovvero delle prescrizioni dei regolamenti comunali integrative delle predette disposizioni, attribuisce al privato la facoltà di chiedere la riduzione in pristino[147].
Ma qualora sia stata realizzata una costruzione a distanza inferiore rispetto a quella stabilita dall’art. 873 c.c. o da una norma regolamentare integrativa, il proprietario del fondo finitimo che abbia optato, a norma degli artt. 875 e 877, comma secondo, c.c., per la fabbricazione in appoggio o in aderenza alla costruzione già realizzata dal confinante, non può chiedere alcuna delle forme di tutela previste dall’art. 872 c.c., atteso che sono incompatibili con la scelta effettuata non solo l’azione diretta alla riduzione in pristino ma anche quella risarcitoria, restandone il relativo fondamento interamente assorbito dall’ampliamento dell’originaria capacità edificatoria del fondo[148].
L’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali non si estingue per il decorso del tempo, essendo imprescrittibile, salvo gli effetti dell’eventuale usucapione[149], la quale dà luogo all’acquisto del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale[150].
Tale domanda diretta a denunziare la violazione della distanza legale da parte del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l’arretramento della sua costruzione, tendendo a salvaguardare il diritto di proprietà dell’attore dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e ad impedirne tanto l’esercizio attuale, quanto il suo acquisto per usucapione, avendo natura di ” actio negatoria servitutis ” – come già ampiamente detto – essa, pertanto, è soggetta a trascrizione ai sensi sia dell’art. 2653 n.1 c.c., che, essendo suscettibile di interpretazione estensiva, è applicabile anche alle domande dirette all’accertamento negativo dell’esistenza di diritti reali di godimento, sia del successivo n.5, che dichiara trascrivibili le domande che interrompono il corso dell’usucapione su beni immobili[151].
Orbene secondo la Suprema Corte in materia di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, e, determinando la suddetta violazione un asservimento di fatto del fondo del vicino, il danno deve ritenersi “in re ipsa“, senza necessità di una specifica attività probatoria[152].
Tale principio è stato confermato dalla Suprema Corte[153] con sentenza del maggio 2011, secondo la quale in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria; ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto certo ed indiscutibile dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi sussistente senza necessità di una specifica attività probatoria.
Anche se per Giurisprudenza precedente, nel caso, invece, di violazioni di norme speciali di edilizia non integrative della disciplina del codice, mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, il proprietario di questo è tenuto a fornire una prova precisa del danno, sia in ordine alla sua potenziale esistenza che alla sua entità obiettiva, in termini di amenità, comodità, tranquillità ed altro[154].
Sul punto è tornata nuovamente la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 2 febbraio 2016, n. 1989
riaffermando che in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitu’ nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprieta’ medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessita’ di una specifica attivita’ probatoria (Sez. 2, Sentenza n. 16916 del 22.4-19.8.2015, non massimata; Sez. 2, Sentenza n. 7752 del 27/03/2013 Rv. 625902; Cass. n. 25475/2010).
Sull’an debeatur, è stato osservato – nella medesima sentenza – che la lesione temporanea del diritto reale si presta alla liquidazione equitativa del danno non meno di ogni altra fattispecie in cui – secondo l’apprezzamento del giudice di merito, non sindacabile al di fuori dei limiti dell’articolo 360 codice procedura civile, n. 5 – sia se non impossibile oltre modo problematica un’esatta quantificazione del pregiudizio sofferto dal soggetto danneggiato (v. Sez. 2, Sentenza n. 16916/2015 cit.).
É stato sottolineato, poi, con ultimo intervento[155] che l’art. 2058, secondo comma, c.c., il quale prevede la possibilità di ordinare il risarcimento del danno per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica, in caso di eccessiva onerosità di quest’ultima, non trova applicazione nelle azioni intese a far valere un diritto reale la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo, come quella diretta ad ottenere la riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso.
Da ultimo la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5142.
ha avuto modo di specificare che in tema di distanze legali, sono da ritenere integrative del codice civile le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino, con qualsiasi criterio o modalità, la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sé degli edifici, senza nessuna relazione con le distanze intercorrenti tra gli stessi, proteggono, nell’ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne consegue che, nel primo caso, sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo, invece, è ammessa unicamente la tutela risarcitoria.
Ancora, sul punto, la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 2 settembre 2020, n. 18220
non paga dei precedenti interventi ha ritenuto, nuovamente, di ristabilire alcuni principi:
<< Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 14294/2018) in tema di violazione delle distanze legali, ove sia disposta la demolizione dell’opera illecita, il risarcimento del danno va computato tenendo conto della temporaneita’ della lesione del bene protetto dalle norme non rispettate e non del valore di mercato dell’immobile, diminuito per effetto della detta violazione, poiche’ tale pregiudizio e’ suscettibile di eliminazione (conf. tra le piu’ recenti Cass. n. 19132/2013; Cass. n. 17635/2013).
Una volta delimitato nei termini sopra indicati il pregiudizio suscettibile di essere risarcito allorche’ vi sia cumulo tra la domanda di riduzione in pristino e quella risarcitoria, con specifico riferimento al tema che il motivo di ricorso involge, e cioe’ della necessita’ della prova del pregiudizio lamentato dalla ricorrente, ritiene il Collegio che la censura sia fondata, dovendosi assicurare continuita’ alla giurisprudenza di questa Corte, occupatasi della questione anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 26972/2008, che a detta del giudice di appello deporrebbe per la necessita’ che sia il danneggiato a dover fornire una puntuale prova del danno.
In tal senso va richiamata Cass. n. 25475/2010 a mente della quale, in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitu’ nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprieta’ medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessita’ di una specifica attivita’ probatoria.
In motivazione, e proprio in relazione ad un danno di carattere transitorio, perche’ correlato al periodo di tempo intercorso tra l’esecuzione dell’illegittima attivita’ edificatoria e la riduzione in pristino, si e’ ribadita la tesi secondo cui nella fattispecie si verte in un’ipotesi di danno in re ipsa, suscettibile di essere riconosciuto anche senza necessita’ di una specifica attivita’ probatoria. Dopo aver ricordato che nella giurisprudenza di questa Corte era presente anche un indirizzo di segno diverso, a termini del quale la violazione delle norme codicistiche sulle distanze legali (ovvero delle norme locali richiamate dal codice), mentre legittima sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per se’ fonte di danno risarcibile, essendo al riguardo necessario che chi agisca per la sua liquidazione deduca e dimostri l’esistenza, oltre che la misura, del pregiudizio effettivamente realizzatosi (Cass., Sez. 2″, 23 marzo 1982, n. 1838; Cass., Sez. 2, Cass., Sez. 2, 2 agosto 1990, n. 7747; Cass., Sez. 2, 24 settembre 2009, n. 20608), la sentenza del 2010 ha dissentite da tale orientamento, in quanto l’atto edificatorio del vicino in violazione delle norme, del codice o regolamentari comunali, sulle distanze, oltre a ledere gli interessi pubblici sottesi alla disciplina concernente l’assetto del territorio, pone in essere un’attivita’ edilizia eccedente quanto e’ previsto, nei rapporti tra confinanti, dalla normativa conformativa del diritto di proprieta’, sicche’ il privato che, nei confronti dell’edificante illegittimo, lamenti la lesione della sua sfera proprietaria, ha diritto, ai sensi dell’articolo 872 c.c., comma 2, ad una doppia tutela: all’eliminazione dello stato di cose che si e’ illegittimamente creato e al risarcimento del danno patito medio tempore.
Trattasi di una limitazione al godimento del bene, e quindi all’esercizio di una delle facolta’ che si riconnettono al diritto di proprieta’: per questo il danno e’ in re ipsa, perche’ l’azione risarcitoria e’ volta a porre rimedio all’imposizione di una servitu’ di fatto e alla conseguente diminuzione di valore del fondo subita dal proprietario in conseguenza dell’edificazione illegittima del vicino, per il periodo di tempo anteriore all’eliminazione dell’abuso (Cass., Sez. 2, 27 febbraio 1946, n. 201; Cass., Sez. 2, 8 maggio 1946, n. 551; Cass., Sez. Un., 24 giugno 1961, n. 1520; Cass., Sez. 2, 12 febbraio 1970, n. 341; Cass., Sez. 2, 15 dicembre 1994, n. 10775; Cass., Sez. 2, 25 settembre 1999, n. 10600; Cass., Sez. 2, 7 marzo 2002, n. 3341; Cass., Sez. 2, 27 marzo 2008, n. 7972; Cass., Sez. 2, 7 maggio 2010, n. 11196).
Quanto alla compatibilita’ di tale soluzione con le affermazioni delle Sezioni Unite del 2008 secondo cui e’ risarcibile il solo danno conseguenza (cfr., con riguardo al danno non patrimoniale, Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972), Cass. n. 25475/2010 ha condivisibilmente affermato che: “Discorrere di danno in re ipsa, infatti, non significa riconoscere che il risarcimento venga accordato per il solo fatto del comportamento lesivo o si risolva in una pena privata nei confronti di chi violi l’altrui diritto di proprieta’, in contrasto, tra l’altro, con la tavola dei valori espressa dalla Carta costituzionale, che riconosce e garantisce la proprieta’ privata, ma non la inquadra tra i diritti fondamentali della persona umana, per i quali soltanto e’ predicabile una connotazione di inviolabilita’, di incondizionatezza e di primarieta’.
Significa, piuttosto, ammettere che, nel caso di violazione di una norma relativa alle distanze tra edifici, il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) e’ l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitu’ nel proprio fondo, e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprieta’ medesima. Il principio della immancabilita’ del risarcimento del danno non vale invece la’ dove si tratti di violazioni di disposizioni non integrative di quelle sulle distanze: in tale evenienza, mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, la prova del danno e’ richiesta ed il proprietario e’ tenuto a fornire una dimostrazione precisa dell’esistenza del danno, sia in ordine alla sua potenziale esistenza che alla sua entita’ obiettiva, in termini di amenita’, comodita’, tranquillita’ ed altro (tra le tante, Cass., Sez. 2, 5 giugno 1998, n. 5514; Cass., Sez. 2″, 12 giugno 2001, n. 7909; Cass., Sez. 2, 7 marzo 2002, n. 3341, cit.)”.
Reputa quindi il Collegio di dover assicurare continuita’ a tale conclusione (peraltro fatta propria, tra l’altro, anche dalle successive Cass. n. 7752/2013; Cass. n. 16916/2015 e Cass. n. 21501/2018) e cio’ anche alla luce delle conclusioni del P.M. che, pur evidenziando le difficolta’ interpretative nate a seguito del menzionato intervento delle Sezioni Unite ma soprattutto per quanto attiene al danno da occupazione abusiva di immobili, ritiene invece condivisibile la tesi della sussistenza del danno, anche in assenza di specifica prova, nel caso di violazione temporanea del diritto al rispetto delle distanze legali.>>
Infine, sperando che venga messa la parola fine, la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|9 novembre 2020| n. 25082.
la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in “re ipsa”, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure “iuris tantum”, tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso.
La parola fine ancora non è stata messa, perchè, ancora una volta, è stato chiarito dalla Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Sentenza|16 maggio 2022| n. 15582
Le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all’osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono dunque alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l’avvenuto rilascio del titolo abilitativo all’attivita’ costruttiva, la cui legittimita’ potra’ essere valutata incidenter tantum dal giudice ordinario attraverso l’esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, a meno che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. per far valere l’illegittimita’ dell’attivita’ provvedimentale, sussistendo, in questo caso, la giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., Sez. U Ordinanza n. 13673 del 16/06/2014, Rv. 631630).
In caso di violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni, e’ dunque concessa l’azione risarcitoria per il danno determinatosi prima della riduzione in pristino, senza la necessita’ di una specifica attivita’ probatoria, perche’ il danno che il proprietario subisce – da qualificare come danno conseguenza, e non danno evento – e’ l’effetto (certo) dell’abusiva imposizione di una servitu’ a carico del proprio fondo e quindi della limitazione del suo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprieta’ medesima. Nel caso in cui siano violate disposizioni non integrative delle norme sulle distanze, viceversa, mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, la prova del danno e’ richiesta ed il proprietario e’ tenuto a fornirne una dimostrazione precisa, sia in ordine alla sua potenziale esistenza che alla sua entita’ obiettiva, in termini di amenita’, comodita’, tranquillita’ ed altro (cfr., in proposito, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 7752 del 27/03/2013, Rv. 625902).
In tema di proprieta’ edilizia, la disposizione di cui all’articolo 869 c.c. -secondo la quale i proprietari d’immobili siti nel territorio dei Comuni dove sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle costruzioni esistenti- va coordinata con quella di cui al successivo articolo 872 c.c., che attribuisce al privato la tutela risarcitoria del proprio diritto soggettivo a seguito della violazione delle norme urbanistiche integrative del codice civile, senza subordinarla all’annullamento di provvedimenti amministrativi eventualmente adottati dalla P.A. (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 742 del 20/01/2003, Rv. 559868).
In tema di danno per violazione delle norme di edilizia, dunque, e’ l’abusivita’ ed illegittimita’ della costruzione a fondare la pretesa risarcitoria, essendo sufficiente all’attore fornire elementi utili all’individuazione del pregiudizio, come effetto diretto ed immediato dell’illecito (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6045 del 11/03/2013, Rv. 625754).
In definitiva, da un lato, la realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia di distanze, non comporta immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito. La prova di tale pregiudizio, dunque, dev’essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entita’ dello stesso (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24387 del 01/12/2010, Rv. 615001; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7909 del 12/06/2001, Rv. 547411). Dall’altro lato, il danno conseguente alla violazione delle norme del codice civile ed integrative di queste, relative alle distanze nelle costruzioni, si identifica nella violazione stessa, costituendo un asservimento de facto del fondo del vicino al quale, pertanto, compete il risarcimento del danno, senza la necessita’ di una specifica attivita’ probatoria, in relazione alla perdita di amenita’, comodita’, tranquillita’ ed altro: prova, questa, che invece e’ necessaria in caso di violazione di norme speciali di edilizia non integrative della disciplina del codice (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 3199 del 11/02/2008, Rv. 601620).
Se da una parte la tutela demolitoria e’ riservata alla violazione delle sole norme in tema di distanze, integrative delle disposizioni di cui agli articolo 873 c.c. e ss., d’altra parte e’ sempre consentita la tutela risarcitoria, anche a fronte della violazione di norme regolamentari locali non direttamente integrative della disciplina codicistica poc’anzi richiamata. Tutela, quest’ultima, da esercitare dinanzi il giudice ordinario, il quale, a fronte di una domanda di risarcimento del danno per violazione delle norme di edilizia fondata, oltreche’ sul mancato rispetto delle distanze dai confine, anche sulla difformita’ della costruzione dalle prescrizioni comunali, deve valutare l’esistenza di eventuali danni connessi al carattere amministrativamente illecito dell’opera, in quanto detta richiesta e’ implicita nella domanda risarcitoria di cui sopra. Con l’ulteriore conseguenza che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice ordinario che, investito di tale domanda risarcitoria, riconosca danni consistenti in diminuzione di visuale, amenita’ e soleggiamento del fondo dell’attore in conseguenza dell’opera edilizia illegittimamente realizzata dal confinante (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11163 del 24/12/1994, Rv. 489419).
Se nel caso di violazione delle distanze legali, legittimato a proporre la domanda gli riduzione in pristino e’ soltanto il proprietario di una preesistente e fronteggiante fabbrica, rispetto alla quale la nuova costruzione venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale, e non anche quello di altre fabbriche non frontistanti, quantunque comprese nello stesso edificio o nella stessa zona, rimane salvo il diritto del secondo al risarcimento del danno, ov’egli dimostri di aver subito un concreto pregiudizio economico per la diminuzione di aria, luce, panoramicita’ o soleggiamento dell’edificio (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6581 del 10/06/1991, Rv. 472609; in termini, cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1659 del 16/02/1988, Rv. 457683, secondo la quale la violazione delle norme di edilizia concernenti l’altezza delle costruzioni integra un illecito di carattere permanente, sostanziandosi il danno nella privazione dei vantaggi della veduta e dell’aereazione derivanti alle costruzioni sui fondi finitimi dal reciproco rispetto dei limiti massimi di altezza stabiliti, con la conseguenza che il corso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno ha inizio soltanto a decorrere dalla riduzione dell’edificio).
Ed ancora,
Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|21 giugno 2022| n. 20048
ha ritenuto necessario riaffermare il seguente principio: la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in re ipsa, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entita’ concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprieta’, dovendosi, di norma, presumere, sia pure iuris tantum, tale pregiudizio, fatta salva la possibilita’ per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarita’ dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 25082 del 09/11/2020; in precedenza si segnala Sez. 2, Sentenza n. 25475 del 16/12/2010). In particolare, il danno che il proprietario confinante subisce (danno conseguenza e non danno evento) deve ritenersi in re ipsa, senza necessita’ di una specifica attivita’ probatoria, essendo l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitu’ nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprieta’ (Sez. 2, Sentenza n. 21501 del 31/08/2018).
Sotto un profilo processuale e di onere della prova, nella fattispecie in cui il convenuto, contro il quale sia stato domandato il ripristino della distanza legale tra le costruzioni, opponga di aver eseguito la propria costruzione prima dell’entrata in vigore della norma di cui l’attore lamenta la violazione, tale deduzione non configura un’eccezione in senso proprio, ma si risolve nella mera negazione della sussistenza di una condizione dell’azione “ex adverso” proposta; conseguentemente – secondo i principi regolanti la ripartizione dell’onere probatorio – la sussistenza di tale condizione, e cioè l’illegittimità dell’opera in relazione alle norme vigenti al tempo della sua esecuzione, deve essere dimostrata dall’attore[156].
Ancora, sull’onere probatorio è stato specificato da ultima Cassazione (Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 11 giugno 2018, n. 15041), quanto segue:
In tema di ripartizione dell’onere della prova in materia di violazioni delle distanze legali, che impongono al proprietario che lamenti la realizzazione di un manufatto su un fondo limitrofo a distanza non regolamentare di dare prova solo del fatto della costruzione e di quello della dedotta violazione, mentre incombe sul convenuto, che deduca di avere acquisito per usucapione il diritto di mantenere il suo fabbricato a distanza inferiore a quella legale per avere ricostruito un edificio preesistente in loco, l’onere di dimostrare gli elementi costitutivi dell’acquisto a titolo originario, vale a dire, nella specie, la presenza per il tempo indicato dalla legge del manufatto nella stessa posizione nonche’ la circostanza dell’assoluta identita’ fra la nuova e la vecchia struttura.
Mentre per il principio “iura novit curia” il giudice deve identificare la norma – generale o speciale – applicabile nel caso di costruzione di cui una parte chiede la demolizione per mancato rispetto della disciplina sulle distanze. Non vi è, quindi, violazione dell’art. 112 c.p.c. se il giudice, interpretata la domanda, dispone l’abbattimento di detta costruzione perché realizzata in violazione delle norme previste dalla normativa urbanistica e dalla legge sismica, integrativa degli artt. 872 e 873 c.c. pur se non tempestivamente invocata dalla parte attrice[157].
Principio recepito da una sentenza della Suprema Corte, la quale ha avuto modo di stabilire che le norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli artt. 872, 873 c.c., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, a tal uopo il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni[158].
Poi, sempre secondo la Cassazione all’interno di un giudizio riguardante le costruzioni su fondi finitimi, in cui l’attore abbia chiesto la condanna del proprietario frontista alla demolizione del fabbricato costruito in violazione delle distanze legali, non costituisce domanda nuova in appello il rilievo relativo all’illegittimità dell’adozione di un regolamento comunale contrastante con il d.m. pro tempore vigente (nella specie, il d.m. 2 aprile 1968, n. 1444) in quanto il giudice adito, nell’ambito della sua verifica delle norme applicabili, è tenuto a rilevare l’illegittimità dell’adozione da parte dell’amministrazione comunale di un regolamento edilizio contrastante con le norme vigenti e ad applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, le norme violate, in quanto divenute automaticamente parte integrante del successivo strumento urbanistico locale[159]. Invece, sempre in riferimento al principio di necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato – pur dovendosi affermare che al giudice spetta il potere di dare qualificazione giuridica alle eccezioni proposte – tuttavia tale potere trova un limite in relazione agli effetti giuridici che la parte vuole conseguire deducendo un certo fatto, nel senso che la prospettazione di parte vincola il giudice a trarre dai fatti esposti l’effetto giuridico domandato[160].
Andando adesso ad analizzare la posizione processuale del soggetto passivo e la giusta proposizione della domanda di demolizione di corpi di fabbrica abusivamente costruiti su un immobile appartenente a più comproprietari, l’azione di natura reale volta all’eliminazione fisica dell’abuso deve essere proposta necessariamente nei confronti del proprietario della costruzione illegittima anche se materialmente realizzata da altri, potendo egli soltanto essere destinatario dell’ordine di demolizione che il ripristino delle distanze legali tende ad attuare[161].
Principio ripreso dalla Giurisprudenza di legittimità secondo cui riguardo al soggetto passivo l’azione finalizzata al rispetto delle distanze tra costruzioni costituisce un’azione reale, che deve essere necessariamente proposta nei confronti dei proprietario della costruzione illegittima, potendo solo costui essere il destinatario dell’eventuale ordine di demolizione che la citata azione tende ad ottenere[162].
Tale domanda, inoltre, deve essere proposta nei confronti di tutti i comproprietari[163] stessi, in qualità di litisconsorti necessari, trattandosi di azione reale, che prescinde, perciò, dall’individuazione dell’autore materiale dei lamentati abusi edilizi; ne consegue che l’eventuale violazione del contraddittorio è deducibile e dichiarabile anche per la prima volta in sede di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal giudicato sulla questione[164].
Ovvero, secondo altra sentenza della Suprema Corte, mentre, in tema d’azioni a tutela delle distanze legali, sono contraddittori necessari tutti i comproprietari pro indiviso dell’immobile confinante, quando ne sia chiesta la demolizione o il ripristino, essendo altrimenti la sentenza “inutiliter data“, l’azione diretta al risarcimento del danno patrimoniale per equivalente derivato da un fatto illecito (nella specie danni ad un muro per deflusso delle acque meteoriche da un solaio confinante), avendo natura personale, può essere proposta nei confronti dell’autore (esecutore materiale) dell’illecito aquiliano[165].
Sentenza ripresa da altra pronuncia della medesima Corte[166] secondo la quale, appunto, la domanda diretta alla rimozione delle opere abusive realizzate nel cortile condominiale e la relativa domanda risarcitoria, devono essere proposte nei confronti dei singoli condomini trattandosi di “azioni reali” aventi ad oggetto diritti dei singoli condomini.
Inoltre, si continua a leggere nella sentenza della II sezione, l’azione diretta non al semplice accertamento dell’esistenza o inesistenza dell’altrui diritto, ma al mutamento di uno stato di fatto mediante la demolizione di manufatti o costruzioni, dà luogo ad un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra i proprietari dei beni interessati perché altrimenti la sentenza – che non potrebbe essere eseguita conto i proprietari non partecipi al giudizio – sarebbe inutiliter data.
Ai fini della legittimazione processuale in ordine all’azione di riduzione in pristino conseguente all’esecuzione, su immobile concesso in usufrutto, di opere edilizie illegittime, perché realizzate in violazione delle distante legali, spetta al nudo proprietario[167], potendosi riconoscere all’usufruttuario il solo interesse a spiegare nel giudizio intervento volontario “ad adiuvandum“, ai sensi dell’art. 105, secondo comma, c.p.c., volto a sostenere le ragioni del nudo proprietario alla conservazione del suo immobile, anche quando le opere realizzate a distanza illegittima abbiano riguardato sopravvenute accessioni sulle quali si sia esteso il godimento spettante all’usufruttuario in conformità dell’art. 983 c.c.[168]
Sul punto è intervenuta di recente la Cassazione[169] la quale ha affermato in forza dell’autonomia dell’usufrutto rispetto alla nuda proprietà, l’eventuale giudicato di condanna del nudo proprietario alla demolizione di opere eseguite in violazione del diritto dell’attore in negatoria servitutis, non spiega alcun effetto riflesso sulla posizione dell’usufruttuario che sia rimasto estraneo alla lite. Ne legittima, semmai, l’intervento adesino autonomo o litisconsortile, e non quello ad adiuvandum.
Si legge nella sentenza in commento che in passato la giurisprudenza di questa Corte aveva ritenuto, in tema di negatoria servitutis qualificata ai sensi del cpv. dell’articolo 949 c.c., che la domanda diretta alla rimozione di opere eseguite a distanza inferiore a quella legale dovesse essere necessariamente proposta nei confronti del nudo proprietario, oltre che dell’usufruttuario, del fondo sul quale le opere sono state realizzate, in quanto la sentenza emessa nei confronti soltanto del secondo sarebbe inutiliter data, in quanto non eseguibile in danno del proprietario[170]. Ciò in quanto la richiesta cessazione della turbativa o della molestia inerente all’esercizio di una determinata servitù richiede, inscindibilmente, il preliminare accertamento negativo di tale vantato diritto; e pertanto se tale domanda é spiegata nei confronti dell’autore della turbativa o della molestia che non sia il proprietario del preteso fondo dominante, il giudizio deve essere necessariamente integrato nei confronti del predetto proprietario[171].
Tale orientamento, che comporta in tema di actio negatoria servitutis un litisconsorzio necessario tra usufruttuario e nudo proprietario, agli inizi di questo decennio ha subito una variazione nell’ipotesi di azione proposta contro il solo nudo proprietario, a seguito di Cass. n. 5900/10. Quest’ultima ha osservato che l’usufrutto vale soltanto a giustificare un eventuale intervento volontario ad adiuvandum ex articolo 105 c.p.c., comma 2, da parte dell’usufruttuario, in considerazione dell’interesse di lui a sostenere le ragioni del nudo proprietario alla conservazione dell’immobile, cosi’ come incrementato dalle opere oggetto di domanda di demolizione, opere sulle quali il godimento dell’usufruttuario si espande ai sensi dell’articolo 983 c.c., comma 1.
Siffatta situazione soggettiva, non può tuttavia legittimare passivamente l’usufruttuario rispetto alle pretese restitutorie, da far valere nei confronti del proprietario, anche nei casi in cui l’opera sia stata realizzata da altri soggetti, tenuti a risponderne solo a titolo risarcitorio[172]. Non avendo, infatti, la facoltà di disporre del bene, l’usufruttuario non può essere considerato responsabile dell’intervento additivo, né della mancata eliminazione delle opere relative, ove illegittime, a meno che non abbia in qualche modo concorso, quale autore o coautore materiale (tale l’ipotesi considerata in Cass. n. 35/00), alla relativa realizzazione, nel qual caso egli deve risponderne solo sul piano risarcitorio, alla stregua di qualsiasi corresponsabile dell’illecito.
Quest’ultimo orientamento si é poi consolidato grazie ad altre due pronunce, nn. 8008/11 e 21341/11 (quest’ultima non massimata), sicché, allo stato, il parziale contrasto con l’indirizzo precedente non pare sincrono e tale, dunque, da doverne investire le S.U.
L’orientamento espresso da Cass. n. 5900/10 è stato – con la pronuncia del 2015 – sostanzialmente confermato, salvo una necessaria (e diversa) puntualizzazione sulla natura della posizione dell’usufruttuario.
L’articolo 1012 c.c., comma 1, prevede – esclusivamente a tutela del nudo proprietario – che se durante l’usufrutto un terzo commette usurpazione sul fondo o altrimenti offende le ragioni del proprietario, l’usufruttuario é tenuto a fargliene denuncia e, omettendola, é responsabile dei danni che eventualmente siano derivati al proprietario. Il comma II di detto articolo, invece, inverte la prospettiva e legittima attivamente l’usufruttuario alle azioni confessorie o negatorie, imponendogli tuttavia di chiamare in causa il proprietario.
Quest’ultima disposizione costituisce una logica conseguenza del carattere essenzialmente autonomo dell’usufrutto rispetto alla nuda proprietà, nel senso che il primo non dipende dalla seconda, l’uno e l’altra essendo distinti diritti reali che confluiscono sulla medesima res.
Da ultimo la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5147.
ha avuto modo nuovamente di precisare sul punto che in tema di riduzione in pristino di opere illegittime per violazione delle distanze legali, la domanda di arretramento della costruzione realizzata dall’usufruttuario dell’immobile deve essere proposta nei soli confronti del nudo proprietario, potendo il titolare del diritto reale di godimento, al più, intervenire in giudizio, in via adesiva, ai sensi dell’art. 105, comma 2, c.p.c. Pertanto, l’attore, rimasto soccombente per avere agito contro l’usufruttuario, non può dolersi della mancata chiamata in causa del nudo proprietario da parte del giudice, poiché, da un lato, non sussiste litisconsorzio necessario tra l’usufruttuario e il nudo proprietario e, dall’altro, l’ordine di intervento ex art. 107 c.p.c. è espressione di un potere discrezionale, incensurabile sia in appello sia in sede di legittimità.
Significativamente, invece, nell’ipotesi del contratto di locazione, da cui deriva il diritto del conduttore, l’omologo articolo 1586 c.c., comma II, dettato in tema di pretese di terzi sulla cosa locata, pone una regola inversa, ossia l’assunzione della lite da parte del locatore e l’estromissione del conduttore, salvo questi abbia interesse a rimanere nel giudizio.
Autonomo l’usufrutto rispetto alla nuda proprietà, é di necessità logica affermare che l’eventuale giudicato di condanna del nudo proprietario alla demolizione di opere eseguite in violazione del diritto dell’attore in negatoria servitutis, non spiega alcun effetto riflesso sulla posizione dell’usufruttuario che sia rimasto estraneo alla lite. E dunque ne legittima, semmai, l’intervento adesivo autonomo o litisconsortile, e non quello ad adiuvandum.
A conclusioni del tutto identiche si perviene procedendo dai principi elaborati sul litisconsorzio necessario, il quale fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, ricorre solo quando, per la particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio e per la situazione strutturalmente comune a una pluralità di soggetti, la decisione non può conseguire il proprio scopo se non é resa nei confronti di tutti loro[173].
La sentenza in commento conclude che – nel caso di azione negatoria, la sentenza d’accoglimento della domanda proposta contro il solo nudo proprietario e di condanna di quest’ultimo alla rimozione delle opere illegittimamente realizzate, non é, ove resa contro il solo nudo proprietario e non anche contro l’usufruttuario, inutiliter data.
Essa é eseguibile nei confronti del primo (o dei suoi eredi o aventi causa: articolo 2909 c.c.) una volta che, estintosi l’usufrutto, la nuda proprietà si consolidi divenendo piena.
A ben vedere, é solo per mere ragioni d’opportunità – come tali inidonee a fondare in materia un’affermazione avente validità teoretica – che la precedente giurisprudenza di questa Corte, per evitare una pronuncia di condanna ineseguibile ad tempus, aveva ritenuto necessario il litisconsorzio tra il nudo proprietario e l’usufruttuario. Ma si tratta, appunto, di un commodum, cioé di una situazione non necessaria che al più legittimerebbe (oltre all’intervento volontario, anche) la chiamata in causa iussu iudicis dell’usufruttuario, ai sensi dell’articolo 107 c.p.c.
Né varrebbe dedurre l’inconveniente della possibile prescrizione dell’actio indicati, in attesa dell’estinzione dell’usufrutto, atteso che inopponibilità e ineseguibilità della sentenza nei confronti dell’usufruttuario equivalgono a impedimenti di diritto ai sensi dell’articolo 2935 c.c.
Mentre, come già visto, l’azione per denunciare la violazione da parte del vicino delle distanze nelle costruzioni che abbia natura di “negatoria servitutis“, essendo diretta a far valere l’inesistenza di “iura in re” a carico della proprietà suscettibili di dar luogo ad una servitù, per il suo esercizio è legittimato, a norma dell’art. 1012, secondo comma, c.c., anche il titolare del diritto di usufrutto sul fondo[174].
Importante per la legittimazione della domanda è la prospicienza del fabbricato (come già analizzato); infatti legittimato a proporre la domanda di riduzione in pristino è soltanto il proprietario di una preesistente e fronteggiante fabbrica, rispetto alla quale la nuova costruzione venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale, e non anche quello di altre fabbriche non frontistanti, quantunque comprese nello stesso edificio o nella stessa zona, salvo restando il suo diritto al risarcimento del danno in caso di dimostrazione di un concreto pregiudizio economico per la diminuzione di aria, luce, panoramicità dell’edificio[175].
Per quanto riguarda, infine, gli aspetti penali delle costruzioni abusive, il proprietario confinante è legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni (art. 873 c.c.), ma anche nel caso di inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni (art. 871 c.c.), indipendentemente dalle distanze. (Fattispecie di mutamento di destinazione d’uso di un piano seminterrato da garage e cantina in miniappartamento)[176].
I) Lo Jus superveniens
Infine, è opportuna una brevissima trattazione dello jus superveniens.
Orbene in materia di violazione delle norme dettate per il rispetto delle distanze legali, lo “Jus superveniens” che contenga prescrizioni più restrittive, non incontra la limitazione dei diritti quesiti e non trova applicazione per le costruzioni che al momento della sua entrata in vigore possono considerarsi già sorte per l’attuale realizzazione delle strutture organiche, che costituiscono il punto di riferimento per la misurazione delle distanze legali.[177] Pertanto, in caso di successione nel tempo di norme edilizie, la nuova disciplina, se meno restrittiva, è applicabile anche alle costruzioni realizzate prima della sua entrata in vigore, con l’unico limite dell’eventuale giudicato formatosi nella controversia sulla legittimità della costruzione stessa, onde la illegittimità dell’eventuale ordine di demolizione degli edifici originariamente illeciti alla stregua delle precedenti norme, nei limiti in cui siano consentiti dalla normativa sopravvenuta[178].
Da ultimo, una sentenza della Cassazione[179] già citata in tema di prevenzione, ha riaffermato il seguente principio: nel caso di successione nel tempo di norme edilizie, se le norme successive siano più restrittive, la nuova disciplina non é applicabile alle costruzioni che al momento della sua entrata in vigore possano considerarsi già sorte.
L) NOTE
[1] L’art. 832, infatti, attribuisce al proprietario ogni facoltà che non sia esclusa dall’ordinamento, tanto per il godimento della res, quanto per la disposizione del diritto.
La pienezza del diritto di proprietà non è in contrasto con l’esistenza di limiti privatistici e pubblicistici, poiché questi ultimi comprimono la sfera del diritto incidendo, cioè, sul contenuto del diritto inteso quale potere di godere e disporre.
Il proprietario, pertanto, potrà fare del suo bene tutto ciò che non è vietato dalla legge.
[2] Corte di Cassazione, sezione II, 06 febbraio 2009, n. 3036
[3] Corte di Cassazione, sezione II, 22 giugno 2007, n. 14606. Nella specie,è stata esclusa la violazione dell’art. 6 n. 4 della legge n.1684 del 1962 sul rilievo che il fabbricato realizzato dal convenuto non fosse fronteggiante rispetto a quello dell’attore, atteso che nessuna retta ortogonale al fronte di uno degli edifici incontrava un punto del contorno dell’altro
[4] Corte di Cassazione, sezione II, 16 febbraio 2006, n. 3425
[5] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 maggio 2015, n. 8935, per la lettura integrale della sentenza aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 maggio 2015, n. 8935
[6] Corte di Cassazione, sentenza 30 marzo1985, n. 2230
[7] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 3 agosto 2012 n. 14096, per la lettura integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 3 agosto 2012 n. 14096
[8] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 maggio 2015, n. 8935, per la lettura della sentenza integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 5 maggio 2015, n. 8935 cfr. Corte di Cassazione, sentenza 7 aprile 1986, n. 2402
[9] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 27 aprile 2010, n. 10041
[10] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 31 marzo 2014, n. 7512. Per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 31 marzo 2014, n. 7512
[11] sia sotto il profilo dell’insalubrità nonché dell’ordine pubblico
[12] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 10 settembre 2009, n. 19554
[13] Per una maggiore disamina dell’istituto aprire il seguente collegamento Le servitù prediali
[14] Per un maggior approfondimento sulle azioni possesorie aprire il seguente link http://3.70.129.172/2013/02/18/il-possesso-lusucapione-e-le-azioni-a-tutela-del-possesso/
[15] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 22 febbraio 2010, n. 4240
[16] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del del 23 gennaio 2012, n. 871
[17] si può mutuare anche l’antico brocardo “Prior in tempore, potior in iure”
[18] App. Napoli, Sez. II, 29 dicembre 2008
[19] Per un maggior approfondimento sulla Comunione aprire il seguente link http://3.70.129.172/2011/08/23/la-comunione/
[20] Nella specie la S.C., nel cassare la decisione della corte di merito che aveva ritenuto colmabili le intercapedini esistenti tra gli edifici delle parti, ha escluso che le dimensioni delle medesime – che presentavano distacchi da un minimo di 20 ad un massimo di 88 cm. – consentissero di applicare il principio giurisprudenziale che estende il concetto di costruzione in aderenza a quelle costruzioni, le cui pareti presentano intercapedini di minime dimensioni
[21] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 05 ottobre 2009, n. 21227
[22] Corte di Cassazione, sentenza del 21 maggio 2001 n. 6926
[23] Corte di Cassazione, sentenza del 20 marzo 2015, n. 5658, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 20 marzo 2015, n. 5658
[24] Corte di Cassazione, sentenza del 30 maggio 2014, n. 12220, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 30 maggio 2014, n. 12220
[25] Corte di Cassazione, sentenza del 7 agosto 2002 n. 11899
[26] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 12 ottobre 2012, n. 17472, per la lettura integrale della sentenza aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 12 ottobre 2012, n. 17472, cfr Corte di Cassazione, sentenza nn. 8465/10, 11899/02, 13286/00 e 12103/98
[27] Corte di Cassazione, sentenza del 15 settembre 2014, n. 19408, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 15 settembre 2014, n. 19408
[28] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del , ordinanza 12 marzo 2015, n. 4965, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del , ordinanza 12 marzo 2015, n. 4965
[29] cfr. Corte di Cassazione, sentenza nn. 23693/14, 18728/05, 627/03, 12561/02, 4895/02, 4366/01, 10600/99,4438/97, 3737/94, 7747/90 e 4737/87, tutte precedute dall’incipit di S.U. n. 2846/67
[30] Corte di Cassazione, sentenza nn. 25401/07, 8283/05, 6101/93, 5474/91, 3859/88, 8543/87 e 4352/83
[31] Corte di Cassazione, sentenza nn. 4199/07, 16574/06, 5953/96, 5062/92, 5055/84 e 4246/81; in posizione intermedia, Corte di Cassazione, sentenza n.1282/99, la quale pur affermando che non opera la prevenzione ove i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione dovendosi intendere comprensiva di un implicito riferimento al confine, precisa che il metodo di misurazione dei distacchi – metà della distanza dal confine per ciascun proprietario – non è incompatibile con la previsione della facoltà di edificare sul confine ove lo spazio antistante sia libero fino alla distanza prescritta, oppure in aderenza o in appoggio a costruzioni preesistenti, con conseguente applicabilità del criterio della prevenzione
[32] Corte di Cassazione, S.U., sentenza n. 3873/74
[33] Corte di Cassazione, S.U., sentenza n. 11489/02
[34] Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 11 dicembre 2015, n. 25032, per la consultazione del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 11 dicembre 2015, n. 25032
[35] Corte di Cassazione, Sezione II, Sentenza n. 23693 del 06 novembre 2014
[36] Corte di Cassazione, Sezione II, Sentenza n. 8465 del 09 aprile 2010; analogamente Corte di Cassazione, Sezione II, Sentenza n. 13286 del 05 ottobre 2000; Corte di Cassazione, Sezione II, Sentenza n. 11899 del 07 agosto 2002
[37] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 2 agosto 1995, n. 8476
[38] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, cfr Corte di Cassazione, sentenza n. 3979 del 2013
[39] App. Roma, Sez. IV, 17 giugno 2009
[40] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 25 settembre 2013 n. 21947, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 25 settembre 2013 n. 21947
[41] Corte di Cassazione, sentenza n. 2658 del 1999 e Corte di Cassazione,sentenza n. 992 del 2008
[42] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 4 settembre 2014, n. 18689, per la lettura del testo integrale aprireil seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 4 settembre 2014, n. 18689
[43] Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, cfr Corte di Cassazione, sentenza n.10173 del 1998; Corte di Cassazione, sentenza n.7563 del 2006; Corte di Cassazione, sentenza n.17286 del 2011
[44] D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il c.d. Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia
[45] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 24 marzo 2005, n. 6401
[46] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 20 giugno 2012, n. 10210, v., ex plurimis, Corte di Cassazione, sentenza 30 maggio 2001, n. 7384
[47] Corte di Cassazione, sentenza 30 agosto 2004, n. 17390
[48] Corte di Cassazione, sentenza 16 gennaio 2009 n. 1073
[49] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 18 maggio 2009, n. 11431
[50] Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 31 marzo 2015, n. 1670, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 31 marzo 2015, n. 1670
[51] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza dell’11 novembre 2014, n. 24013, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza dell’11 novembre 2014, n. 24013
[52] TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21 dicembre 2015 n. 1383
[53] in tal senso Consiglio di Stato, n. 5281/2012; Tar Liguria, I, n. 704/2013; Tar Campania-Salerno, n. 473/2014; TAR Toscana n. 1217/2014; TAR Bolzano n. 295/2014
[54] Corte di Cassazione, sentenza 7756/2013
[55] TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19 maggio 2015 n. 2791
[56] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 09 aprile 2010, n. 8465
[57] Il piano particolareggiato é il principale strumento di attuazione del P.R.G. L’obiettivo del P.P. é di precisare in dettaglio l’assetto definitivo delle sistemazioni delle singole zone, determinando:
- i limiti ed i vincoli che debbono essere osservati dai privati nelle nuove costruzioni e/o nelle trasformazioni;
- la delimitazione delle aree soggette ad esproprio od a vincoli per l’esecuzione delle opere pubbliche, come effetto della dichiarazione di pubblica utilità insita nell’approvazione del piano.
[58] Il piano di lottizzazione convenzionata è lo strumento attuativo di iniziativa privata che, formato ai sensi dell’art. 8 della legge 765/1967 e dell’art. 23 LR 18/1983 e nei casi in cui è previsto dal Piano regolatore generale, ha la funzione di strumento urbanistico preventivo e, quindi, di dare esecuzione alle previsioni di P.R.G. regolando e conformando gli interventi necessari e/o conseguenti mediante la definizione dell’assetto di un ambito o porzione di esso.
In particolare il P.di L. è applicabile a porzioni di ambiti costituiti dall’aggregazione di unità minime così come individuate dal P.R.G., alle seguenti condizioni, sostanziali e temporali:
- ci sia l’impegno da parte dei proprietari costituenti l’unità minima ad assumere a proprie cure e spese la realizzazione di quota parte delle opere di urbanizzazione nel rispetto delle eventuali priorità di attuazione stabile dalla scheda d’ambito e delle opere di allacciamento della zona ai pubblici servizi ovvero alla devoluzione al Comune di un contributo commisurato al costo delle opere da realizzare;
- nella redazione dei progetti, vengono rispettate tutte le prescrizioni delle eventuali schede d’ambito.
[59] Corte di Cassazione, sentenza del 18 febbraio 2014, n. 3803, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 18 febbraio 2014, n. 3803 cfr. sent. n. 12424 del 2010
[60] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 7 gennaio 2010, n. 56
[61] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 12 ottobre 2009, n. 21603
[62] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 19 gennaio 2012, n. 741
[63] Corte di Cassazione, sentenza del 22 novembre 2012, n. 20713, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 22 novembre 2012, n. 20713
[64] Corte di Cassazione, sentenza del 18 febbraio 2014, n. 3803, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 18 febbraio 2014, n. 3803
[65] App. Napoli, Sez. III, 20 novembre 2009
[66] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 14 ottobre 2010, n. 21234
[67] Corte di Cassazione, sezione III, sentenza del 01 ottobre 2009, n. 21059
[68] Trib. Treviso, Sez. I, 03 giugno 2009
[69] Per una maggior approfondimento sull’azione confessoria aprire il seguente link
http://3.70.129.172/2011/04/22/servitu-prediali/
[70] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 23 aprile 2010, n. 9751
[71] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 19 ottobre 2009, n. 22127
[72] Corte di Cassazione, sentenza n. 12001 del 1992
[73] Corte di Cassazione, sentenza n. 1509 del 1998
[74] Corte di Cassazione, sentenza del n. 15972 del 20 luglio 2011, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del n. 15972 del 20 luglio 2011 Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in forza di motivazione inadeguata, aveva escluso di poter ravvisare gli estremi della costruzione nell’opera di rialzamento del terreno, pur riferendo della realizzazione, su tale rialzamento, di un lastricato e di un muro di contenimento. La sentenza impugnata aveva violato la costante giurisprudenza secondo cui quando, nel caso di fondi a dislivello, il muro di cinta ha funzione di sostegno di un terrapieno creato ex novo va considerato come muro di fabbrica ed è assoggettato al rispetto delle distanze legali
[75] Trib. Treviso, Sez. I, 09 marzo 2010
[76] Trib. Monza, 16 marzo 2009
[77] Corte di Cassazione, sentenza del 16 marzo 2015, n. 5163, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link, Corte di Cassazione, sentenza del 16 marzo 2015, n. 5163 cfr. Corte di Cassazione, sentenza n.19530/05, che in applicazione di questo principio ha cassato la sentenza del giudice di merito che, sulla base di una disposizione del regolamento edilizio comunale, aveva negato la qualità di costruzione ad un determinato manufatto; conforme, Corte di Cassazione, sentenza n.1556/05
[78] Corte di Cassazione, sentenza n.4196/87
[79] cfr. ex plurimus, Corte di Cassazione, sentenza nn. 5753/14, 23189/12, 15972/11, 22127/09, 25837/08, S.U. 7067/92 e 3199/02
[80] cfr. Corte di Cassazione, sentenza nn. 1217/10, 145/06, 8144/01,4511/97, 7594/95 e 1467/94
[81] Corte di Cassazione, sentenza del 5 maggio 2015, n. 8935, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 5 maggio 2015, n. 8935 cfr. Corte di Cassazione, sentenza 5.11.1990, n. 10608; cfr. altresi’ Corte di Cassazione, sentenza sez. un. 9.6.1992, n. 7067, secondo cui, ai fini dell’osservanza delle distanze di cui all’articolo 873 c.c., la nozione di costruzione comprende qualunque opera non completamente interrata avente i requisiti della solidità e della immobilizzazione rispetto al suolo
[82] Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza n. 16776 del 2 ottobre 2012, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza n. 16776 del 2 ottobre 2012 cfr. Corte di Cassazione, sentenza 14 marzo 2011 n. 5934; Corte di Cassazione, sentenza 29 dicembre 2005 n. 28784; Corte di Cassazione, sentenza 21 dicembre 1999 n. 14372; Corte di Cassazione, sentenza 10 novembre 1998 n. 11291
[83] Per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 14 ottobre 2013, n. 4997 cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19 luglio 2013 n. 3939
[84] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 30/1/2007, n. 1966
[85] Corte di Cassazione, sentenza del 3 gennaio 2013, n. 72, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 3 gennaio 2013, n. 72
[86] Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 14 ottobre 2013, n. 4997, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 14 ottobre 2013, n. 4997 cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11 giugno 2013 n. 3221
[87] Per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 12 ottobre 2012, n. 17472
[88] T.A.R. Calabria Reggio Calabria, Sez. I, 13 gennaio 2010, n. 8
[89] Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 17 maggio 2012, n. 2847, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 17 maggio 2012, n. 2847, cfr Consiglio Stato , sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3539
[90] Corte di Cassazione, sentenza n. 19530 del 2005
[91] Corte di Cassazione, sentenza del 30 gennaio 2014, n. 2094, per la lettura deltesto integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 30 gennaio 2014, n. 2094
[92] Cfr Corte di Cassazione, sentenza n. 1556 del 2005
[93] Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 5 gennaio 2015, n. 11, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 5 gennaio 2015, n. 11
[94] tra varie, Cons. Stato, IV, 7 luglio 2008, n.3381
[95] Corte di Cassazione, sentenza del 30 ottobre 2003 n. 16358
[96] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 19 ottobre 2009, n. 22127
[97] Corte di Cassazione, sentenza del 25 marzo 2004 n. 5963
[98] Tribunale Modena, sezione I civile, sentenza 3 giugno 2013, n. 892
[99] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 14 marzo 2011, n. 5934
[100] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 22 luglio 2010, n. 17242
[101] Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 14 ottobre 2013, n. 4997, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 14 ottobre 2013, n. 4997
[102] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 30/01/2007, n. 1966, Tribunale Amministrativo Regionale PUGLIA – Bari, Sezione III, Sentenza 21 giugno 2012, n. 1219. Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia. Inoltre, è stata qualificata come “costruzione” una scala antincendio esterna in alluminio (Trib. Viterbo 22 maggio 1998).
[103] Corte di Cassazione, sentenza 28 maggio 1984, n. 3264
[104] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 21 luglio 2005, n. 15282
[105] Cons. Stato, Sez. II, 10 novembre 2004, n. 3523
[106] terrapieno addossato alle mura
[107] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27 ottobre 2008, n. 25837
[108] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 22 gennaio 2010, n. 1217
[109] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 28 settembre 2007, n. 20574
[110] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 25 settembre 2006, n. 20786
[111] Corte di Cassazione, sentenza del 27 marzo 2014, n. 7291, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 27 marzo 2014, n. 7291
[112] Corte di Cassazione, sentenza del 30 maggio 2014, n. 12220, perla lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 30 maggio 2014, n. 12220
[113] Corte di Cassazione, sentenza del 8 settembre 2014, n. 18889, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 8 settembre 2014, n. 18889
[114] cfr. Corte di Cassazione, sentenza 12 gennaio 2005, n. 400; cfr. altresì Corte di Cassazione, sentenza 3 gennaio 2011, n. 74, secondo cui in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione; ad essa, pertanto, è applicabile la normativa vigente al momento della modifica e non opera il criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione
[115] Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, cfr Corte di Cassazione, sentenza n. 21059 del 2009; Corte di Cassazione, sentenza n.15527 del 2008
[116] Trib. Campi Salentina, 17 luglio 2006
[117] Corte di Cassazione, sentenza 21 settembre 1970 n. 1647
[118] Trib. Genova, Sez. III, 22 gennaio 2009
[119] Corte di Cassazione, sentenza 20 luglio 1973 n. 1647
[120] App. Genova, Sez. II, 10 gennaio 2007, Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 04 novembre 2004, n. 21107
[121] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 15 ottobre 2008, n. 25191
[122] App. Catania, Sez. II, 07 aprile 2007
[123] tutti quegli elementi che sporgono rispetto la facciata di un edificio
[124] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 26 gennaio 2005, n. 1556. Nella specie, la Corte, nel confermare la sentenza impugnata, ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento armato
[125] quindi misurazione lineare e non radiale
[126] Corte di Cassazione, sentenza del 17 settembre 2013, n. 21192, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 17 settembre 2013, n. 21192
[127] Corte di Cassazione, sentenza 10 gennaio 2006 n. 145; Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 1997 n. 4511; Corte di Cassazione, sentenza 11 gennaio 1992 n. 243; Corte di Cassazione, sentenza 6 maggio 1987 n. 4196
[128] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 5 dicembre 2007, n. 25393
[129] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 15 luglio 2008, n. 19486
[130] Corte di Cassazione sezione II sentenza 11 settembre 2013, n. 20850, per la consultazione del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione sezione II sentenza 11 settembre 2013, n. 20850
[131] Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 1997 n. 4511
[132] Corte di Cassazione, sentenza 24 novembre 1995 n. 12163
[133] Corte di Cassazione, sentenza 1 luglio 1996 n. 5956
[134] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 30 ottobre 2007, n. 22896
[135] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 22 gennaio 2010, n. 1217
[136] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27 ottobre 2009, n. 22688 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 27 ottobre 2009, n. 22688 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 27 aprile 2006, n. 9637 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 16 dicembre 2004, n. 23458 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 02 febbraio 2004, n. 1817 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27 ottobre 2004, n. 20820
[137] Corte di Cassazione, sentenza del n. 14902 del 13 giugno 2013, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del n. 14902 del 13 giugno 2013
[138] Consiglio di Stato, Sez. V, sentenze 28 maggio 2004, n. 3452; 15 aprile 2004, n. 2142; 1 dicembre 1999, n. 2021; 4 agosto 1999, n. 398; 10 marzo 1997, n. 240
[139] Corte di Cassazione, sentenza del 13 settembre 2013 n. 21000, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link, Corte di Cassazione, sentenza del 13 settembre 2013 n. 21000
[140] Trib. Roma, Sez. V, sentenza 21 ottobre 2009
[141] Corte di Cassazione, Sezione II civile, sentenza 05 giugno 2003, n. 8978
[142] Corte di Cassazione, Sezione II civile, sentenza 23 maggio 2002, n. 7530
[143] Corte di Cassazione, sentenza del 27 febbraio 2014, n. 4741, per la lettura integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 27 febbraio 2014, n. 4741
[144] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 18 settembre 2006, n. 20126
[145] Corte di Cassazione, sentenza 16 settembre 2005, n. 18341. Principio affermato in relazione a domanda di ripristino della stato dei luoghi e di risarcimento danni avanzata dalla Ferrovia Locale Brunico – Campo Tures s.n.c. nei confronti del Comune di Campo Tures e della Provincia di Bolzano a seguito della asserita decadenza di decreti di espropriazione per pubblica utilità
[146] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 29 novembre 2004, n. 22414
[147] Trib. Salerno, Sez. II, 15 luglio 2008 – Trib. Salerno, Sez. II, 1 aprile 2008.
[148] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 07 aprile 2010, n. 8273
[149] Per un maggior approfondimento sulle azioni possesorie aprire il seguente link http://3.70.129.172/2013/02/18/il-possesso-lusucapione-e-le-azioni-a-tutela-del-possesso/
[150] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 07 settembre 2009, n. 19289
[151] Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 12 giugno 2006, n. 13523
[152] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 07 maggio 2010, n. 11196
[153] Per la consultazione integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del del 24 maggio 2011 n. 11382
[154] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 11 febbraio 2008, n. 3199 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 27 marzo 2008, n. 7972
[155] Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 16 luglio 2015, n. 14916 cfr. Corte di Cassazione, sentenza n.11744 del 2003; Corte di Cassazione, sentenza n.2398 del 2009; Corte di Cassazione, sentenza n.2359 del 2012
[156] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 24 giugno 2009, n. 14782
[157] App. Roma, Sez. IV, 14 ottobre 2009
[158] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 29 luglio 2009, n. 17692 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 02 febbraio 2009, n. 2563
[159] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 03 marzo 2008, n. 5741 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 30 marzo 2006, n. 7563 – Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 19 novembre 2004, n. 21899
[160] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 12 ottobre 2007, n. 21484. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito la quale – in relazione ad una domanda di arretramento di una costruzione fino al limite delle distanze legali – , avendo il convenuto eccepito che la costruzione era stata legittimamente eretta molto tempo prima, aveva qualificato tale eccezione come usucapione dello “ius aedificandi” a distanza inferiore da quella legale; la S.C. ha rilevato che una simile eccezione è da qualificare come eccezione in senso stretto, la cui rilevabilità d’ufficio è sottratta al giudice
[161] Trib. Salerno, Sez. II, 13 febbraio 2009
[162] Corte di Cassazione, sentenza n.2722 del 6 marzo 1993; Corte di Cassazione, sentenza n.5520 del 5 giugno 1998
[163] Per una maggior approfondimento sulla comunione aprire il seguente link
http://3.70.129.172/2011/08/23/la-comunione/
[164] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 26 aprile 2010, n. 9902. Nella specie, sulla scorta dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, relativa ad una domanda di demolizione di opere di copertura di un terrazzo e conseguente sopraelevazione per trasformazione di una soffitta in appartamento, siccome emessa in difetto dell’estensione del contraddittorio nei confronti del coniuge dell’originario convenuto, poi ricorrente, pacificamente risultante dagli atti comproprietario dell’immobile sul quale erano state realizzate le attività illegittime
[165] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 15 marzo 2005, n. 5545
[166] Corte di Cassazione, II sezione, sentenza 16 marzo 2011 n. 6177, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, II sezione, sentenza 16 marzo 2011 n. 6177
[167] una maggiore disamina dell’istituto aprire il seguente collegamento Usufrutto
[168] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 11 mazro 2010, n. 5900
[169] Corte di Cassazione, sentenza del 23 giugno 2015, n. 12948, per la lettura del testo integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 23 giugno 2015, n. 12948
[170] Corte di Cassazione, sentenza nn. 7541/02, 35/00, 5887/82 e 959/81; contra, però, n. 3441/74, con riferimento ad un’azione diretta alla costituzione di servitù coattiva esercitata nei confronti del solo nudo proprietario
[171] Corte di Cassazione, sentenza n.1185/73
[172] v. Corte di Cassazione, sentenze 2968/01, 5520/98, 13072/95 e 2722/93, citate da Corte di Cassazione, sentenza n.5900/10
[173] cfr. ex pluribus, Corte di Cassazione, sentenza nn. 6381/08, 4890/06, 4714/04, 3023/04 e 11612/97
[174] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 21 ottobre 2009, n. 22348
[175] Trib. Salerno, Sez. II, 09 marzo 2010
[176] Corte di Cassazione, sentenza pen., Sez. III, 21 ottobre 2009, n. 45295
[177] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 24 giugno 2008, n. 17160. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva fatto riferimento a normative relative a due diversi strumenti urbanistici succedutisi nel tempo per la misurazione dell’altezza degli edifici e il calcolo delle distanze
[178] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza del 02 marzo 2007, n. 4980
[179] Corte di Cassazione, sentenza del 15 settembre 2014, n. 19408, per la lettura integrale aprire il seguente link Corte di Cassazione, sentenza del 15 settembre 2014, n. 19408
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