La massima
A norma dell’art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, che ha dato attuazione alla prescrizione contenuta nell’art. 9, 2 comma, del d. l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 271, le disposizioni con cui detto decreto ha determinato i parametri ai quali devono esser commisurati i compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono destinate a trovare applicazione quando, come nella specie, la liquidazione sia operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all’entrata in vigore del medesimo decreto.
Reputa il collegio che, per ragioni di ordine sistematico e dovendosi dare al citato art. 41 del decreto ministeriale un’interpretazione il più possibile coerente con i principi generali cui è ispirato l’ordinamento, la citata disposizione debba essere letta nel senso che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate.
Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza del 12 ottobre 2012, n. 17406
Svolgimento del processo
L’occupazione nel 1981 di alcune aree appartenenti alla Spaz Suardi Società Grandi Alberghi s.p.a. (poi divenuta Pucci Via Veneto s.p.a. e che in prosieguo verrà indicata sempre come Pucci) ad opera del Comune di Montecatini Terme, che intendeva costruirvi parcheggi pubblici, dette origine ad un complesso contenzioso, in parte afferente alla determinazione dell’indennità di occupazione ed in parte al risarcimento del danno per l’intervenuta trasformazione di dette aree e per la loro mancata restituzione, pur dopo la scadenza del termine di durata dell’occupazione, senza che fosse stato emanato alcun provvedimento espropriativo.
Con riferimento a quest’ultimo profilo, nel maggio del 2004, la società Pucci ricorse al Tribunale amministrativo regionale della Toscana, il quale però – dopo che le sezioni unite di questa corte ne ebbero confermato la giurisdizione, pronunciandosi sull’istanza di regolamento preventivo proposta dalla medesima società (ordinanze nn. 19608 ed 19609 del 2008) – rigettò la domanda in quanto ritenne che il diritto dell’attrice al risarcimento del danno fosse prescritto.
Della questione fu investito il Consiglio di Stato, che, con sentenza depositata il 29 agosto 2011, riformò la decisione di primo grado, poiché, anche alla luce della sopravvenuta giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, reputò che l’irreversibile trasformazione delle aree occupate non ne avesse implicato l’acquisizione in proprietà da parte della pubblica amministrazione, potendo ciò avvenire solo in forza di un accordo negoziale col proprietario di dette aree o dell’emanazione di un regolare provvedimento espropriativo (non realizzabile nelle forme accelerate previste dall’art. 43 del d. lgs. n. 327 dei 2001, frattanto dichiarato incostituzionale). Pertanto, il Consiglio di Stato ritenne che il diritto della società proprietaria al risarcimento del danno fosse da correlare al mancato godimento delle aree indebitamente occupate, a partire dal momento di scadenza del termine di occupazione legittima sino a quando, in difetto di eventuale restituzione nel pristino stato, la proprietà non fosse passata in capo all’amministrazione in uno o nell’altro dei modi di acquisto sopra richiamati. Donde il carattere permanente dell’illecito imputato alla pubblica amministrazione, la conseguente impossibilità di considerare prescritto il diritto al risarcimento del danno di cui s’è detto, e la quantificazione di tale danno in misura corrispondente agli interessi moratori, da calcolare annualmente sul valore del bene nell’arco di tempo considerato, con maggiorazione di interessi e rivalutazione monetaria.
Avverso questa sentenza il Comune di Montecatini Terme ha proposto ricorso per cassazione, assumendo che il Consiglio di Stato avrebbe travalicato i limiti della propria giurisdizione.
La società Pucci si è difesa con controricorso, chiedendo la condanna della controparte al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. L’eccezione d’inammissibilità del ricorso, prospettata in via preliminare dalla difesa della società controricorrente, non è fondata.
Al contrario di quanto affermato da detta controricorrente, infatti, da alcun documento prodotto in causa è dato evincere che la sentenza impugnata con il ricorso qui in esame – ossia la sentenza del Consiglio di Stato n. 4834/2011 – era stata notificata al difensore del Comune di Montecatini Terme. Ne consegue che, essendo stata detta sentenza depositata in cancelleria il 29 agosto 2011, il ricorso per cassazione, inviato per la notifica il 24 febbraio 2012, non può dirsi affatto tardivo.
2. Il comune ricorrente lamenta il superamento, nell’impugnata pronuncia, dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, limiti che non avrebbero consentito al Consiglio di Stato di affermare – come ha fatto – che la proprietà delle aree di cui si discute nel caso in esame non è stata acquisita dalla pubblica amministrazione e che una tale acquisizione può avvenire solo per effetto di un accordo negoziale da stipulare con la società Pucci o all’esito di un regolare procedimento espropriativo. Così decidendo il giudice amministrativo avrebbe, per un verso, inteso colmare la lacuna normativa verificatasi a seguito della declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del d. lgs. n. 327 del 2001, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del 2010, interferendo però in tal modo indebitamente con la sfera delle attribuzioni proprie del legislatore, e, per altro verso, avrebbe invaso la sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario, cui spetterebbe valutare l’eventualità dell’acquisto della proprietà delle aree da parte del comune per effetto di usucapione.
3. Il ricorso non è fondato.
Giova anzitutto ricordare che non è più possibile mettere in discussione la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo a conoscere della domanda di risarcimento del danno proposta dalla società Pucci nella presente causa, essendo stata tale questione già risolta dalle ordinanze (n. 19608 ed 19609 del 2008) con le quali questa corte si è pronunciata in sede di regolamento preventivo.
Ciò premesso, è agevole rilevare come l’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, nel riformare la decisione del Tribunale amministrativo che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno per intervenuta prescrizione e nell’accogliere invece siffatta domanda, determinando il criterio di liquidazione del danno da risarcire, si è mossa nel medesimo alveo giurisdizionale nel quale era precedentemente intervenuta la riformata pronuncia di primo grado. In entrambi i casi il giudizio ha avuto ad oggetto il diritto della società Pucci di ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza dell’illegittimo protrarsi dell’occupazione di aree di sua proprietà senza l’intervento di alcun successivo provvedimento espropriativo (quella che un tempo si era soliti definire “occupazione acquisitiva”): diritto che il primo giudice ha reputato fosse ormai estinto e che, viceversa, il giudice d’appello ha considerato ancora in vita, procedendo perciò a definire i criteri di liquidazione del danno.
Gli argomenti che il Consiglio di Stato ha adoperato per giustificare tale decisione – in particolare quelli concernenti le diverse possibili modalità di acquisto legittimo della proprietà delle aree in contestazione da parte della pubblica amministrazione, su cui si appuntano le censure del comune ricorrente – sono null’altro che passaggi motivazionali, volti a chiarire come il giudice di secondo grado ha individuato gli estremi del danno risarcibile, a spiegare la ragione per la quale egli ha reputato quel danno permanente ed il relativo diritto non ancora prescritto ed a definire i criteri in base ai quali il medesimo danno è destinato ad essere liquidato.
Anche a voler ammettere, per mera esigenza dialettica, che quegli argomenti siano errati e che, come il comune ricorrente insiste nel sostenere, si sarebbe dovuto tener conto della possibilità che le aree delle quali si parla fossero state già da alcun tempo usucapite dall’amministrazione che le aveva occupate per realizzarvi dei parcheggi pubblici, si tratterebbe di eventuali errores in iudicando, ma non certo di uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, quali già accertati nelle precedenti ordinanze di questa corte sopra citate. Né altrimenti è a dirsi per il fatto che il Consiglio di Stato, formulando le argomentazioni cui s’è fatto cenno, non abbia tenuto conto della sopravvenuta emanazione da parte del legislatore, dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 43 del d. lgs. n. 327 del 2001, di un novello art. 42-bis del medesimo decreto (articolo introdotto dal d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. Ili, nell’intervallo di tempo compreso tra la data della decisione in camera di consiglio e quella della pubblicazione della sentenza qui impugnata); circostanza, questa, che, a tutto concedere, potrebbe assumere rilievo in termini di eventuale violazione di legge, ma non vale certo a configurare un’indebita invasione del giudice nella sfera riservata al legislatore.
4. Il comune ricorrente, essendo rimasto soccombente, dovrà però rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che vengono liquidate come in dispositivo, in applicazione dei criteri stabiliti d.m. 20 luglio 2012, n, 140.
A tale ultimo riguardo giova ricordare che, a norma dell’art. 41 del d.m. 20 luglio 2012, n. 140, che ha dato attuazione alla prescrizione contenuta nell’art. 9, 2 comma, del d. l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 271, le disposizioni con cui detto decreto ha determinato i parametri ai quali devono esser commisurati i compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono destinate a trovare applicazione quando, come nella specie, la liquidazione sia operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all’entrata in vigore del medesimo decreto.
Reputa il collegio che, per ragioni di ordine sistematico e dovendosi dare al citato art. 41 del decreto ministeriale un’interpretazione il più possibile coerente con i principi generali cui è ispirato l’ordinamento, la citata disposizione debba essere letta nel senso che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate.
Vero è che il terzo comma del citato art. 9 del d.l. n. 1/12 stabilisce che le abrogate tariffe continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino all’entrata in vigore del decreto ministeriale contemplato nel comma precedente; ma da ciò si può trarre argomento per sostenere che sono quelle tariffe – e non i parametri introdotti dal nuovo decreto – a dover trovare ancora applicazione qualora la prestazione professionale di cui si tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle precedenti tariffe. Non potrebbe invece condividersi l’opinione di chi, con riferimento a prestazioni professionali (iniziatesi prima, ma) ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso, pretendesse di segmentare le medesime prestazioni nei singoli atti compiuti in causa dal difensore, oppure di distinguere tra loro le diverse fasi di tali prestazioni, per applicare in modo frazionato in parte la precedente ed in parte la nuova regolazione. Osta ad una tale impostazione il rilievo secondo cui – come anche nella relazione accompagnatoria del più volte citato decreto ministeriale non si manca di sottolineare – il compenso evoca la nozione di un corrispettivo unitario, che ha riguardo all’opera professionale complessivamente prestata; e di ciò non si è mai in passato dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all’esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacché sempre in siffatti casi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita (cfr., ad esempio, Cass. n. 5426 del 2005, e Cass. n. 8160 del 2001).
L’attuale unificazione di diritti ed onorari nella nuova accezione omnicomprensiva di “compenso” non può non implicare l’adozione del medesimo principio alla liquidazione di quest’ultimo, tanto più che alcuni degli elementi dei quali l’art. 4 del decreto ministeriale impone di tener conto nella liquidazione (complessità delle questioni, pregio dell’opera, risultati conseguiti, ecc.) sarebbero difficilmente apprezzabili ove il compenso dovesse esser riferito a singoli atti o a singole fasi, anziché alla prestazione professionale nella sua interezza. Né varrebbe obiettare che detti elementi di valutazione attengono alla liquidazione del compenso dovuto al professionista dal proprio cliente, sembrando inevitabile che essi siano destinati a riflettersi anche sulla liquidazione giudiziale effettuata per determinare il quantum delle spese processuali di cui la parte vittoriosa può pretendere il rimborso nei confronti di quella soccombente.
P.Q.M.
La corte rigetta ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
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