Corte di Cassazione – Sezioni Unite civili – sentenza 7 novembre 2011, n. 23020. Avvocato molesto. Legittima la sanzione disciplinare della censura da parte dell’Ordine di appartenenza, pur se le sentenze dei giudici penali avevano dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai reati di molestie e ingiurie per intervenuta remissione di querela e lo avevano assolto dall’imputazione di tentata violenza privata
Il testo integrale
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 7 novembre 2011, n. 23020
Svolgimento del processo
Con decisione in data 22 settembre 2008 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trapani inflisse all’iscritto V.B.L. la sanzione disciplinare della censura, avendo ritenuto che le sentenze dei giudici penali che, rispettivamente, avevano dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai reati di molestie e ingiurie per intervenuta remissione di querela e lo avevano assolto dall’imputazione di tentata violenza privata, non potessero estinguere né scriminare comportamenti sanzionati dal codice deontologico dal momento che essi, pur avendo valenza squisitamente personale, avevano inevitabilmente colpito la reputazione professionale dell’iscritto e compromesso l’intera classe forense.
Con decisione in data 22 aprile – 2 novembre 2010 il Consiglio Nazionale Forense rigettò il ricorso del V., affermando che l’art. 5 del codice deontologico, di cui era stata chiesta la disapplicazione, non configgeva con il diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 C.E.D.U..
Il V. ricorre ritualmente alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione formulando un unico motivo, mediante il quale ripropone il tema della compatibilità dell’art. 5, comma 2 Codice deontologico con l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Gli intimati non hanno espletato difese.
Motivi della decisione
Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 360, nn. 3 e 5 cod.proc.civ. in relazione all’art. 8 C.E.D.U. e all’art. 5, comma 2 del Codice deontologico.
Egli assume che il diritto della persona al rispetto della vita privata e familiare, costituendo uno dei diritti fondamentali della persona, non può subire ingerenza da parte di una autorità pubblica, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge quale misura necessaria in una società democratica per garantire la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la protezione della morale pubblica o per la tutela dei diritti altrui.
Quindi censura la decisione impugnata per non avere affrontato la verifica della correlazione e incidenza del disposto dell’art. 5, comma 2 codice deontologico con l’art. 8 C.E.D.U., in tal modo violando l’art. 112 cod.proc.civ..
Evidenzia che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che l’interpretazione più coerente dell’art. 5 cod. deont. debba essere nella direzione della sanzione per un disvalore e non invece per un comportamento (Cass. Sez. Un. 16 novembre 2007, n. 2372). Rileva che il comma 2 dell’art. 5 c.d. tipicizza una previsione a forma libera ove il substrato materiale della fattispecie cui è ancorata la sanzione in caso di violazione non riguarda una condotta ben determinata o un evento già individuato nei suoi confronti fattuali, ma piuttosto un evento la cui configurazione è rimessa ad una ulteriore verifica di ordine sociale e/o ad un comune sentire del tessuto culturale, appunto il senso etico della probità e del decoro, profili ben diversi dai doveri di correttezza e lealtà tipici dell’attività professionale.
Occorre subito precisare, seguendo un iter logico corretto, che la decisione impugnata in realtà ha posto in correlazione l’art. 5, comma 2 cod. deont. con l’art. 8 C.E.D.U., escludendo la configurabilità del preteso conflitto sul rilievo che, per il primo, la condotta dell’avvocato non deve uscire dall’ambito privato e familiare, come tale del tutto rispettabile, e non deve riflettersi negativamente sulla reputazione professionale o compromettere l’immagine della classe forense.
La conseguenza logica da trame è, dunque, che – secondo la decisione impugnata – la condotta dell’avvocato è censurabile disciplinarmente proprio allorché travalichi l’ambito privato e familiare, che è quello tutelato dall’art. 8 C.E.D.U.
Viene, quindi, a cadere il riferimento all’art. 112 cod.proc.civ., del resto non prospettato ritualmente dal V.
La costruzione teorica del ricorrente viene compromessa alla radice da un elemento di fatto adeguatamente sottolineato dalla decisione impugnata: nei fatti vennero coinvolti soggetti appartenenti all’ambiente forense e giudiziario ed essi vennero pubblicizzati da “numerosi articoli di stampa”.
Non può essere invocata una norma che tutela – anche a fronte di una autorità pubblica – il rispetto della vita privata e familiare della persona, ogni volta che i fatti potenzialmente lesivi siano usciti da tale ambito, siano divenuti di pubblico dominio e abbiano ingenerato notorietà e commenti idonei ad incidere oltre i limiti della sfera strettamente privata e familiare e a riverberare riflessi negativi sull’attività professionale.
Si osserva, sul piano giuridico, che l’art. 5 cod. deont. impone all’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro e, in particolare, al secondo comma, prevede il procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l’attività forense quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l’immagine della classe forense.
È certo che quella in esame sia una norma in bianco, ma è agevole rilevare che non potrebbe essere diversamente dal momento che una tipicizzazione rigida delle ipotesi regolate sarebbe, al tempo stesso, eccessivamente analitica e riduttiva. D’altra parte questa tecnica normativa è comunemente applicata nella materia disciplinare. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. Sez. Un. 5 dicembre 2007, n. 37) la legittimità costituzionale delle norme dell’ordinamento disciplinare forense anche nella parte in cui, con riguardo alla materia disciplinare, omettono una precisa individuazione delle regole di deontologia professionale, poiché la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione ben può ricollegarsi a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice opera e poiché all’esercizio del potere disciplinare, quale espressione di potestà amministrativa, sono estranei i precetti costituzionali concernenti la funzione giurisdizionale.
Rientra nei compiti precipui degli organi professionali e ne costituisce una delle ragioni di esistere il controllo che i comportamenti dei propri iscritti non si riflettano sulla reputazione professionale e non compromettano l’immagine della categoria.
L’art. 8 C.E.D.U., premesso che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza, vieta ingerenze anche da parte di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, fatti salvi il caso di esplicita previsione normativa e la necessità per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Ma la norma in esame non è certo di ostacolo al perseguimento dei reati e, di conseguenza, anche degli illeciti disciplinari.
Essa inibisce indebite intrusioni e aggressioni alla sfera privata e familiare delle persone, ma lascia integro il potere – dovere delle autorità competenti di valutare e, occorrendo, sanzionare comportamenti che si pongano in contrasto con i rispettivi ordinamenti.
Nella specie i fatti addebitati al ricorrente avevano formato oggetto di verifiche da parte del giudice penale che, pur se concluse con esiti a lui favorevoli, avevano determinato l’uscita dei medesimi dall’ambito tutelato dalla norma in esame.
Non giova alla tesi del ricorrente il riferimento alla citata sentenza n. 2372 del 2007, secondo cui l’interpretazione più coerente dell’art. 5 cod. deont. deve essere in direzione della sanzione per un disvalore e non per un comportamento, poiché, a prescindere dall’erroneità del riferimento, la decisione impugnata ha posto in evidenza proprio il disvalore sociale della condotta del ricorrente.
Pertanto il ricorso va rigettato. Nulla spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla spese.
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