Corte di Cassazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA 23 settembre 2014, n.19977

Ritenuto in fatto

B.A. , vedova T. , e T.A. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi illustrati con memoria avverso il decreto della Corte d’appello di L’Aquila del 6/10/2010, depositato il 14/10/2010, che aveva rigettato la loro domanda di equa riparazione per la durata di un procedimento penale nel quale il dante causa delle ricorrenti, T.S. , si era costituito parte civile, avendo ritenuto ragionevole la durata di poco più di un anno del procedimento di primo grado dalla costituzione di parte civile sino al decesso del predetto, e parimenti non irragionevole lo spazio di tempo di complessivi due anni e sette mesi intercorso tra la data in cui le eredi avevano assunto, durante il giudizio di appello instaurato dall’imputato, la qualità di parti civili e la sentenza di cassazione. Il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva.
Tenutasi l’udienza del 4.6.13, la sesta sez. civ. sottosezione I rimetteva, con ordinanza n. 18013/13, la causa alle Sezioni Unite al fine di valutare se, ed eventualmente in quale misura, opera nel processo penale, con riguardo all’esercizio in esso dell’azione civile, il principio della necessità dell’acquisizione anche formale della qualità di parte in capo all’erede della parte civile costituita, ai fini dell’esercizio in proprio del diritto all’equa riparazione previsto dalla legge n. 89 del 2001.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si censura il decreto impugnato; sotto il profilo della violazione di norme di diritto (art. 76, secondo comma, cod. proc. pen.), nella parte in cui ha ritenuto priva di rilevanza, ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione in favore delle eredi, la durata del procedimento penale anteriore al momento in cui esse hanno assunto la qualità di parti civili del procedimento stesso. Si sostiene che la Corte di merito non avrebbe tenuto conto delle peculiarità del processo penale, ispirato all’impulso d’ufficio, nel senso che, a differenza del processo civile, in esso vige il c.d. principio di immanenza della parte civile costituita, più volte affermato dalla giurisprudenza della S.C. Secondo tale principio, alla morte della persona costituita parte civile non conseguono, in sostanza, gli effetti interruttivi del rapporto processuale previsti dall’art. 300 cod. proc. civ. e la costituzione resta valida ‘ex tunc’, potendo gli eredi intervenire nel processo senza effettuare una nuova costituzione ma semplicemente spendendo e dimostrando la loro qualità di eredi.

Come è noto, la giurisprudenza di questa Corte per quanto concerne i processi civili ha riperutamente affermato che la continuità della posizione processuale degli eredi intervenuti rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., non toglie che il sistema sanzionatorio delineato dalla Cedu e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto paterna subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (principio oramai consolidato: v Cass. 4003/14; Cass. Sez. II n. 10517/2013; Cass. Sez. VI – 1 ord. n. 995/2012; Cass. Sez. I, ord. n. 1309/2011; Cass. Sez. I, n. 13803/2011;. Cass. Sez. I n. 23416/2009; Cass. Sez. I n. 2983/2008 ; in senso analogo CEDU 18 giugno 2013, in causa Fazio + altri c Italia).

Il processo penale presenta un significativo elemento di differenza rispetto al processo civile costituito dal fatto che alla morte della persona costituitasi parte civile – evento disciplinato dall’art. 111 cod. proc. civ. – in mancanza di specifica disciplina nel codice di rito penale non conseguono gli effetti interruttivi del rapporto processuale, previsti dall’art. 300 cod. proc. civ. ma inapplicabili al processo penale, che è ispirato all’impulso di ufficio. La costituzione resta valida ‘ex tunc’ e gli eredi del defunto titolare del diritto possono pertanto intervenire nel processo senza effettuare una nuova costituzione, ma semplicemente spendendo e dimostrando la loro qualità di eredi. (Cass. pen. 23676/05; Cass. pen. 46200/03; Cass. pen. 460/98).

Né – in virtù del predetto principio dell’immanenza della parte civile – possono integrare comportamento equivalente a revoca tacita o presunta la mancata comparizione in appello e il mancato deposito di conclusioni del difensore che si limiti a depositare solo il certificato di morte della parte civile, in quanto l’art. 82, comma secondo, cod. proc. pen., limita i casi di revoca presunta o tacita della costituzione di parte civile alle sole ipotesi di omessa presentazione delle conclusioni nel corso della discussione in fase di dibattimento di primo grado. (Cass. pen. 15308/09).

In conseguenza di ciò deve ritenersi nel giudizio di equa riparazione il principio secondo cui gli eredi della parte deceduta acquistano la qualità di parte in giudizio al momento della loro costituzione e da tal momento può essere computata nei loro confronti l’eccessiva durata del processo possa applicarsi solo per i processi civili ma non anche per quelli penali posto che in questi gli effetti della costituzione di parte civile si estendono agli eredi senza necessità di una loro costituzione.

Ciò però non sta necessariamente a significare che i presupposti per l’inizio del termine di eccessiva durata del processo per gli eredi decorrano automaticamente dalla data del decesso del loro dante causa e quindi del loro subentro nella qualità di parti civili.

Costituisce principio basilare in tema di equa riparazione per l’eccessiva durata dei processi che il momento a partire dal quale si verifica il patema e lo stato di sofferenza psicologica per la parte deve individuarsi, ai sensi dell’art. 2, comma 2 bis della legge 89/01, nel momento in cui questa ha avuto conoscenza del processo. (ex plurimis Cass. 13803/11).

La giurisprudenza di questa Corte ha infatti costantemente affermato in relazione ai processi civili che, il ‘dies a quo’ in relazione al quale valutare la durata del processo deve essere normalmente individuato, con riguardo ai processi introdotti con atto di citazione, nel momento della notifica di tale atto, con la quale il processo stesso inizia, (Cass. 6323/11; Cass. 7389/05).

Analogo principio è stato riconosciuto anche riguardo ai processi penali.

Questa Corte ha infatti affermato che nella valutazione della durata di un procedimento penale, il tempo occorso per le indagini preliminari può essere computato esclusivamente a partire dal momento in cui l’indagato abbia avuto la concreta notizia della sua pendenza poiché solo da tale conoscenza sorge la fonte d’ansia e patema suscettibile di riparazione. Se poi detta notizia sia stata acquisita in un momento anteriore alla notificazione del decreto di citazione in giudizio, i ricorrenti sono gravati dall’onere di allegare specificamente quando abbiamo appreso di essere stati assoggettati ad indagine penale. (Cass. 17917/10; Cass. 27239/09).

Applicando dunque questo principio basilare del processo per equa riparazione al caso di specie, ne consegue che gli eredi, ancorché subentranti automaticamente nella posizione di parte civile costituita facente capo al de cuius, devono tuttavia allegare e documentare il momento in cui hanno avuto conoscenza dell’esistenza del processo perché è solo a partire da tale momento che per essi inizia il patema e l’interesse ad una rapida soluzione della controversia.

In caso di mancanza del detto adempimento il termine iniziale di durata dell’equo processo non può che avere inizio dal momento in cui gli eredi sono intervenuti in giudizio.

Va osservato che nel caso di specie non può trovare applicazione il principio stabilito dalla sentenza n. 585/14 di queste Sezioni Unite che,riguardo al contumace, ha statuito che hanno diritto all’indennizzo tutte le parti coinvolte nel procedimento giurisdizionale, ivi compresa la parte rimasta contumace, nei cui confronti – non assumendo rilievo né l’esito della causa, né le ragioni della scelta di non costituirsi – la decisione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti e a cagionare, nel caso di ritardo eccessivo nella definizione del giudizio, un disagio psicologico, fermo restando che la contumacia costituisce comportamento idoneo ad influire -implicando od escludendo specifiche attività processuali – sui tempi del procedimento e, pertanto, è valutabile agli effetti dell’art. 2, secondo comma, della legge 24 marzo 2001, n. 89. (Cass. 585/14 sez un).

Occorre, infatti, rilevare che il contumace nelle cause civili è a conoscenza del processo essendogli stato notificato l’atto introduttivo dello stesso mentre nel processo penale riceve la notifica dei prescritti avvisi o delle comunicazioni. Al contrario, nessuna comunicazione o avviso circa la pendenza del processo viene inoltrata agli eredi per effetto del decesso della parte civile i quali quindi, finché successivamente al detto decesso non ricevono la notifica di un qualche avviso, vengono a conoscenza della pendenza del processo per via indiretta, momento a partire dal quale inizia per essi a decorrere il termine di equa durata.

Va quindi affermato sul punto il seguente principio di diritto: ‘il termine di durata dell’equo processo inizia a decorrere per gli eredi della parte deceduta costituitasi parte civile nel giudizio penale nel momento in cui gli stessi hanno avuto conoscenza del processo. In mancanza di prova di tale circostanza il termine di durata decorre dalla data del loro intervento in giudizio’.

Nel caso di specie, non risulta che le ricorrenti abbiano allegato o documentato la loro conoscenza della pendenza del giudizio penale, in cui il loro dante causa si era costituito parte civile, anteriormente alla data del loro intervento nel processo e, pertanto, il motivo non è suscettibile di accoglimento.

Il secondo motivo, con cui si lamenta una carenza di motivazione in ordine alla esclusione del periodo di oltre un anno di durata del giudizio di cassazione, che si sostiene eccessivo, è infondato e, per certi versi, inammissibile.

La Corte d’appello ha escluso che il giudizio, per la parte in cui vi hanno partecipato le ricorrenti, abbia ecceduto i limiti di ragionevolezza ritenuti di due anni per il giudizio di appello e di un anno per quello di cassazione.

Invero, come risulta dal decreto impugnato, la Corte territoriale ha rilevato che le ricorrenti si erano costituite in giudizio l’1.3.07, e, cioè, all’udienza di discussione in appello, a cui lo stesso giorno era seguita la sentenza, e che, successivamente, la sentenza di cassazione era intervenuta il 17.10.09. Pertanto, cumulando il tempo complessivo dei due giudizi per il periodo compreso tra la costituzione in giudizio delle ricorrenti e quello della decisione finale di questa Corte, ha valutato che lo stesso non superava il limite di tre anni.

Da ciò risulta, in primo luogo, che la Corte d’appello ha motivato anche sulla durata del processo di cassazione onde la doglianza contenuta nel motivo è destituita di fondamento.

In secondo luogo, il motivo non coglie l’effettiva ratio decidendi costituita, come detto, dalla valutazione della ragionevole durata del processo in relazione alla intera durata del processo (limitatamente nel caso di specie al periodo in cui risulta che le ricorrenti ne hanno avuto conoscenza), non contenendo alcuna censura sul punto. È appena il caso di rammentare che la decisione in esame risulta conforme all’orientamento costantemente espresso da questa Corte secondo cui quando il processo, si sia articolato in vari gradi e fasi, così come accade nell’ipotesi in cui il giudizio si svolga in primo grado, in appello, in cassazione, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali occorre – secondo quanto già enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate, atteso che queste ineriscono all’unico processo da considerare. da ultimo Cass. 14534/11).

Anche il secondo motivo non è dunque suscettibile di accoglimento.

Il ricorso va in conclusione rigettato.

La novità della questione relativa alla costituzione nel giudizio penale degli eredi della parte civile giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; compensa le spese di giudizio.

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