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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

sentenza 10 giugno 2014, n. 13060

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente –
Dott. MANNA Antonio – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24745-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
R.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1079/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 16/10/2007 R.G.N. 1000/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/02/2014 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, in subordine rigetto.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la sentenza n. 1079 del 16 ottobre 2007 la Corte d’appello di Firenze confermava la decisione del Tribunale di Pisa con cui era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato in data 27 giugno 2002 da Poste italiane s.p.a. a R.F.. La Corte di merito rilevava che la società, nel dare esecuzione ad una sentenza del giudice del lavoro che aveva ritenuto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro del R. ordinandone la riammissione nel posto di lavoro, aveva invitato il lavoratore a riprendere servizio in una sede diversa da quella assegnata in origine e, poichè il medesimo non si era presentato, aveva intimato il recesso per ingiustificata assenza dal lavoro; l’assegnazione ad una sede diversa configurava però un inadempimento contrattuale, concretandosi in un illegittimo trasferimento o, comunque, nell’inosservanza dell’ordine giudiziale di riammissione nel posto originario, sì che il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore doveva ritenersi giustificato ed il conseguente recesso della società era illegittimo.
2. Di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha domandato la cassazione, deducendo due motivi di ricorso; R.F. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
3. Con il primo motivo la ricorrente lamenta “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2103 c.c., alla L. n. 300 del 1970, art. 18 ed agli artt. 1206 c.c. e ss.”.
Sostiene che la Corte di merito avrebbe errato nel qualificare la fattispecie nell’ambito della L. n. 300 del 1970, art. 18 e quindi nel ritenere che il lavoratore andasse ricollocato nel posto da ultimo occupato, poichè nel caso di ripristino del rapporto per illegittimità del termine accertata giudizialmente possono essersi verificati nelle more del giudizio fatti organizzativi tali da richiedere un criterio di prudenza nella valutazione dell’esatto adempimento, che tenga conto dei rispettivi interessi delle parti.
Anche ritenendo che il provvedimento contenesse un trasferimento implicito, lo stesso sarebbe peraltro giustificato da ragioni tecniche, produttive e organizzative, essendo stato effettuato in applicazione dell’art. 37 del CCNL, mentre l’obbligo del datore di lavoro di indicarne le ragioni sorgeva solo a seguito di esplicita richiesta del prestatore, che nella specie non era mai stata avanzata.
Formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se a seguito di riconoscimento del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’invito del datore di lavoro rivolto al lavoratore di riassumere servizio comporta piena esecuzione del predetto ordine, con la conseguente mora del lavoratore, ove sia corredato da caratteri di concretezza e specificità tali da importare l’effettivo reinserimento del dipendente nel posto di lavoro”.
4. Come secondo motivo la ricorrente deduce “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1460 c.c. anche in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18”.
Addebita alla Corte d’appello di avere ritenuto giustificata l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., quando nessuna eccezione in tal senso era stata formulata ed il lavoratore si era limitato a non presentarsi in servizio. Aggiunge che l’eccezione di inadempimento postula che la reazione del dipendente risulti proporzionata e conforme a buona fede, caratteristiche che nel caso mancavano. Formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se rispetto al potere di trasferimento del datore, sia o meno ammissibile un potere di autotutela del lavoratore ex art. 1460 c.c. sicchè l’ingiustificato rifiuto dello stesso di offrire la prestazione nel luogo di destinazione configuri una condotta idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro”.
5. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.
Questa Corte ha affrontato in più occasioni la questione oggetto di causa (cfr. ex plurimis Sez. 6 – L, Ordinanza n. 27804 del 2013, Sez. L, Sentenza n. 11927 del 16/05/2013, Sez. L, Sentenza n. 27844 del 30/12/2009), fornendo una soluzione alla quale occorre dare continuità.
Nella motivazione della sentenze citate, che affronta i temi che sono riproposti con il ricorso in esame, si è affermato che l’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale si intende come mai cessato e quindi la continuità dello stesso implica che la prestazione deve persistere nella medesima sede; resta salva la facoltà del datore di lavoro di disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, ma in tal caso devono sussistere le ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall’art. 2103 c.c. In difetto, la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio. In applicazione di tali principi si è quindi confermata la sentenza gravata che, come nel caso, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per assenza dal servizio intimato da Poste Italiane s.p.a.
6. Ciò è quanto secondo la ricostruzione della Corte fiorentina è avvenuto nel caso in esame, in cui l’invito a riprendere servizio in una sede diversa da quella originaria non contemplava alcuna motivazione, nè questa era stata dedotta e dimostrata in giudizio;
la modifica della sede di lavoro è stata quindi correttamente intesa come un trasferimento nullo, implicante un inadempimento del contratto di lavoro, sì che nessuna comparazione di contrapposti interessi sarebbe stata consentita al giudice di merito.
Sussistevano quindi i presupposti per il rifiuto della prestazione da parte del dipendente configurati nelle richiamate sentenze, considerato peraltro che il lavoratore aveva esplicitato nella lettera di risposta alla nota di addebito le ragioni per le quali non aveva ripreso servizio nella nuova sede, e che – come riferisce la Corte di merito – promuovendo il tentativo di conciliazione aveva offerto la propria prestazione secondo le modalità fissate nel contratto, e dunque nella sede stabilita in origine, ma a tale offerta Poste italiane s.p.a. non aveva dato seguito.
7. Il ricorso deve quindi essere rigettato.
Le spese processuali del grado seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali ed Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2014.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2014

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