Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 24 giugno 2015, n. 26542
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa in data 2 ottobre 2014 il Tribunale di Sulmona ha assolto R.C. dal reato di cui all’art 368 c.p. perché il fatto non sussiste.
2. Avverso la su indicata decisione ha proposto ricorso per cassazione il P.M. presso il su citato Tribunale, deducendo due motivi di doglianza: a) violazione di legge in relazione agli artt. 187, 190 e 495, commi 1-4, c.p.p., per avere il Tribunale revocato tutti i testimoni dell’accusa senza la garanzia dei contraddittorio, ed in particolare omettendo di far interloquire le parti sul punto e di emettere motivata ordinanza sulla decisione assunta in relazione all’oggetto della prova, in tal guisa impedendo al P.M. l’esercizio del diritto di provare i fatti di cui all’imputazione; b) violazioni di legge e vizi motivazionali con riferimento agli artt. 368 c.p. e 192 c.p.p., per non avere il Tribunale chiarito le ragioni dei provvedimento di revoca, esplicitando i motivi per i quali non è stato consentito al P.M. di condurre in dibattimento gli unici testimoni idonei a ricostruire l’intero impianto accusatorio, peraltro incentrato su un reato di pericolo, per il quale è sufficiente anche l’astratta possibilità dell’inizio di un procedimento penale.
3. Con “controricorso” personalmente sottoscritto il 27 gennaio 2015 R.C. ha svolto alcune considerazioni a sostegno del proprio convincimento di colpevolezza dei difensore da lui accusato di infedele patrocinio, chiedendo il rigetto del ricorso dei P.M.
Considerato in diritto
1. II ricorso è inammissibile per aspecificità dei motivi, che omettono di prendere in considerazione i profili congruamente evidenziati nella decisione impugnata a sostegno della ritenuta insussistenza, in punto di diritto, della ipotizzata fattispecie incriminatrice (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, dep. 13/03/2014, Rv. 259425). I motivi, infatti, devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino, come avvenuto nel caso in esame, della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.
Le ragioni giustificative al riguardo esposte dal Tribunale, sia pure con sintetiche argomentazioni, assumono carattere dirimente, ponendo in evidenza, sul piano dell’analisi documentale, il fatto che l’imputato si è limitato a denunziare alla Procura della Repubblica la mancata partecipazione dei suo difensore ad una camera di consiglio straordinaria, senza aggiungere che tale comportamento gli aveva cagionato un qualsiasi nocumento, come, ad es., il rigetto dell’istanza o il mancato conseguimento di un beneficio.
2. Invero, secondo un pacifico insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 9543 del 30/06/1983, dep. 12/11/1983, Rv. 161153), difetta dell’elemento materiale del reato di calunnia il comportamento di colui che, qualunque sia stato il suo proposito nell’accusare falsamente un innocente, gli attribuisca una condotta non corrispondente ad una determinata fattispecie legale di reato. La calunnia, infatti, è incolpazione di reati effettivi, e non di reati putativi, con la conseguenza che, se il fatto attribuito, così come descritto, non costituisce reato ed integra, tutt’al più, un illecito deontologico o disciplinare, la configurabilità della calunnia resta di per sè solo esclusa; nè ha rilievo che il denunziante abbia o meno indicato un preciso nomen iuris e si sia apertamente proposto di provocare l’apertura di un procedimento penale in pregiudizio dell’incolpato, avendo ravvisato, in forza di distorte ma convinte opinioni giuridiche, nell’altrui operato azioni od omissioni costitutive di reato (Sez. 6, n. 4375 del 08/03/1972, dep. 22/06/1972, Rv. 121403).
Di tale quadro di principii ha fatto buon governo la decisione impugnata, ove si consideri che nella vicenda in esame il Tribunale ha escluso la materialità dei fatto uniformandosi al dettato di una pacifica linea interpretativa di questa Suprema Corte (Sez. 6,n. 31678 del 28/03/2008, dep. 29/07/2008, Rv. 240645; Sez. 6, n. 29653 del 26/05/2011, dep. 25/07/2011, Rv. 250551), secondo cui il reato di patrocinio infedele può ipotizzarsi unicamente nel caso in cui la condotta, posta in essere mediante l’infedeltà ai doveri professionali, arrechi nocumento agli interessi della parte.
Nonostante la difficoltà di individuare una sicura linea di demarcazione tra l’illecito disciplinare e la condotta integratrice dei reato, data l’unicità del parametro di riferimento, costituito dalle norme deontologiche professionali, la condotta infedele è quella che impedisce alla parte di ottenere ì risultati attesi con l’esplicazione di un’attività professionale che risponda ai requisiti della correttezza e della lealtà e che sia affidabile, sì da garantire, più in generale, la tutela dell’interesse pubblico al buon funzionamento della giustizia.
Il nocumento agli interessi della parte, quale conseguenza della violazione dei doveri professionali, rappresenta pertanto l’evento del reato, che la sentenza impugnata, come si è visto, ha motivatamente escluso, senza che il ricorrente vi abbia criticamente opposto valide ragioni argomentative di segno contrario.
3. S’impone, conclusivamente, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
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