Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 8 gennaio 2015, n. 475
Fatto e diritto
Con sentenza 9.12.2011, il tribunale di Roma ha confermato la sentenza 19.7.2010 del giudice di pace della stessa sede, con la quale l’avvocato G.S. è stato condannato,previo riconoscimento delle attenuanti generiche, alla pena di Euro 1.000 di multa, al risarcimento dei danni,liquidati in Euro 8.000, e al rimborso delle spese in favore della parte civile, in quanto ritenuto colpevole del reato di diffamazione in danno del collega Gu.Ma. , per aver offeso, comunicando con più persone, la sua reputazione, pronunciando, il giorno 11.12.2002, le seguenti parole ” L’avvocato Gu.Ma. è un pregiudicato, il titolare del vostro studio è un pregiudicato”.
Nell’interesse dell’imputato – che ha rinunciato alla prescrizione – è stato presentato ricorso per i seguenti motivi:
1. violazione di legge,in riferimento agli artt. 595, 51 c.p., 21 Cost.: le due sentenze di merito non hanno dato il necessario rilievo all’antecedente dell’avvenimento dell’11.12.02, ammesso pacificamente dal G. : l’avv. Gu. aveva riportato,con sentenza irrevocabile, una condanna penale e una contestuale condanna generica al risarcimento dei danni, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, in danno di S.I. , commesso nel corso di un’intervista, rilasciata in qualità di difensore dell’ex marito K.J. . La sentenza di condanna è stata riportata da organi di stampa ed è stata massimata e commentata da numerose riviste giuridiche.
A questa sentenza penale era direttamente collegato il procedimento civile, avente ad oggetto la richiesta di liquidazione dei danni e nel corso del suo svolgimento sono state pronunciate le affermazioni incriminate. In questo processo civile vi era uno stretto nesso eziologico tra la natura del soggetto penalmente condannato e l’entità della somma da liquidare a titolo di risarcimento del danno. Ne consegue che le espressioni, dovendo essere necessariamente collocate e giudicate nel contesto dello svolgimento di questo processo civile, sono da essere considerate vere e,quindi, meritevoli dell’esimente di cui all’art. 596 c.p., che è stata esclusa non correttamente dal giudice di appello. La norma prevede che la prova della verità è sempre ammessa “se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o s’inizia un procedimento penale” Nel caso di specie,quindi, il termine pregiudicato è pienamente giustificato dalla condanna penale definitiva, riportata dall’attuale parte civile.
Il ricorrente invoca anche l’esimente dell’esercizio del diritto, a norma degli artt. 21 Cost. e 51 c.p.: esiste il diritto di manifestare il propri pensiero in forma di critica e/o di asserzione di verità, senza distinzione di appartenenza ad una qualsiasi categoria, in presenza dei requisiti della verità del fatto, dell’interesse pubblico alla sua conoscenza e della continenza formale.
La lettura della norma costituzionale rende chiaro che questo diritto spetta a “chiunque”, senza che possano prospettarsi classi di cittadini privilegiati,quali i giornalisti, mentre ai cittadini sia fatto obbligo di tacere la verità a pena di sanzione penale.
Nel caso in esame esiste la verità del fatto, il termine usato (pregiudicato) ha natura tecnica e ha forma civile ed è pertinente, in quanto funzionale ad ottenere la liquidazione del danno, che aveva come presupposto il giudizio negativo dei giudici nei confronti di chi era stato ritenuto responsabile di diffamazione.
La reiterazione del termine è dipesa dallo svolgimento della polemica in aula e non fa venir meno la base di verità e la sua pertinenza al giudizio civile in corso;
2. violazione di legge in riferimento alla rifusione delle spese del grado di appello: la materia delle spese è attualmente regolata dalle tariffe forensi, in base al decreto del ministero della Giustizia n. 127 dell’8.4 2004, i cui massimi tariffari sono stati superati dal giudice del tribunale quasi del triplo.
Il ricorso non merita accoglimento.
Il giudice di appello ha ritenuto di confermare – sulla base di numerose testimonianze e delle dichiarazioni dello stesso imputato – la ricostruzione del comportamento del G. , che ha pronunciato le seguenti frasi: “l’avvocato Gu. è un pregiudicato… il titolare del vostro studio è un pregiudicato”. Tali affermazioni, secondo un’articolata e razionale valutazione del tribunale, sono state ritenute non mera argomentazione tecnica riferita alla quantificazione del danno (oggetto della causa civile patrocinata dall’avvocato G. ), nell’ambito di esposizioni di dati tecnici finalizzati a stabilire se e quanto fosse risarcibile il danno ( che non riguardava, peraltro, il Gu. , ma altra persona offesa, S.I. ). Si trattò invece, secondo un’incontestata scansione fattuale, di una reazione all’accoglimento,da parte del giudice, della richiesta, formulata dall’avv. R. (moglie del Gu. e componente del medesimo studio professionale) di rinviare il processo. Questo rinvio è stato commentato dal G. con la frase “Sei di una crassa ignoranza” rivolta alla collega, la quale ha risposto di essere orgogliosa della propria ignoranza. È lo stesso avvocato G. ad ammettere di essersi così rivolto alla R. : e questi sono i risultati, il titolare del tuo studio è un pregiudicato.
Secondo una valutazione pienamente lineare, sul piano logico e sul piano del senso comune, il tribunale ha ritenuto che le frasi furono quindi pronunciate a scopo puramente denigratorio, per evidenziare la pochezza giuridica e umana della collega R. quale componente di una studio professionale diretto dal pregiudicato Gu. .
Di qui la ineludibile conseguenza logico-giuridica: la rievocazione del passato giudiziario del difensore della controparte non è assolutamente inquadrabile nel tessuto del procedimento civile in corso e nel rapporto dialettico tra le parti, intrecciati e sviluppatisi nel corso dell’udienza 11.12.02 (che peraltro si era ormai conclusa). Il ripetuto uso del termine pregiudicato è stato finalizzato a esprimerne il suo significato deteriore (trasgressore, soggetto a giusta sanzione), non solo indirizzandolo al colpevole Gu. , ma estendendone la forza denigratoria, sul generale piano deontologico e professionale, al medesimo e a tutti i componenti dello studio da lui diretto. Il termine Realmente corrispondente al singolo capitolo della biografia giudiziaria del convenuto, è stato usato per imporre un marchio di stigmatizzazione generale non solo a quest’ultimo, come cittadino e come professionista, ma a tutto il metodo lavorativo dell’organizzazione professionale da lui diretta.
Merita particolare attenzione il motivo di ricorso che propone una valutazione alternativa di tale condotta, in chiave non solo di astratta tecnica difensionale, ma anche di esercizio del diritto di manifestare il proprio pensiero in forma di critica e/o di asserzione di verità. Nel caso in esame tale diritto è stato esercitato mediante l’asserzione di un fatto vero (condanna penale), rievocato con un termine tecnico, non qualificabile come mero epiteto, in quanto richiamante la reale natura di condannato.
Il riconoscimento a questo diritto di rimuovere l’antigiuridicità di lesioni ai diritti fondamentali della persona va comunque contemperato con l’esigenza,sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, di evitare che il cittadino che si trovi nella condizione personale e sociale di persona processata e/o condannata divenga, in maniera indenne, perenne bersaglio del discredito dei consociati. Il richiamo all’attenzione dei cittadini di un evento screditante quale è una condanna penale deve razionalmente essere compiuto in un contesto che consenta alla rievocazione di intervenire direttamente nella sincronia degli eventi in corso e di suscitare necessaria e pertinente reazione nei destinatari.
Razionalmente il tribunale non ha ritento che nel quadro storico, costituito dall’udienza 11.12.2002, svoltasi e conclusasi nell’aula del tribunale civile di Roma, abbia avuto necessaria e pertinente rilevanza nelle persone presenti la rievocazione della condanna riportata dal dirigente della studio professionale, un cui componente aveva ottenuto il rinvio del procedimento in corso.
Non merita accoglimento anche il motivo attinente alla liquidazione delle spese sostenute dalla parte civile: le disposizioni di condanna alle spese processuali in favore della parte civile sono sottratte al sindacato di legittimità per l’aspetto della valutazione discrezionale riguardo ai parametri di commisurazione della somma dovuta.
Nel caso in esame, va rilevato che il tribunale ha rispettato il dovere di fornire adeguata giustificazione della determinazione delle spese e della loro relativa congruità, richiamando il numero e l’importanza delle questioni, nonché la tipologia ed entità delle prestazioni difensive, in relazione al danno al decoro e all’immagine della persona offesa, diffamata nel proprio ambiente di lavoro, davanti ai suoi collaboratori e colleghi, in un’aula di udienza civile.
Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al rimborso di quelle sostenute dalla parte civile, liquidate in Euro 800,00.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso di quelle sostenute dalla parte civile liquidate in complessivi Euro 800,00.
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