SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
sezione V
SENTENZA 4 novembre 2014, n. 45504
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 13 aprile 2007 del Tribunale di Prato, condannava B.S. alla pena di anni sei di reclusione, D.G. G.M. alla pena di anni tre e mesi uno di reclusione, D.P.V. alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione, F.S. alla pena di anni sei di reclusione, R.G. di anni tre di reclusione, V.A. alla pena di anni sei di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche e ritenuta la continuazione fra i reati, oltre alle pene accessorie, essendo stati riconosciuti colpevoli:
-del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 48 e 479 c.p., perchè, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro e con altre persone, formando prima e producendo, poi, presso le Prefetture e le Questure di Prato, Firenze e Pistoia, dichiarazioni e documenti attestanti falsamente la preesistenza di rapporti di lavoro e di sistemazioni abitative, nonchè la cessazione dei rapporti di lavoro stessi, ingannavano i pubblici ufficiali addetti agli uffici indicati, inducendoli ad attivare la procedura che si concludeva con il rilascio di permessi di soggiorno ideologicamente falsi perchè basati su presupposti inesistenti, a molteplici cittadini stranieri;
– del reato p. e p. dagli artt. 110 e 81 cpv. c.p., della L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, perchè, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, al fine di trarre profitto anche indiretto, in concorso con altre persone, facendo da collettori (il B., il R.), delle richieste e redattori delle pratiche presso lo studio professionale ” B.”, ovvero di finto ospitante (il D. G.), di finto datore di lavoro (il F. e il D.P.), compivano attività (anche il V.) diretta a favorire l’ingresso, o, comunque, la permanenza nel territorio italiano di cittadini stranieri in violazione delle norme previste dal citato D.Lgs. n. 286 del 1998 e dalla normativa collegata ed in particolare formava, prima, e produceva poi presso i competenti uffici, quali le Poste, le Prefetture di Prato, Firenze e Pistoia, le Questure di Prato, Firenze e Pistoia, dichiarazioni e documenti attestanti falsamente la preesistenza di rapporti di lavoro, di idonee sistemazioni abitative, nonchè, in alcuni casi, la cessazione degli stessi rapporti di lavoro, ingannando i pubblici ufficiali addetti agli uffici suindicati e così inducendoli ad attivare la procedura diretta a regolarizzare la posizione degli stranieri, ciò facendo con riferimento ad un numero imprecisato di cittadini stranieri;
– del reato – tranne D.P.V. – previsto e punito dall’art. 416 c.p. perchè, utilizzando come base operativa lo studio professionale di B.S., si associavano tra loro e con altri allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti in materia di immigrazione e correlati delitti di falso documentale; in particolare, costituivano una struttura di uomini e mezzi funzionale alla realizzazione dei reati indicati, nell’ambito della quale ognuno forniva un apporto diverso, in base al ruolo in concreto svolto, struttura costituita da diversi gruppi di soggetti, anche distinti tra di loro, ma tutti accomunati dal rapporto continuativo con lo studio professionale del B., e dall’obbiettivo di realizzare a fine di lucro un numero indeterminato di pratiche illecite in materia di immigrazione; segnatamente: B.S., svolgendo il ruolo di promotore, organizzatore e coordinatore dell’attività, coadiuvato nello svolgimento della stessa, nonchè nelle materiali operazioni di gestione dei contatti e di elaborazione delle pratiche, da R. G., suo dipendente; V.A. e F.S. ricoprendo il ruolo di coordinatori ed organizzatori dell’altrui attività, convogliando presso lo studio B. soggetti disponibili a fare false pratiche, dirigendo l’attività di costoro e, quando necessario, mediando tra i soggetti di cui erano rappresentanti e gli altri interessati alla presentazione delle pratiche fraudolente; D.G.G.M., ricoprendo il ruolo di falso ospitante, di cittadini extracomunitari; con l’aggravante per il B., il V. ed il F. dell’avere costituito, promosso, organizzato e diretto l’associazione e per tutti di cui all’art. 416 c.p., comma 5, tutti reati commessi dal (OMISSIS), con la recidiva specifica ed infraquinquennale per il R., con la recidiva reiterata ed infraquinquennale per D.G., con la recidiva infraquinquennale per D.P.V., con la recidiva reiterata e specifica per V., con la recidiva reiterata per F..
1.1. Il Tribunale di Prato riteneva provata la sussistenza, nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2004, di un’organizzazione criminosa dedita alla commissione di un numero indeterminato di delitti in materia di immigrazione, insieme ai correlati delitti di falso documentale ed avente come base operativa lo studio di consulenza facente capo al ragioniere B.S., sito in (OMISSIS), e ciò sulla base di quanto emerso dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali che dal maggio 2003 venivano autorizzate ed eseguite nei confronti del medesimo B.;
il programma associativo, muovendo dalla normativa in materia di legalizzazione di lavoro irregolare, introdotta dal D.L 9 settembre 2002, n. 195, convertito in L. n. 222 del 2002, era finalizzato all’aggiramento ed alla strumentalizzazione di essa ai fini di lucro ad opera del gruppo criminoso, attraverso la presentazione di fittizie pratiche di sanatoria, di false dichiarazioni di emersione, di indebiti pagamenti di contributi Inps da parte degli stessi lavoratori extracomunitari regolarizzandi, di falsi contratti di soggiorno e di buste paga, di false dichiarazioni di ospitalità, di false lettere di licenziamento riferibili al B. e ai suoi complici, in attuazione dell’accordo criminoso, con un risultato per tali attività consistito in 172 false dichiarazioni di emersione e nel rilascio di 124 permessi di soggiorno.
2. Avverso tale sentenza gli imputati proponevano appello e con sentenza del 12 luglio 2012 la Corte d’Appello di Firenze:
-dichiarava non doversi procedere nei confronti del B. in ordine ai reati di cui all’art. 479 c.p. e L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, in quanto estinti per compiuta prescrizione, rideterminando la pena in relazione al residuo reato di cui all’art. 416 c.p., in anni quattro e mesi sei di reclusione;
-assolveva il D.G. dal reato di cui all’art. 416 c.p., per non aver commesso il fatto e dichiarava non doversi procedere nei confronti del predetto in ordine al reato di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, in quanto estinto per compiuta prescrizione, rideterminando la pena, in relazione al residuo reato di cui all’art. 479 c.p., in anni due di reclusione;
– dichiarava non doversi procedere nei confronti del R. in ordine ai reati di cui all’art. 416 c.p. e L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, in quanto estinti per compiuta prescrizione, rideterminando la pena, in relazione al residuo reato di cui all’art. 479 c.p., in anni due di reclusione;
-dichiarava non doversi procedere nei confronti del F. e del V. in ordine al reato di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, in quanto estinto per compiuta prescrizione, rideterminando la pena, in relazione ai residui reati di cui all’art. 479 c.p. e art. 416 c.p., in anni cinque e mesi otto di reclusione per ciascuno;
-dichiarava non doversi procedere nei confronti D.P. V. in ordine al reato di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, in quanto estinto per compiuta prescrizione, rideterminando la pena in relazione al residuo reato di cui all’art. 479 c.p. in anni due di reclusione.
3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati, a mezzo dei propri difensori, lamentando, sotto il profilo processuale:
3.1 con il primo motivo, sia B.S., che V.A. e D.P.V., l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e segnatamente del combinato disposto di cui all’art. 266 c.p.p., comma 1, artt. 271 e 191 c.p.p., per il divieto di utilizzazione degli esiti delle intercettazioni telefoniche, richieste ed autorizzate per ipotesi di reato non consentite, nonchè il vizio di motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). In particolare, i primi due imputati hanno evidenziato che già con i motivi di appello, era stata dedotta l’inutilizzabilità delle intercettazioni autorizzate dal Gip del Tribunale di Prato, con Decreto 07 maggio 2003 e prorogate con successivi Decreto 05 giugno 2003, Decreto 27 giugno 2003, Decreto 29 luglio 2003, e ciò per violazione del disposto di cui all’art. 266, in relazione all’art. 271 c.p.p., atteso che le intercettazioni telefoniche ed ambientali presso lo studio B. furono autorizzate stante la configurabilita dei reati di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3 e 3 bis, ma la condotta astrattamente ipotizzabile nei confronti del B., sin dall’origine dell’indagine, sulla base della notizia di reato della Guardia di Finanza di Prato era, invece, quella prevista dalla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, (emersione dei clandestini già in Italia attraverso le false dichiarazioni finalizzate alla regolarizzazione), sicchè risulta evidente l’errore in cui è incorso il Gip nella esatta configurazione della fattispecie di reato. Il D.P., specificamente, ha dedotto che, anche a voler ritenere che il Decreto 7 maggio 2003 fosse legittimo, invocando esso la ricorrenza dei reati di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 3 e 3 bis, per i quali è consentita l’autorizzazione alle intercettazioni, tuttavia, successivamente è emerso chiaramente come l’ipotesi di reato ipotizzabile fosse quella di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, sicchè nella fase decisionale non potevano essere utilizzati quegli esiti intercettativi sulla scorta di fatti diversamente qualificati;
3.2. con il secondo motivo B.S. e V.A., la violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. a) e c) e art. 179 c.p.p., comma 1, con riferimento all’art. 268 c.p.p., comma 7 in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), per l’incompetenza funzionale del G.u.p. ad ordinare la trascrizione delle intercettazioni. In particolare, il G.u.p. di Prato, all’udienza preliminare del 11.1.2005, dopo che alle ore 16.50 aveva emesso il decreto che dispone il giudizio davanti al Tribunale di Prato, e, quindi, ad udienza preliminare conclusa, accoglieva la richiesta tardiva del P.M. di trascrizione delle intercettazioni ambientali ex art. 268 c.p.p., incorrendo in palese incompetenza funzionale; il Giudice per l’udienza preliminare, infatti, non può avviare e nemmeno concludere la perizia di trascrizione dopo il provvedimento conclusivo della udienza preliminare, e, quindi, dopo l’emanazione del decreto che dispone il giudizio, poichè, spogliatosi del procedimento col decreto ex art. 429 c.p.p., perde la propria competenza funzionale, limitata solo agli incombenti previsti dall’art. 431 c.p.p.; una volta emanato il decreto che dispone il giudizio, l’udienza preliminare non può più essere ritenuta in corso, sicchè l’ordine di trascrizione, essendo stato emesso da giudice funzionalmente incompetente, comporta la nullità assoluta ex art. 178, lett. a), rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (art. 179 c.p.p., comma 1), della perizia di trascrizione ed inficia di nullità ex art. 185 c.p.p., tutti gli atti consecutivi che da esso dipendono, quindi, anche della perizia di trascrizione delle intercettazioni; inoltre, il V., ha dedotto che la Corte territoriale, ha violato il diritto di difesa, con conseguente nullità della sentenza impugnata ex art. 178 c.p.p., lett. c), laddove ha ritenuto, sempre all’udienza del 11.1.2005, dopo la lettura del decreto che dispone il giudizio, che l’avv. Perrone fosse presente anche in sostituzione degli avv.ti Sgromo e Ammannato, pur mancando agli atti qualsivoglia atto, o nomina, a sostituto processuale del predetto, fatto questo che ha comportato la non necessità della comunicazione al difensore di fiducia della data di udienza per la perizia di trascrizione;
3.3 con il terzo motivo, il solo V., il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all’art. 268 c.p.p., n. 3 e art. 271 c.p.p., atteso che i risultati captativi delle intercettazioni ambientali nello studio B. sono inutilizzabili per totale omessa motivazione del P.M. sul tassativo requisito delle “eccezionali ragioni di urgenza”, prescrivendo l’art. 268 c.p.p., comma 3, come regola, che le operazioni possono essere compiute “esclusivamente” per mezzo degli impianti installati presso la Procura della Repubblica e come eccezione la delega alla P.G., dandone, tuttavia, congrua e fattiva motivazione, nel decreto esecutivo di urgenza, circa l’esistenza nella realtà obiettiva dei due requisiti essenziali:
a) che gli impianti della Procura “risultano insufficienti o inidonei”;
b) che “esistono eccezionali ragioni di urgenza”; che pertanto la sentenza impugnata, nel definire “irrilevante” la totale omessa motivazione del P.M. circa il tassativo requisito delle “eccezionali ragioni di urgenza”, che imponevano l’intercettazione ambientale presso lo Studio B., non ha fatto buon governo dei principi di diritto più volte ribaditi dalle Sezioni Unite della S.C..
Per quanto concerne il merito:
3.4 B.S., -con il terzo motivo, la violazione ed erronea applicazione dell’art. 416 c.p. e la carenza ed illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) atteso che l’accordo criminoso deve essere diretto alla attuazione di un più ampio programma criminoso, destinato a durare nel tempo, per la commissione di una serie indeterminata di delitti e tale caratteristica connota il reato associativo, distinguendolo dal semplice concorso ex art. 110 c.p., in quanto il vincolo associativo diventa, così, fonte di allarme sociale, in quanto potenzialmente duraturo nel tempo; nel caso di specie, invece, un limite di durata è nella ontologia stessa dei reati-fine, per commettere i quali la presunta associazione sarebbe stata creata ed avrebbe operato, atteso che per la presentazione delle (false) dichiarazioni di emersione L. n. 222 del 2002, ex art. 1, comma 9, la norma prevedeva un termine finale, oltre il quale le domande presentate sarebbero state inammissibili ed irricevibili dalla Questura; in proposito non appare configurabile un’associazione asseritamente creata per commettere reati che potevano essere realizzati solo con la presentazione della dichiarazione L. n. 222 del 2002, ex art. 1, comma 9, entro un termine stabilito e, per ciò stesso, irripetibili; difetta, poi, la motivazione della sentenza circa l’elemento soggettivo rappresentato dal dolo specifico della affectio societatis scelerum”, che connota il reato di cui all’art. 416, c.p. distinguendolo dal semplice concorso ex art. 110 c.p., non essendo sufficiente l’accordo per la realizzazione di uno o più delitti fra quelli che formano oggetto del comune programma di delinquenza – cui la sentenza impugnata fa unico riferimento – occorre, invece, che la sentenza dia conto con adeguata motivazione delle prove che fondano la dimostrazione della volontà dell’agente di entrare a far parte della associazione e apportare un concreto contributo alla realizzazione del comune scopo criminoso per la realizzazione del quale l’associazione è stata costituita;
-con il quarto motivo, la violazione ed erronea applicazione dell’art. 157 c.p., in relazione alla intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 416 c.p., ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e la carenza ed illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), atteso che la Corte territoriale ha errato nel considerare come termine iniziale, ai fini del calcolo per la prescrizione, il (OMISSIS), atteso che la presunta associazione sarebbe stata creata per la commissione di una serie di falsi (emissione di buste paga, indebito pagamento di contributi, false denunce all’INPS, falsi contratti di soggiorno, false lettere di licenziamento, ecc), prodromici e funzionali alla commissione del falso principale (le false dichiarazioni di emersione punite dalla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9); che per la presentazione delle dichiarazioni di emersione il termine ultimo era il dicembre 2002, oltre il quale le domande erano inammissibili ed irricevibili e che, pertanto, i reati si devono considerare consumati a tale data; che nessuna condotta e nessun reato è provato oltre questo termine, tantomeno fino al luglio del 2004, quando, peraltro erano già in corso da più di un anno le indagini preliminari;
3.5 F.S.; -con il primo motivo, la violazione di legge e l’erronea qualificazione del fatto come fattispecie prevista dall’art. 416 c.p., comma 1, anzichè di quella partecipativa descritta al comma 2 del medesimo articolo. In particolare, la motivazione della sentenza gravata è articolata pressochè integralmente per relationem sulla motivazione della sentenza di prime cure, quanto alla ricostruzione di un “ruolo apicale” attribuito al ricorrente nella contestata fattispecie associativa ed anche a voler ritenere provata la partecipazione del ricorrente all’associazione per delinquere de qua, non risulta sufficientemente provata con elevata probabilità logica la partecipazione medesima con il ruolo di coordinatore e organizzatore delle attività degli altri associati, atteso che: i rapporti tra il B. ed il ricorrente sono senz’altro diversi rispetto a quelli tra il B., il D.P. ed il V., dai quali si ricava una divisione di ruoli tra loro già dall’origine; che rispetto al V. le conversazioni dirette tra il B. ed il F. sono poche ed il tono dei rapporti tra i due, come annotato in sentenza è assai poco confidenziale e molto teso, non si parla mai di organizzazione del lavoro, di divisione di ruoli delle modalità dell’azione associativa ed il F. chiama e si mette in contatto solo per avanzare pretese su compensi non riscossi; che il B., invece di utilizzare il F. come mediatore con altri, mostrando di rispettarne il ruolo, addirittura si avvale della mediazione di Fa.Mi., proprio per fare arrivare messaggi precisi al F. e cercare di limitarne le pretese;
-con il secondo motivo, la violazione di legge e la mancata valutazione del rapporto di specialità fra il reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 48 e 479 c.p. ed il reato di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, con assorbimento in quest’ultimo reato di quello di cui all’art. 479 c.p., atteso che tali fattispecie sono sovrapponibili tra loro e la condotta contestata agli imputati si è esaurita nella commissione del reato di falso delineato dalla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, non rilevando, a tal fine, la successiva asserita caduta in errore dei pubblici ufficiali nel momento dei rilascio dei permessi di soggiorno; che nel caso di specie è stata la stessa L. n. 222 del 2002, a creare una fattispecie di reato speciale rispetto a quella generale prevista dal codice penale, punendo la condotta di mera presentazione di false pratiche di legalizzazione ab origine, senza pretendere l’effettiva formazione di un documento falso da parte di un pubblico ufficiale;
che le due condotte sono pressochè identiche e si sovrappongono, determinando un’ipotesi di ne bis in idem sostanziale, ove tutti gli elementi previsti dalla norma di carattere generale, prevista dal codice penale, sono presenti in quella speciale, la quale prevede in più, quale elemento specializzante, la presentazione delle false dichiarazioni di emersione;
-con il terzo motivo, il difetto e l’illogicità di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche, nonchè in relazione alla quantificazione della pena inflitta, atteso che la sentenza impugnata, operando un semplice richiamo ai precedenti dell’imputato, ha negato la concessione delle predette circostanze, richiamando con formula di stile i criteri di cui all’art. 133 c.p. e non valutando esaurientemente gli elementi inerenti le condizioni di vita del reo, successive al reato e contemporanee alla pronuncia di primo grado, che dovevano essere, invece, vagliate più esaurientemente dal giudicante; inoltre, non appare giustificabile il motivo del pesante trattamento differenziato di cui è stato vittima il ricorrente rispetto ad alcuni dei coimputati, tra i quali B.S., destinatari della concessione delle citate attenuanti, avuto riguardo all’assidua partecipazione al giudizio ed al buon comportamento processuale, in quanto tali note positive potevano altresì essere proclamate anche a favore del ricorrente; la pena inflitta all’imputato appare senz’altro eccessiva in riferimento alla pena base irrogata per il reato associativo;
3.6 V.A.; -con il quarto motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), e) ed c) in relazione all’art. 192 c.p.p. e art. 546 lett. e), ed ai reati di cui agli artt. 48, 479 e 416 c.p.. In particolare, la sentenza impugnata non motiva in punto di “pactum sceleris”, non argomentando dove, come e quando sarebbe sorto il “pactum” tra i tre presunti “promotori” B., V. e F. ed è incorsa in palese illogicità manifesta ed evidente incongruenza logica, laddove da per scontata apoditticamente la qualità di “promotori” a B., V. e F., pur essendovi “assoluta mancanza di reciproca conoscenza tra V. e F.”, circostanza questa ritenuta non risolutiva, non essendo necessaria la conoscenza reciproca di tutti gli associati, laddove difetta di intrinseca razionalità condannare i presunti fondatori e i tre presunti promotori della associazione in Prato, quando due di loro non si conosco affatto; inoltre, nella sentenza impugnata è ravvisabile il vizio di mancanza di motivazione, nonchè il vizio di illogicità manifesta, in merito al requisito tassativo della “permanenza e stabilità” della ipotizzata struttura associativa sul territorio di Prato, anche in considerazione del fatto che l’unico reato fine ipotizzato è la presentazione di fittizie pratiche di sanatoria: se c’è un unico reato-fine e questo reato è a termine, si ravvisa un concorso di persona ex art. 110 c.p. nell’unico reato continuato ex art. 81 c.p.; inoltre, la sentenza impugnata non motiva adeguatamente ex art. 192 c.p.p., nè risponde esaurientemente ai motivi di appello in punto di “prova specifica” sulla partecipazione di V. ai reati, sia in relazione al suo ruolo specifico, sia in relazione al suo dolo specifico associativo, ovvero la consapevolezza e volontà di essere stato il fondatore ed essere stato il promotore di una struttura associativa assieme al B. ed al F.; nè la sentenza impugnata motiva su un qualsivoglia contributo causale effettivo e concreto del V. alla commissione dei reati contestati non avendo egli assunto alcun cittadino extracomunitario, malgrado fosse titolare di due cooperative;
-con il quinto motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla ritenuta aggravante ex art. 416/ 5 comma c.p., alle negate attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p. e al trattamento sanzionatorio ex art. 133 c.p., atteso che sono stati assolti dal reato associativo ex art. 416 c.p. gli imputati Ro.Gi. e D.G.G.M., per cui non appare più sussistere l’aggravante di cui all’art. 416 c.p., comma 5; inoltre, la sentenza impugnata appare erronea in diritto e incorre nel vizio di violazione di legge, laddove per il ricorrente ritiene ancora sussistente la suddetta aggravante, apportando un aumento di pena di mesi 4 di reclusione; la Corte territoriale non ha, altresì, adeguatamente motivato il diniego delle attenuanti generiche per il ricorrente, rifiuto basato solo sull’elemento dei precedenti penali che lo stesso annovera; sul punto l’impugnata sentenza non considera che il ricorrente ha avuto un ruolo marginale nei fatti, essendo, invece, riferibile al B. il ruolo apicale e centrale di tutta la vicenda, ma ciononostante quest’ultimo ha ottenuto le generiche; che il ricorrente è stato assolto dal reato di violazione della disciplina sugli stupefacenti dal Tribunale di Grosseto, con sentenza del 12/10/2011;
3.7 D.P.V.; -con il secondo motivo, la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alla sua consapevolezza della condotta illecita posta in essere dal padre coimputato, D.P.G., avendo la sentenza impugnata valorizzato elementi di carattere logico, aventi valenza dimostrativa non univoca;
– con il terzo motivo, il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alle doglianze specifiche avanzate in atto di appello circa l’omessa valutazione delle attenuanti generiche in punto di pena, nonostante la parte motiva ne avesse decretato la concedibilità, operando, poi, un erroneo bilanciamento in termini di equivalenza con l’aggravante costituita dal numero degli associati, errore questo reso evidente dal fatto che il ricorrente non è stato attinto da alcuna contestazione riguardante il reato associativo;
3.8. R.G.; -con il primo motivo, l’inosservanza, la violazione e l’erronea applicazione della legge penale in riferimento al materiale istruttorio acquisito e la conseguente insussistenza del reato associativo, atteso che l’imputato, ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 416 c.p., dichiarato, poi, estinto per intervenuta prescrizione, all’epoca dei fatti era un dipendente dello studio del Rag. B., ma, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di merito, dalle conversazioni telefoniche, non emerge nessun elemento idoneo a far ritenere che il ricorrente abbia superato l’ambito dello svolgimento della sua mansione impiegatizia ed abbia fornito un consapevole contributo alla realizzazione del programma criminoso, superando i limiti delle mansioni tipiche del collaboratore di studio; che egli faceva ciò che il B. gli diceva di fare, ma mai con la consapevolezza che l’attività espletata all’interno dello studio di fatto costituisse un contributo causale alla realizzazione di un duraturo programma criminale; che a riprova di quanto sostenuto si presenta significativa la conversazione n. 14074 del 17/09/2003, intercorsa fra il R. e il coimputato D.I., nella quale quest’ultimo (ritenuto fittizio datore di lavoro in 12 pratiche di emersione dal lavoro nero), telefona allo studio e chiede lumi al R. sul da farsi, ma non ottiene risposte;
-con il secondo motivo, l’erronea applicazione della legge penale, l’insussistenza di concorso fra il reato di cui all’art. 479 c.p. e quello p. e p. dalla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, atteso che tale ultimo reato è norma speciale rispetto all’art. 479 c.p., tutelando lo stesso bene giuridico; che le condotte di falso contestate, debbono necessariamente essere ricondotte alla sola previsione di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, in quanto costituenti l’oggetto materiale di quest’ultima norma e non illeciti condotte riconducibili all’art. 479 c.p., ritenuto erroneamente reato autonomo rispetto a quello previsto dalla legge speciale;
-con il terzo motivo, l’erronea applicazione dell’art. 56 c.p., in riferimento al reato p. e p. dell’art. 479 c.p. atteso che la Corte territoriale non ha considerato che al momento della predisposizione dei documenti “falsi” per indurre in errore la Questura per ottenere i permessi di soggiorno richiesti, quest’ultima era ben a conoscenza dell’indagine in corso della Procura della Repubblica di Prato; che tutta la documentazione a tal fine predisposta e contestata al ricorrente è stata posta in essere inutilmente, poichè non era assolutamente in grado di indurre in errore gli uffici preposti e riceventi;
3.9. D.G.G.M.; -con il primo motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione agli artt. 48 e 479 ed alla L. n. 222 del 2002, art. 1 e art. 192 c.p. con manifesta illogicità della motivazione in alcune parti, atteso che i giudici di merito hanno ritenuto raggiunta la prova della colpevolezza del ricorrente, autore di quattordici false dichiarazioni di ospitalità di extracomunitari, al fine di consentire loro di beneficiare della sanatoria, quantunque egli avesse affermato sin dal primo atto difensivo, di avere firmato fogli in bianco, su richiesta del Rag. B., in occasione della regolarizzazione di quattro cinesi, che effettivamente sono stati alloggiati presso la sua abitazione ed hanno ottenuto regolare permesso di soggiorno; che il B. aveva fatto firmare fogli in bianco anche ad altri, dimostrando che ciò costituiva il suo “modus operandi” e di tale riscontro oggettivo in favore del ricorrente non vi è traccia nella sentenza impugnata; che ai fini della L. n. 222 del 2002, non occorreva dimostrare la situazione alloggiativa, nè occorreva alcuna dichiarazione di ospitalità, ma bastava la semplice indicazione nello stampato all’uopo predisposto di un luogo di alloggio, qualsiasi, luogo, che si ribadisce, poteva variare nel corso della sanatoria; che nella pratica, dunque, non occorreva alcuna dichiarazione di ospitalità per ottenere il permesso di soggiorno; che la Corte di merito, stravolgendo il dettato normativo ha evidenziato che fosse applicabile il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 bis, comma 1, lett. d), ma la Legge sulla sanatoria era quella n. 222 del 2002, che prevedeva criteri meno rigorosi rispetto al D.Lgs. n. 286 del 1998 e l’errata applicazione di quest’ultima normativa ha determinato l’errore di diritto dedotto; che, inoltre, non indicando l’art. 1, comma 2, della legge Bossi-Fini tra i presupposti essenziali e, quindi, tra le dichiarazioni ritenute a pena di inammissibilità, la dichiarazione di ospitalità, ne consegue che sotto il profilo giuridico non è applicabile il combinato disposto di cui agli artt. 48 e 479 c.p.;
– con il secondo motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’art. 157 c.p., atteso che l’imputato ha firmato i fogli in bianco nell’anno 2002, sicchè dalla suddetta data e ancor prima della emanazione della sentenza di secondo grado erano maturati i termini di prescrizione.
3.9.a In data 2.4.2014 il D.G. ha depositato motivi aggiunti, con i quali ha ulteriormente illustrato i motivi di ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso di B.S. non è inammissibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, sicchè non è preclusa a questa Corte la possibilità di rilevare e dichiarare cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (Sez.Un., n.23428 del 22/03/2005; Sez. 4, n. 31344 dell’11/06/2013).
Per il residuo reato di cui all’art. 416 c.p. ascritto al B., in qualità di promotore e coordinatore dell’associazione avente come base operativa il suo studio professionale, invero, è maturato successivamente alla sentenza di secondo grado, nell’aprile 2013, il termine massimo di prescrizione di anni otto e mesi nove (anni sette aumentati di un quarto), a decorrere dal luglio 2004 -e non dal dicembre 2002, come indicato dal ricorrente, per quanto si dirà innanzi- di cui al combinato disposto dell’art. 157 c.p., e art. 161 c.p., comma 2, nell’attuale formulazione introdotta dalla L. n. 251 del 2005, art. 6. Il nuovo regime di prescrizione, infatti, è più breve rispetto a quello previgente, non risultando contestati al B. casi di cui all’art. 99 c.p. e può trovare applicazione nei confronti dello stesso, non essendo stata pronunciata la sentenza di primo grado alla data di entrata in vigore della L. n. 251 del 2005.
L’obbligo della immediata declaratoria di tale causa di estinzione, sancito dall’art. 129 c.p.p., comma 1, tuttavia implica nel contempo la valutazione della sussistenza in modo evidente di una ragione di proscioglimento dell’imputato, alla luce della regola di giudizio posta dall’art. 129 c.p.p., comma 2. In presenza di una causa di estinzione del reato, tuttavia, non sono, rilevabili in sede di legittimità, nè vizi di motivazione, nè nullità di ordine generale ed il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione, a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nel caso in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. 3, n. 10221 del 24/01/2013). Nel caso di specie, per quanto si evidenzierà innanzi in merito alla infondatezza delle doglianze oggetto di ricorso, non ricorrono dagli atti in modo evidente ed assolutamente non contestabile ragioni per una pronuncia ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2.
2. I ricorsi di D.G.G.M., D.P. V., F.S., R.G., V.A. vanno tutti rigettati.
2.1 Si procederà innanzitutto all’esame dei motivi dei ricorsi degli imputati relativi alle questioni processuali.
Il primo motivo di ricorso degli imputati B., V. e D. P.V., circa l’inutilizzabilità delle intercettazioni autorizzate dal Gip del Tribunale di Prato, essendo la condotta astrattamente ipotizzabile nei confronti del B., sin dall’origine dell’indagine, quella prevista dalla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, che non consentiva i disposti decreti autorizzativi è infondato. Ed invero, come si evince testualmente dal decreto autorizzativo del 7 maggio 2003, allegato ai ricorsi del B. e del V., il GIP del Tribunale di Prato ha ritenuto sussistenti “gravi indizi circa la commissione dei reati di concorso in truffa, in estorsione e nel procurare l’ingresso illegale nel territorio nazionale di cittadini extracomunitari (artt. 110, 640 e 629 c.p. e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 3 e 3 bis), come si apprende dalla c.n.r. n. 4827 della Guardia di Finanza di Prato del 17.4.2003” ed ha specificamente evidenziato che “i reati di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 3 e 3 bis consentono le operazioni di intercettazione telefonica ed ambientale” Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, le ipotesi di reato denunciate dalla G. di F., ipotizzate dal P.M. e, quindi, ritenute dal Gip erano appunto quelle riconducibili alla individuazione della composizione di una “rete di personaggi” dedita all’ingresso illegale di cittadini extracomunitari in Prato, in violazione del disposto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 3 e 3 bis e, dunque, alla loro regolarizzazione ed il fatto che nel corpo del decreto si faccia riferimento eminentemente alla regolarizzazione di cittadini extracomunitari, tale riferimento non può essere estrapolato e letto disgiuntamente dalla premessa, secondo cui “nel territorio pratese, dove giungono ormai migliaia di cittadini extracomunitari con la speranza di pervenire a condizioni di vita più agiate che nel loro paese”, vi è appunto “una rete di personaggi che sfruttano le necessità di queste persone… “.
Correttamente il giudice d’appello ha richiamato i principi più volte affermati da questa Corte, secondo i quali non ricorre alcuna illegittimità processuale, nè alcuna ipotesi di inutilizzabilità, nel caso in cui gli esiti delle intercettazioni telefoniche utilizzate per provare la colpevolezza dell’imputato per un determinato reato, siano state eseguite ed autorizzate dal GIP, come nel caso in esame, per l’acquisizione probatoria relativa ad altra ipotesi investigativa (Sez. 1, n. 24163 del 19/05/2010; Sez. 6, n. 50072 del 20/10/2009; Sez. 3, n. 348 del 13.11.2007). In particolare, autorizzata dal giudice l’effettuazione di intercettazioni di comunicazioni, in relazione ad una ipotesi di reato che, ai sensi dell’art. 266 c.p.p., consentiva il ricorso a tale mezzo di ricerca della prova, se detta ipotesi sia stata poi sostituita da altra che non lo avrebbe consentito, ciò non comporta l’inutilizzabilità dei risultati acquisiti, salvo che l’originaria configurabilità della prima di dette ipotesi risulti, “ora per allora”, dovuta ad errore del giudice (Sez. 6, n. 50072 del 20/10/2009). L’accertamento di tale errore va apprezzato sulla base dei dati di conoscenza acquisiti al momento del provvedimento autorizzativo, sicchè ove gli elementi addotti dal pubblico ministero a sostegno della richiesta siano chiaramente riferibili ad un’ipotesi di reato, non annoverabile nell’elenco dell’art. 266 c.p.p. e ciononostante il giudice abbia “per errore” autorizzato l’attività intercettativa, è certo possibile all’imputato di farne questione in ogni successiva fase o grado del procedimento e se la doglianza è fondata, le intercettazioni dovranno essere dichiarate inutilizzabili; per effetto però non di una mutata “qualificazione giuridica del fatto”, ma dell’errore commesso dal giudice al momento del decreto autorizzativo che deve tuttavia risultare evidente e incontrovertibile, sulla base degli elementi investigativi, portati ilio tempore a conoscenza del giudice e tenuto conto della inevitabile fluidità delle ipotesi criminose in un momento normalmente posto alle prime battute dell’attività investigativa.
Nel caso di specie, non è ravvisabile alcun errore, avendo, come detto, il Gip richiamato l’informativa della G.diF. facendo riferimento all’ingresso illegale in Prato di cittadini extracomunitari e, quindi, alla loro “regolarizzazione”; tale ultima attività illecita, all’evidenza, è quella che all’esito delle intercettazioni in concreto è emersa, in linea con l’indicata inevitabile fluidità delle ipotesi criminose e che ha condotto naturalmente alle contestazioni oggetto di giudizio, sicchè alcun errore inteso come ricorrenza di elementi che non consentivano ab origine le intercettazioni ai sensi dell’art. 266 c.p.p. è ravvisabile nella fattispecie in esame.
Destituita di fondamento è, poi, la censura specificamente svolta da D.P.V. circa l’inutilizzabilità “sopravvenuta” degli esiti intercettativi, non essendo il vizio riferibile al decreto autorizzativo nel suo momento genetico, bensì riferibile alla fase della decisione, una volta acquisita contezza della configurabilità della diversa ipotesi di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9. Invero, i principi affermati da questa Corte, come innanzi riportati, circa l’assenza di profili di illegittimità o di inutilizzabilità nel caso in cui gli esiti delle intercettazioni telefoniche utilizzate per provare la colpevolezza dell’imputato per un determinato reato, siano state eseguite ed autorizzate dal GIP, per altra ipotesi di reato, come nel caso in esame, si riferiscono ad ogni segmento processuale, anche e soprattutto alla fase decisionale e non solo a quello genetico. Una inutilizzabilità “progressiva” non si presenta confacente alla categoria dell’inutilizzabilità, che, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., risulta elaborata con riferimento al momento dell’acquisizione della prova, non a quello della sua valutazione, poichè in quel momento si produce l’effetto di introdurre nel processo un elemento di prova utilizzabile ai fini della decisione.
2.2. Infondato – limitatamente alla conclusione circa l’inutilizzabilità delle trascrizioni delle intercettazioni ordinate dal G.u.p., a ciò funzionalmente incompetente, successivamente all’emanazione del decreto che dispone il giudizio – si presenta il secondo motivo di ricorso del B. e del V..
All’uopo va premesso che, come si evince dal verbale del 11.1.2005 allegato al ricorso del V., effettivamente il G.u.p., all’udienza preliminare del 11.1.2005, dopo aver emesso il decreto che dispone il giudizio davanti al Tribunale di Prato, accoglieva la richiesta del P.M. di trascrizione delle intercettazioni ex art. 268 c.p.p., fissando per l’incombente e per la nomina del perito l’udienza 20.1.2005.
La Corte di merito ha rigettato la doglianza, già svolta con l’atto di appello, evidenziando in sostanza come l’udienza preliminare in questione non si fosse affatto conclusa alle ore 16,50, con la contestuale pronuncia dei provvedimenti ex art. 424 c.p.p., ma era proseguita sino alle 17,30, orario in cui, alla presenza dei difensori degli imputati, veniva fissata l’udienza per la trascrizione delle intercettazioni; in ogni caso nessuna norma preclude al giudice per le indagini preliminari l’utilizzo dell’udienza preliminare per l’incombente relativo alla trascrizione delle intercettazioni con modalità rispecchiante un’ apprezzabile sollecitudine per l’economia processuale. Tale valutazione, tuttavia, non si presenta in linea con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui il giudice per le indagini preliminari, una volta pronunciato il decreto che dispone il giudizio, perde la propria competenza funzionale in ordine ad atti che non siano quelli urgenti attinenti alla libertà personale dell’imputato (così Cass. Pen., n. 6629 del 24/1/2012; Sez. 4, n. 3347 del 01.12.2009, Rv.246391; Cantarelli; Cass. Pen. Sez. 4, n. 7439 del 12.01.1999, Rv.213738, Tegascono al caso specifico di perizia trascrittiva di intercettazioni disposta dal Gup che aveva già disposto il rinvio a giudizio). Ne consegue che non è corretta la decisione del giudice dell’udienza preliminare di fissare l’udienza per la perizia trascrittiva ed il conferimento dell’incarico al perito, anche se intervenuta prima della traslatio iudicii, con conferimento dell’incarico al trascrittore dopo la traslatio suddetta. Il conferimento dell’incarico rappresenta, invero, un momento cruciale dell’attività processuale volta a tradurre in forma grafica il contenuto delle intercettazioni, perchè in detto momento viene precisato l’incarico e vengono individuate (se non è stato fatto prima), con la collaborazione delle parti, le conversazioni da trascrivere. Non si tratta, pertanto, di attività meramente esecutiva di un deliberato assunto in precedenza, ma di momento qualificante dell’attività di trasposizione della prova, che deve essere effettuata sotto la direzione e la sorveglianza del giudice investito, al momento, del procedimento (in questo caso, del giudice del dibattimento).
Non possono tuttavia condividersi le conclusioni tratte da alcune pronunce di questa Corte circa l’inutilizzabilità tout court delle trascrizioni ai sensi degli art. 178 c.p.p., comma 1, lett. a) e art. 179 c.p.p., comma 1, a fronte della deroga all’iter procedimentale sopra delineato, sulla base delle seguenti considerazioni. In primo luogo dal combinato disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 1 e art. 89 disp. att. c.p.p., comma 2, emerge che la legge ha inteso attribuire rilevanza probatoria esclusivamente ai documenti fonici e ai verbali delle operazioni di intercettazione, con esclusione di ogni altro mezzo (ivi compresa la testimonianza di chi ha effettuato l’intercettazione); la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico- scientifico, e poichè l’attività trascrittiva attiene a un mezzo di ricerca della prova e non all’assunzione anticipata di un mezzo di prova, il rinvio dell’art. 268 c.p.p., comma 7, all’osservanza delle forme, dei modi e delle garanzie previsti per le perizie, non ha altro significato che quello di assicurare che la trascrizione delle registrazioni avvenga nel modo più corretto possibile. Donde l’ontologica insussistenza, in relazione alle trascrizioni, di un problema di utilizzazione, potendo semmai denunciarsi la mancata corrispondenza tra il contenuto delle registrazioni e quello risultante dalle trascrizioni effettuate (Sez. 1, 6.2.2007, Mangone, in Mass. Uff., 236361; Sez. 6, 5 ottobre 1994, n. 3784, Celone, Rv. 201857; Sez. 6, n. 11914 del 30/10/1992, Tramuta, Rv. 193148). In applicazione di tale principio, è stato perciò deciso che le intercettazioni telefoniche sono utilizzabili in dibattimento indipendentemente dalle relative trascrizioni, poichè queste ultime non rientrano negli atti delle indagini preliminari ed integrano una mera attività materiale e riproduttiva del contenuto delle intercettazioni, soggette alla disciplina prevista dall’art. 268 c.p.p., commi 7 e 8, (Cass., 4 maggio 1993, Bozzi; Id., Sez. 2, 19 giugno 1992, Serra). L’utilizzabilità in sede dibattimentale delle intercettazioni è poi possibile anche quando le trascrizioni non sono state inserite nel fascicolo per il dibattimento, perchè non effettuate in sede di indagini preliminari ovvero eseguite fuori termine, essendo consentito al giudice di procedere all’ascolto diretto delle registrazioni o di far trascrivere il contenuto delle intercettazioni acquisite agli atti per il tramite di un ausiliario designato “ad hoc” (N. 3784 del 1994); così come è consentito alle parti procedere autonomamente, attraverso un proprio ausiliario, all’ascolto e alla trascrizione delle intercettazioni, da utilizzare, all’occorrenza, in sede di giudizio. Alla stregua di tali rilievi, non è corretto far discendere, dall’error in procedendo in cui è caduto il Giudice delle indagini preliminari, l’inutilizzabilità – sic et simpliciter – delle trascrizioni, se la doglianza non viene accompagnata dalla denuncia di difformità tra il contenuto delle intercettazioni (le sole rilevanti come prova) e la trasposizione grafica delle stesse, effettuata dall’ausiliario, posto che ben avrebbe potuto il giudice procedere autonomamente all’ascolto delle conversazioni in camera di consiglio (come, in alcuni casi, viene espressamente dato atto dal Tribunale) o procedere alla verifica della corrispondenza tra le intercettazioni e le trascrizioni.
Nel caso di specie, non avendo i predetti imputati B. e V. dedotto la mancata corrispondenza al contenuto delle intercettazioni delle trascrizioni effettuate dal perito, non può dunque farsi questione di inutilizzabilità delle trascrizioni delle intercettazioni.
Infondata si presenta altresì la deduzione del V. circa la violazione del diritto di difesa non risultando notificata al difensore di fiducia assente la data di udienza della perizia di trascrizione. Ed invero, a prescindere dal profilo di inammissibilità di tale censura, in quanto non pare che con l’atto di appello sia stata svolta analoga doglianza in violazione dell’art. 606 c.p.p., u.c., in ogni caso, dal verbale di udienza dell’ 11.1.2005 emerge che l’avv. Perrone è presente anche in sostituzione degli avv.ti Sgromo e Ammannato”, e della presenza dell’avv. Perrone nella qualità indicata non si ravvisano ragioni per dubitare.
Peraltro, la mancata presenza dell’avv. Ammannato o dell’avv. Sgromo, già nominato sostituto processuale, imponeva al giudice di nominare, comunque, un sostituto del difensore di fiducia, occasionalmente presente in aula, con indicazione della data di rinvio e tale indicazione, alla presenza del difensore designato ex art. 97 c.p.p., comma 4, non determina alcuna nullità, in quanto il difensore di ufficio, nominato in luogo di quello impedito agisce in nome e per conto di quello di fiducia sostituito e rappresenta la parte processuale interessata al corretto andamento del processo (Sez. 5, n. 26168 del 11/05/2010).
2.3. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso del V., circa l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali nello studio B. per totale omessa motivazione del P.M. sul tassativo requisito delle “eccezionali ragioni di urgenza”, legittimanti ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3 la possibilità di compiere le operazioni di intercettazione mediante impianti in dotazione alla P.G., quando gli impianti installati presso la Procura della Repubblica risultino insufficienti od inidonei. Va premesso che, come si rileva dal decreto dell’8.5.2003 allegato al ricorso del V., il P.M. disponeva che le operazioni di intercettazione avvenissero mediante impianti in disponibilità della P.G. e con altri mezzi che la stessa P.G. “è autorizzata a locare presso ditta esterna”, “non avendo questa Procura la disponibilità di mezzi per effettuare operazioni di intercettazione ambientale come risulta dall’attestato allegato”.
In proposito correttamente la Corte di merito ha rilevato come, a fronte dell’assenza di mezzi per effettuare le intercettazioni, attestata peraltro con certificazione del responsabile del servizio intercettazioni nominativamente indicato, con la quale si è reiteratamente dato atto che l’ufficio non era dotato di apparecchiature per effettuare intercettazioni ambientali, il P.M. si è pienamente conformato al disposto di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, atteso che a fronte di tale situazione appare irrilevante che il P.M. non abbia fatto riferimento nei decreti di intercettazioni ambientali nello studio B. alle eccezionali ragioni di urgenza attesa la natura necessitata e non discrezionale della scelta operativa, conseguente all’assenza, piuttosto che all’insufficienza, o inidoneità degli strumenti tecnico occorrenti.
Tale valutazione si presenta del tutto corretta, siccome pienamente in linea con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo i quali, quando si attesti, nel provvedimento previsto dall’art. 268 c.p.p., comma 3, seconda parte, la tecnica impossibilità di effettuare le intercettazioni ambientali mediante uso degli impianti in dotazione alla Procura della Repubblica, per la loro accertata inidoneità allo scopo e non per mera, temporanea inutilizzabilità, diventa per ciò stesso superflua l’esigenza di una motivazione anche in ordine alle eccezionali ragioni di urgenza giustificative del ricorso ad impianti esterni (Sez. 2, n. 8025 del 04/02/2004).
3. I motivi di merito di tutti i ricorrenti vanno rigettati.
All’uopo appare opportuno premettere che, nel caso di specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di responsabilità a carico degli imputati, con una struttura motivazionale della sentenza di appello, che si salda perfettamente con quella di primo grado, così integrando un unitario corpo argomentativo, che, per quanto si dirà, appare privo di vizi motivazionali, avendo dato congrua e ragionevole giustificazione delle critiche prospettate nei motivi di gravame.
Va, poi, evidenziato le doglianze di merito degli imputati presentano profili di inammissibilità, laddove sollecitano il giudice di legittimità a formulare valutazioni di merito sostitutive di quelle effettuate dal giudice di appello e sostenute dal medesimo con motivazione non manifestamente illogica e coerente al compendio probatorio disponibile.
3.1.a Il terzo motivo del ricorso del B., così come il quarto motivo del ricorso di V.A., nella parte in cui si contesta la sussistenza dei presupposti per la configurabilità del delitto di cui all’art. 416 c.p., difettando il requisito della potenziale durevolezza dell’associazione, essendo i reati fine ancorati al termine di presentazione delle (false) dichiarazioni di emersione di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, sono infondati.
Va innanzitutto evidenziato che il procedimento per la legalizzazione del lavoro irregolare, per come disegnato dalla L. n. 222 del 2002, si presentava piuttosto articolato e senz’altro non si limitava ed esauriva nella presentazione della dichiarazione di emersione di cui all’art. 1, comma 1 L. cit. che, anzi, ne costituiva il punto di partenza. Invero, alla denuncia di occupazione alle proprie dipendenze di lavoratori extracomunitari in posizione irregolare, entro la data dell’11 novembre 2002, termine prorogato al 10.12.2002, seguivano le verifiche della Prefettura e della Questura contemplate al comma 4, a cui faceva seguito, ancora, l’invito in Prefettura del lavoratore extracomunitario e del datore di lavoro per la stipula del contratto di soggiorno per lavoro subordinato e per il contestuale rilascio del permesso di soggiorno, permanendo le condizioni soggettive di cui al comma 4. La complessità di tale iter si ricava senz’altro dal contenuto delle conversazioni intercettate presso lo studio del B. nel 2003, successivamente al termine di presentazione delle dichiarazioni di emersione, che ha consentito di acclarare – come si ricava dalla sentenza di primo grado, da leggersi congiuntamente a quella di appello, integrando un unitario corpo argomentativo, per quanto detto- non solo l’esistenza del sodalizio criminoso ma anche quanto fosse intensa l’attività di esecuzione del programma criminoso dell’associazione.
Il giudice di prime cure ha, infatti, precisato che le conversazioni intercettate danno un ampio spaccato dell’evoluzione dei rapporti dal maggio 2003 sino al dicembre dello stesso anno fra i partecipanti all’associazione, in un momento di pieno fermento dell’attività, in cui le denunce per la regolarizzazione erano state già presentate e per alcune pratiche era già stato stipulato presso gli uffici delle Prefetture competenti il contratto di soggiorno con il lavoratore regolarizzando per il rilascio del permesso di soggiorno, in altri casi era stata già inviata dalla Prefettura la lettera di convocazione per la stipula del contratto di soggiorno, in altri ancora era partita dal datore di lavoro una lettera di licenziamento del lavoratore da regolarizzare, strumentale all’ottenimento di un permesso temporaneo di validità semestrale. In tale contesto è agevole rilevare, in primo luogo, l’esistenza di un sodalizio ed il fatto che i partecipi hanno posto in essere, ciascuno con un proprio ruolo, false pratiche di emersione per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, come specificamente si ricava: dal tenore e contenuto delle conversazioni intercettate, che lascia chiaramente intendere che i cittadini extracomunitari non avevano mai avuto alcun rapporto, neppure di mera conoscenza, con il datore di lavoro autore delle dichiarazione di emersione, tanto è vero che il B. si rendeva promotore delle presentazioni ufficiali dei regolarizzandi; dalla remunerazione dei datori di lavoro che non trovava altra plausibile spiegazione se non quella del carattere fittizio della dichiarazione di emersione, con assolvimento dei conseguenti oneri formali sino al rilascio del permesso di soggiorno; dalla predisposizione di false buste paga da parte dello studio B., dal pagamento dei contributi INPS da parte degli stessi lavoratori regolarizzandi, dall’offerta di disponibilità da parte di locatori compiacenti di apparente ospitalità ai lavoratori extracomunitari.
3.1.b. Dunque, contrariamente a quanto dedotto dei ricorrenti, sulla base di quanto rilevato dai giudici di merito, l’attività degli associati non si è tradotta nella mera presentazione delle (false) denunce di emersione e, quindi, ancorata ad un preciso arco temporale finale, non successivo al dicembre 2002, ma anche nell’intero arco del 2003 ed oltre, era pienamente operativa, volta all’esecuzione del programma delittuoso, consistente nella stabilizzazione dei lavoratori extracomunitari in Italia, attraverso i meccanismi della L. n. 222 del 2002, ove la dichiarazione di emersione costituiva, come detto, punto di partenza dell’iter di regolarizzazione. Il contesto operativo dell’associazione, in uno al significato tempo di attuazione del programma criminoso, da conto della tendenziale stabilità e permanenza dell’associazione, costituente punto di riferimento dei molteplici lavoratori extracomunitari, al fine di consentire la permanenza degli stessi nel nostro Stato, attraverso l’ottenimento dei permessi di soggiorno.
D’altra parte, ai fini della sussistenza del delitto di associazione per delinquere, di cui all’art. 416 cod. pen., non è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di assoluta stabilità, essendo sufficiente che esso non sia a priori circoscritto alla consumazione di uno o più reati predeterminati, sicchè l’elemento temporale non deve essere considerato come notevole protrarsi del rapporto nel tempo, essendo anche sufficiente uno svolgersi dell’attività associativa per breve periodo (Sez. 1 n. 134 del 03/10/1989).
3.1.c In merito alla sussistenza del sodalizio criminale, la sentenza di primo grado ha tratto dalle risultanze della copiosa attività intercettativa e dalle testimonianze acquisite, gli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 416 c.p. e segnatamente l’accordo fra almeno tre persone, ossia un coagulo di volontà diretto all’attuazione di una serie di delitti non singolarmente individuati, accompagnato da una struttura organizzativa, avente come base operativa lo studio del medesimo B., e caratterizzandosi per l’esatta composizione soggettiva, avendo ciascuno degli imputati un proprio predefinito ruolo, quale ad esempio il V. ed il F., organizzatori e coordinatori dell’attività criminosa, il D. G. di finto ospitante. Il carattere tendenzialmente stabile dell’associazione, poi, emerge, peraltro, proprio dall’esistenza di una struttura idonea alla realizzazione di un programma criminoso avente ad oggetto una serie indeterminata di delitti in materia di immigrazione e di correlati delitti di falso documentale, non circoscritti al periodo di presentazione delle denunce di emersione, ma anche e soprattutto successivamente, per quanto detto, al dicembre 2002.
Questa Corte recentemente non ha mancato di segnalare come la prova dell’esistenza di un’associazione a delinquere può essere desunta in via indiretta da facta concludentia fra i quali assume una particolare pregnanza la consumazione di numerosi reati fine svolti con modalità seriale e che richiedono, per la loro consumazione, una distribuzione di ruoli fra vari soggetti (Sez. 2, n. 28872 del 14/06/2011).
Il quadro delle pronunce relative alla determinazione del grado di organizzazione, necessario per dar vita all’associazione per delinquere, è piuttosto ampio ed articolato (Sez. 5, n. 39378 del 22/06/2012) ed è stato individuato, di volta in volta, nel mero accordo esteso ad un generico programma criminoso (affectio societatis sceleris: Cass., sez. 1, 23.6.1988, Olivieri); nella semplice e rudimentale predisposizione comune di attività e mezzi tra gli associati (cfr. Cass., sez. 1, 16.11.1984, Andolina; Cass., sez. fer, 3.9.2004, Bosone); in un minimo di organizzazione che autonomizzi l’associazione dai delitti scopo (cfr. Cass., sez. 1, 24.3.1986, Graziano; Cass., sez. 1, 11.10.2006, D’Attis, secondo cui, in caso di associazione con modesto organigramma, occorre che il vincolo tra i sodali sia continuativo), affermandosi, inoltre, la necessità che l’organizzazione del sodalizio criminoso sia adeguata rispetto al programma criminoso previsto (cfr. Cass., sez. 1, 27.2.1993, Salvo; sulla sufficienza di dimensioni minime della struttura organizzativa, ai fini della prova dell’accordo associativo ( Sez. 6, 25.9.1998, Villani). In sede di prassi applicativa, si è assistito ad una dilatazione della fattispecie, essendo giunta la giurisprudenza ad una estrema rarefazione dei connotati strutturali dell’associazione, ritenendo sufficiente un accordo di carattere generale, volto all’attuazione di un programma del tutto indeterminato di reati-scopo, che assume rilevanza a prescindere dalla effettiva consumazione di questi ultimi (cfr. Cass., sez. 6, 14.6.1995, Montani; Cass., sez. 6, 22.4.1989, Morelli; Cass., sez. 1, 28.11.1988, Donato, Cass., sez. 1, 23.6.1988, Olivieri).
Nella fattispecie in esame gli imputati hanno senz’altro agito all’interno di un accordo criminoso, anche per quanto si dirà con riferimento ai singoli ricorrenti che rispondono del delitto associativo, destinato a durare nel tempo, volto alla commissione di una serie indeterminata di reati in materia di immigrazione e correlati delitti di falso per la regolarizzazione di cittadini extracomunitari nel nostro paese. La sentenza impugnata non ha mancato di evidenziare come l’attività criminosa del sodalizio fosse seriale, organizzata in forma complessa, plurisoggettiva e professionale, in forza del punto di riferimento costituito dallo “studio” del B., ed avente una ramificata articolazione intersoggettiva, rivolta alla commissione di un numero indeterminato di illeciti, come testimoniato dalle centosettantadue false dichiarazioni di emersione e dal rilascio di centosessantaquattro permessi di soggiorno ideologicamente falsi, a fronte della carenza dei relativi presupposti, con la conseguente integrazione di condotte criminose plurime.
3.1.d Il B. (e per quanto si evidenzierà innanzi anche il V.), si duole del fatto che la sentenza impugnata difetta di motivazione in merito al dolo specifico della affectio societatis scelerorum”, che connota il reato di cui all’art. 416 c.p., distinguendolo dal semplice concorso ex art. 110 c.p..
Va premesso che criterio distintivo del delitto di associazione per delinquere, rispetto al concorso di persone nel reato continuato consiste essenzialmente nel modo di svolgersi dell’accordo criminoso, che, nel concorso di persone nel reato continuato, avviene in via occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati – ispirati da un medesimo disegno criminoso che tutti li comprenda e preveda – con la realizzazione dei quali tale accordo si esaurisce, facendo, così, venir meno ogni motivo di pericolo e di allarme sociale; nell’associazione per delinquere, invece, l’accordo criminoso è diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, ciascuno dei quali ha la costante consapevolezza di essere associato all’attuazione del programma criminoso, anche indipendentemente ed al di fuori della effettiva commissione dei singoli reati programmati, cosicchè è proprio la permanenza del vincolo associativo tra più persone legate dal comune fine criminoso, che determina pericolo per l’ordine pubblico ed è la ragione stessa per la configurazione – quale autonomo titolo di reato – del delitto di associazione per delinquere, per la cui sussistenza, peraltro, è irrilevante l’eventuale mancata partecipazione di tutti, o di alcuni degli associati, alla consumazione dei delitti programmati (Sez. 5, n. 39378 del 22/06/2012; Sez. 1, n. 3402 del 11/10/1991, Rv. 191122; Cass., sez. 6, 22.4.1989, Morelli; Cass., sez. 1, 11.10.1991, Niccolai; Cass., sez. 1, 15.1.1993, Ambrosino; Cass., sez. 1, 15,12.1994, Semeraro; Cass., sez. 6, 12.5.1995, Mauriello, Cass., sez. 6, 16.1.1998, Pastori; Cass., sez. 4, 21.4.2006, n. 22824, Q. e altro, rv. 234576; Cass., sez. 6, 24.5.2011, n. 29581). La condotta di partecipazione, dunque, si distingue da quella del concorrente ex art. 110 c.p. perchè, a differenza di questa, implica l’esistenza del “pactum sceleris”, con riferimento alla consorteria criminale, e della “affectio societatis”, in relazione alla consapevolezza del soggetto di inserirsi in un’associazione vietata (Sez. 2, 29/11/2012, n. 47602).
Così delineati gli elementi differenziali tra reato continuato e associazione di cui all’art. 416 c.p., emerge chiaramente l’infondatezza delle doglianza del B., essendo egli il promotore del sodalizio che vedeva come base operativa appunto il suo studio professionale, finalizzato alla commissione di una seria indeterminata di delitti in materia di immigrazione e correlati delitti di falso, con stabilità del vincolo associativo, sicchè il contributo cosciente alla vita dell’organizzazione emerge indubitabilmente dall’attività da lui stesso posta in essere, come desumibile dal compendio probatorio acquisito e descritto nelle sentenze di merito. La consapevolezza di aver assunto siffatto vincolo è ricavabile, d’altra parte, come detto, anche da fatti concludenti, che non necessariamente deve essere indeterminato nel tempo, purchè permanga al di là degli accordi particolari relativi alla realizzazione dei singoli episodi criminosi, in modo da costituire, nella sua funzione propulsiva della criminalità così organizzata, un attentato all’ordine pubblico.
3.1.e Il quarto motivo di ricorso, per quanto evidenziato in premessa, è fondato, ma in termini diversi rispetto a quanto prospettato dal ricorrente, atteso che la prescrizione per il reato associativo residuo a lui ascritto è maturata non tenendo conto del termine del dicembre 2002 (relativo alla presentazione delle dichiarazioni di emersione), bensì del luglio del 2004, dovendo ritenersi pienamente operativa l’associazione anche successivamente al dicembre 2002, per tutte le ragioni sopra esposte.
3.2. Il ricorso di F.S. va respinto.
3.2.a Il primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente si duole del riconoscimento del suo ruolo “apicale” all’interno dell’organizzazione è infondato ed in parte inammissibile, atteso che al di là del dedotto vizio di violazione di legge, il F. in sostanza, come accennato in premessa, sollecita il giudice di legittimità, in verità in maniera alquanto generica, a formulare valutazioni di merito.
Ed invero, il giudice d’appello, nel richiamare le risultanze a carico dell’imputato, come illustrate nella sentenza di primo grado, ha evidenziato che le conversazioni intercettate, compiutamente richiamate, confortate da ulteriori elementi di riscontro dimostrano il ruolo “essenziale” svolto dal F. di presentatore di numerosi imprenditori, disposti alla confezione di fittizie dichiarazioni di emersione, e quindi di collettore e referente dei datori di lavoro, oltre che di diretto interlocutore del B.. In particolare, si legge nella sentenza impugnata, il B. in una conversazione oggetto di intercettazione- emblematica sul punto – evidenziava come il F. tenesse una “contabilità” relativa alle numerose pratiche di emersione dallo stesso trattate, ben novantasei, e si doleva del fatto che lo stesso reclamasse ulteriori spettanze rispetto a quanto sino ad allora percepito. La sentenza di primo grado, richiamata da quella d’appello, in proposito, ha messo in risalto come le contestazioni tra il F. ed il B., in merito alla spartizione degli illeciti guadagni, ricavati dalla presentazione delle false pratiche di emersione, testimoniano il ruolo di attivo organizzatore svolto dal F., attraverso il reclutamento dei datori di lavoro e l’esistenza del preventivo accordo illecito (emblematico, all’uopo, segnala specificamente il giudice d’appello, è la presenza del “tariffario”), in relazione al quale proprio la posizione di vertice autorizzava il ricorrente a rivendicare nei confronti del B. il suo diritto di partecipazione agli utili in misura più consistente.
Tale ragionamento, che non risulta specificamente contestato dal ricorrente, si presenta immune dal vizio denunciato, atteso che dagli elementi indicati dai giudici di merito emerge chiaramente il ruolo di “organizzatore” del F., spettando tale qualifica a colui che, come nella fattispecie in esame, in autonomia, cura il coordinamento e l’impiego delle strutture e delle risorse associative, nonchè reperisce i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso, ponendo in essere un’attività che assume i caratteri dell’essenzialità e dell’infungibilità, non essendo, invece, necessario che lo stesso soggetto, sia anche investito di compiti di coordinamento e di direzione dell’attività di altri soggetti (Sez. 5, 39378 del 22/06/2012). In particolare, il ruolo di organizzatore non compete solo all’iniziatore dell’organizzazione, ma anche a colui che, rispetto al gruppo costituito, provochi ulteriori adesioni, sovrintenda alla complessiva gestione di esso, assuma funzioni decisionali (Sez. 6, 10/05/1994).
3.2.b Infondato è altresì il secondo motivo di ricorso del F., con il quale l’imputato ha dedotto la ricorrenza del rapporto di specialità tra il reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 48 e 479 c.p. ed il reato di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, con assorbimento in tale ultimo reato del primo.
In merito a tale doglianza, la Corte d’appello ha, con ragionamento corretto, escluso la sussistenza del dedotto assorbimento, atteso che il reato di falso di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, concerne (esclusivamente) la presentazione di una falsa dichiarazione di emersione, al fine di eludere le disposizioni in materia di immigrazione, ovvero la falsa attestazione nei confronti della competente autorità amministrativa (ovvero la Prefettura, Ufficio Territoriale del Governo, competente per territorio), circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con un lavoratore extracomunitario in posizione irregolare; per contro, il reato di falso ideologico (indotto, ai sensi dell’art. 48 c.p.) in atto pubblico concernente – per quanto attiene al presente procedimento – i permessi di soggiorno per cittadini extracomunitari, rilasciati in difetto dei presupposti di legge che lo consentivano (in quanto falsamente attestati), riguarda un documento del tutto diverso (il permesso di soggiorno), la cui emissione, nell’ambito della sanatoria disciplinata dalla citata L. n. 222 del 2002, comportava un articolato procedimento amministrativo implicante, fra l’altro, non solo la presentazione dell’indicata dichiarazione di emersione, ma anche di una dichiarazione di impegno a stipulare nei termini (prescritti) il contratto di soggiorno ed infine, previo assenso ed invito da parte della Prefettura, la stipula del suddetto contratto di soggiorno, con appunto il contestuale rilascio del permesso stesso.
In tale contesto, pertanto, può condividersi la valutazione finale del giudice d’appello, secondo cui le condotte illecite “falsificazione” ravvisabili nella fattispecie in esame non possono essere riduttivamente ricondotte alla fattispecie di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, essendo plurime e ben più ampie, inducendo ciascuna di esse i p.u., che hanno rilasciato i permessi di soggiorno, in inganno sulla ricorrenza dei presupposti per tale rilascio; la dichiarazione di emersione, nel complesso iter della L. n. 222 del 2002, costituiva, come detto, solo un segmento del percorso, il punto di avvio del procedimento, a cui seguivano ulteriori importanti tappe formali, tra cui le dichiarazioni di disponibilità per la stipula del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ovvero del contratto di lavoro di durata non inferiore ad un anno, nelle forme di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5-bis, introdotto dalla L. 30 luglio 2002, n. 189, art. 6, e, quindi, la stipula del contratto di soggiorno, sino a concludersi con il rilascio del permesso di soggiorno.
3.2.e Infondato ed ai limiti dell’inammissibilità, si presenta il terzo motivo di ricorso del F., relativo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche ed alla quantificazione della pena inflitta. Ed invero, il giudice d’appello nel confermare la valutazione del primo giudice, ha messo in risalto come l’entità della pena inflitta è stata commisurata alla gravità della condotta ascritta all’imputato ed allo spessore criminale dello stesso, gravato da precedenti cospicui e numerosi (per rissa, detenzione illegale di armi, furti tentato omicidio in concorso), elementi questi che hanno condotto i giudici di merito ad escludere l’applicazione delle generiche ed a fissare la pena base per il delitto di associazione in misura significativamente maggiore rispetto al minimo edittale.
Tale valutazione si presenta senz’altro coerente ed in linea con i principi più volte pressi da questa Corte, secondo i quali in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni, tanto del fatto, quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda”. (Sez. 1, n. 11361 del 19.10.1992 dep. 25.11.1992 rv 192381; Sez. 2, 17/02/2009 n. 11077).
Con riguardo all’entità della pena inflitta i giudici di merito hanno dato ampiamente conto del percorso logico seguito per irrogare una pena significativamente superiore alla pena base e tale ragionamento non si presenta in alcun modo censurabile.
3.3.a Il quarto motivo di ricorso di V.A. con il quale è stata dedotta la mancata dimostrazione nella sentenza impugnata del “pactum sceleris” tra i tre presunti “promotori” B., V. e F. è infondato. Ed invero, la sentenza impugnata senza incorrere nei vizi denunciati, richiama il corposo materiale intercettativo dal quale è emerso il ruolo di primo piano del V., come del F., delle attività del sodalizio criminale, in stretta cooperazione con il B., con il rilevante compito di intermediazione, quale presentatore degli imprenditori disposti a fungere da falsi datori di lavoro dei cittadini extracomunitari ed, in relazione a ciò, di organizzatore delle complesse attività richieste in vista del rilascio dei permessi di soggiorno.
Nella sentenza di primo grado è stato messo in risalto come significativa proiezione dell’accordo associativo sia costituita dalla rappresentazione che il B. fa al V. dell’incresciosa situazione che sta creando il D.P., che può frapporre seri intralci al buon andamento delle attività e la decisione del B. di coinvolgere il V. nella mediazione presso il D.P., non è casuale, ma dettata dal rispetto del ruolo del V. di presentatore del D.P.. Gli assensi del V. e le risposte del tutto adeguate dello stesso al tenore delle conversazioni incentrate sul contenuto degli accordi presi, concorrono a definire un quadro di piena consonanza di intenti, della cui attuazione il V. diviene garante, con una condotta rispettosa dell’obiettivo comune, che non manca di connotarsi di aspetti ricognitivi decisionali e propositivi, quali si addicono alla posizione di vertice da lui ricoperta all’interno del sodalizio criminoso (ad es. come quando ricorda al B. che, secondo gli accordi, dovevano essere i cinesi a pagare i contributi, o quando interviene suggerendo al B. di non consegnare a nessuno le lettere di convocazione sino a quando non avranno pagato i contributi); nondimeno gli accordi prevedevano che anche il V. fosse adeguatamente remunerato per l’attività al servizio dell’associazione.
In tale contesto, correttamente è stato ritenuto dai giudici di merito la ricorrenza del pactum sceleris ed il ruolo di organizzatore rivestito dal V. nell’ambito del sodalizio criminoso.
Per quanto concerne poi l’assoluta mancanza di reciproca conoscenza tra V. e F., correttamente, in proposito sono stati invocati dai giudici di merito i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui in tema di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., non è necessaria la conoscenza reciproca di tutti gli associati, poichè quel che conta è la consapevolezza e volontà di partecipare, assieme ad almeno altre due persone aventi la stessa consapevolezza e volontà, ad una società criminosa strutturata e finalizzata secondo lo schema legale (Sez. 6, 20/07/2011, n. 34406).
Per quanto riguarda le questioni relative alla configurabilità dell’associazione, ed al “termine”dei reati fine si rimanda a quanto già evidenziato sub 3.1.a, b, c, d.
3.3.b Infondato si presenta il quinto motivo di ricorso circa l’insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 c.p., comma 5, stante l’assoluzione degli imputati Ro.Gi. e D.G. G.M., atteso che nel dato numerico considerato dal ricorrente all’evidenza non sono stati computati gli imputati giudicati separatamente, sicchè il numero degli associati pure escludendo i predetti rende comunque configurabile l’aggravante.
Per quanto concerne, invece, il dedotto vizio motivazionale della sentenza impugnata in merito al diniego della concessione delle generiche all’imputato, si osserva che il giudice d’appello, nel confermare la valutazione del primo giudice, ha messo in risalto come non ricorra nella fattispecie motivo giustificante la concessione delle generiche, tenuto conto del fatto che il ricorrente risulta gravato da precedenti assai numerosi, quanto gravi (porto abusivo di armi, ricettazione, falso, violazione della disciplina sugli stupefacenti, associazione a delinquere). Tale valutazione si presenta senz’altro coerente ed in linea con i principi più volte espressi da questa Corte richiamati sub. 3.2.e.
3.4.a Il secondo motivo di ricorso di D.P.V. circa la mancata consapevolezza della condotta illecita posta in essere dal padre coimputato, D.P.G., è infondato. Ed invero, le sentenze di merito hanno compiutamente indicato gli elementi di responsabilità a carico del ricorrente per i delitti falso a lui contestati in concorso con il proprio genitore, consistenti nella presentazione a sua firma delle false pratiche di sanatoria e conseguentemente di induzione dei pubblici ufficiali al rilascio dei falsi permessi di soggiorno. In particolare, la sentenza di primo grado ha evidenziato come a nome di D.P.V., titolare della ditta “Laura Sandrelli”, risultavano presentate presso le Prefetture di Prato, Firenze e Pistoia 31 pratiche di emersione dal lavoro nero di cittadini extracomunitari, come ricavabile dalle conversazioni intercettate, e di questi 25 risultavano aver ottenuto il permesso di soggiorno. Le numerose conversazioni intercettate testimoniano il pieno coinvolgimento di D.P.G., padre di V. nella presentazione delle pratiche di sanatoria sottoscritte dal figlio, la consapevolezza da parte dello stesso della falsità delle pratiche ed al tempo stesso la preoccupazione che l’affare illecito si trasformi in un boomerang ai danni del figlio. La sentenza di primo grado, in particolare indica alcune conversazioni tra il B. ed il padre del ricorrente, D. P.G., all’uopo emblematiche e, precisamente, quella dell’1.7.2003 nella quale il B. -a fronte dell’ostruzionismo di D.P.G. che si rifiutava di accompagnare i regolarizzandi negli uffici interessati alla procedura di rilascio del permesso di soggiorno- rappresentava al suo interlocutore i rischi connessi al tirarsi indietro dall’affare e che in caso di denuncia penale anche D.P.V. sarebbe stato coinvolto “perchè lui ha accettato”. Da tale spaccato correttamente il giudice d’appello ha rilevato che le intercettazioni rivelano l’accordo illecito tra i congiunti mediante l’induzione al reato del giovane D.P.V. da parte del padre G., e non certamente l’estraneità del ricorrente ai fatti contestati, risultando egli il sottoscrittore delle false dichiarazioni di emersione in qualità di legale rappresentante della ditta “Laura Sandrelli”.
3.4.b Infondato è altresì il terzo motivo di ricorso con il quale il D.P. si duole dell’omessa valutazione delle attenuanti generiche in punto di pena. Ed invero contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente la sentenza di primo grado ha specificamente valutato le attenuanti, ritenendo di dover formulare un giudizio di equivalenza di esse rispetto all’aggravante della recidiva (e non come dedotto dal ricorrente del numero degli associati). Tale giudizio di equivalenza è stato confermato anche dal giudice d’appello che ha evidenziato quanto fosse modesto il peso delle circostanze poste a fondamento delle attenuanti generiche, in relazione alla contesta recidiva infraquinquennale e alla successiva condanna per plurime rapine consumate e tentate e che pertanto non ricorrevano i presupposti per una più favorevole valutazione ex art. 69 c.p.. Tale argomentazione non pare censurabile in questa sede, atteso che in tema di concorso di circostanze, questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono denunciabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico, e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza allorchè il giudice, nell’esercizio del potere discrezionale previsto dall’art. 69 cod. pen., l’abbia ritenuta la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena in concreto irrogata (Sez. 6, n. 6866 del 25/11/2009).
3.5.a Infondato si presenta il ricorso di R.G.. Il primo motivo con il quale il ricorrente lamenta l’intervenuta declaratoria di prescrizione del reato di cui all’art. 416 c.p., pur in assenza di elementi denotanti la sua compartecipazione al sodalizio criminoso, limitandosi egli ad eseguire, in qualità di dipendente del B., le disposizioni di quest’ultimo. Ed invero, la sentenza impugnata senza incorrere nel vizio denunciato, richiamandosi alla sentenza di primo grado, ha compiutamente indicato gli elementi dai quali, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, emerge, invece, il ruolo non meramente esecutivo dello stesso. In particolare le modalità attraverso le quali il R. interloquiva con i fittizi datori di lavoro, in ordine allo svolgimento delle pratiche illecite, sia per le indicazioni ricevute, che per quelle offerte, come emergenti dal tenore delle conversazioni oggetto di intercettazione, la pervasiva presenza nello studio del B., oltre che dei falsi datori di lavoro (quali Ro., D. e M.), dei falsi ospitanti dei cittadini extracomunitari e dei presentatori dei primi, nonchè la natura seriale della connessa attività, sono tutti elementi questi che sono stati ritenuti coerentemente dal giudice d’appello espressione della condivisione del programma delittuoso dell’associazione e di adesione alla stessa, senz’altro non connessi ad una mera mansione impiegatizia.
Il richiamo effettuato dal ricorrente al contenuto della conversazione telefonica n. 14074 del 17/09/2003, intercorsa fra il R. e il coimputato D.I., che sconfesserebbe l’assunto, secondo il quale il ricorrente era perfettamente in grado di interloquire con i datori di lavoro, a prescindere dal rilievo che si presenta inammissibile, in quanto effettuato in violazione della regola dell’autosufficienza che impone l’allegazione al ricorso degli elementi non valutati o travisati dalla sentenza oggetto di impugnazione, tuttavia non si presenta concludente a fronte del contenuto delle molteplici conversazioni indicate nella sentenza di primo grado che indicano quanto innanzi illustrato.
3.5.b Il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente ha addotto l’assorbimento del reato di cui all’art. 479 c.p. in quello di cui alla L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 9, è infondato per le ragioni già esposte sub 3.2.b.
3.5.c Il terzo motivo di ricorso del R. circa l’erronea applicazione dell’art. 56 c.p., in relazione al reato p.e p. dagli artt. 48 e 479 c.p. è del pari infondato, ai margini dell’inammissibilità, limitandosi ad una generica reiterazione della medesima doglianza già svolta in appello, senza confrontarsi con le compiute argomentazioni sviluppate dalla Corte territoriale, con le quali tale deduzione è stata rigettata.
Ed invero, il giudice d’appello ha correttamente evidenziato come sia irrilevante ai fini della ipotizzata configurabilità del tentativo di falso, e non di falso consumato, il riferimento al fatto che la Polizia Giudiziaria stesse effettuando le indagini, atteso che i permessi di soggiorno risultano rilasciati da altra Autorità, già a partire dal giugno 2003 e per la massima parte nei successivi mesi di luglio e agosto, laddove le indagini relative al procedimento si sono protratte nel 2003 e per larga parte del 2004.
3.6.a Il ricorso del D.G. è infondato. Con il primo motivo di ricorso vengono riproposte in questa sede varie questioni in ordine alle quali la Corte di merito, senza incorrere nei vizi denunciati ha fornito adeguate e compiute risposte. Ed invero, per quanto concerne la deduzione, circa l’avvenuta firma in bianco di alcuni fogli, la Corte di merito ha in sostanza evidenziato come tale circostanza, lungi dal costituire elemento idoneo al superamento della responsabilità dell’imputato in ordine ai delitti di falso, dia, invece, conto, in uno al contenuto dei colloqui registrati tra lui ed il B. della piena consapevolezza dell’imputato in ordine al proprio ruolo di finto ospitante. In particolare, la sentenza di primo grado ha evidenziato come il D.G. risulta aver offerto ospitalità, all’interno dell’abitazione in (OMISSIS), a 14 cittadini stranieri in pratiche di legalizzazione curate dallo studio B. e già il fatto che nell’appartamento in questione, di circa 70 mq., potessero trovare ospitalità 14 persone, contrasta con i canoni di verosimiglianza; a tale dato si è aggiunto il copioso materiale costituito dagli esiti delle intercettazioni che, secondo il giudice di merito ha dato ulteriormente conto della partecipazione del D.G. al programma associativo nel ruolo di finto ospitante, che prevedeva anche il recapito delle lettere di convocazione allo studio B..
Questione centrale, poi, del motivo di ricorso in esame è quella relativa all’assunto secondo cui non essendo necessario, ai fini della L. n. 222 del 2002, dimostrare la situazione alloggiativa, non occorrendo alcuna dichiarazione di ospitalità per ottenere il permesso di soggiorno, non risulterebbe conseguentemente applicabile il combinato disposto di cui agli artt. 48 e 479 c.p..
Anche sul punto, la Corte di merito, senza incorrere in vizi, ha condivisibilmente evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto dal D.G. nell’atto di appello, la disponibilità di un alloggio per il lavoratore extracomunitario regolarizzando, costituiva aspetto essenziale nel complesso iter amministrativo per il rilascio attraverso la dichiarazione di emersione del permesso di soggiorno, giacchè ai sensi della L. n. 222 del 2002, art. 1, comma 3 occorreva allegare, ai fini della ricevibilità della dichiarazione di emersione, copia sottoscritta della dichiarazione di impegno a stipulare, nei termini di cui al comma 5, il contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo indeterminato, ovvero per un contratto di lavoro di durata non inferiore ad un anno, nelle forme di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5-bis.
Orbene l’art. 5 bis prevede appunto che il contratto di soggiorno per lavoro subordinato stipulato fra un datore di lavoro italiano o straniero regolarmente soggiornante in Italia e un prestatore di lavoro, cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione Europea o apolide, debba contenere la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, sicchè priva di fondamento si presenta la deduzione, secondo la quale tale dichiarazione non concorreva al rilascio del permesso di soggiorno e quindi al falso per induzione contestato all’imputato.
3.6.b Il secondo motivo di ricorso, relativo alla decorrenza termine di prescrizione dall’avvenuto rilascio al B. dei fogli firmati in bianco, nell’anno 2002 si presenta del tutto generico ed indimostrato e, pertanto, va rigettato.
4. Il ricorso, dunque, di B.S. va accolto quanto all’intervenuta prescrizione del reato residuo di cui all’art. 416 c.p., per cui la sentenza impugnata va annullata senza rinvio con riguardo alla posizione di tale ricorrente. I ricorsi degli altri imputati vanno rigettati e ciascuno di essi va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla posizione di B.S. perchè il reato residuo ex art. 416 c.p. è estinto per intervenuta prescrizione. Rigetta il ricorso di tutti gli altri imputati che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali.
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