SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
SENTENZA 26 aprile 2012, n.16000
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 19 novembre 2011, ha convalidato il fermo, applicando contestualmente la misura cautelare personale della detenzione in carcere, di D.P. indagato, quale beneficiario economico di operazioni poste in essere da legali rappresentanti della Fondazione, per alcuni delitti di bancarotta fraudolenta per distrazione in danno della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor, ammessa al concordato preventivo con decreto 27 ottobre 2011 del Tribunale di Milano.
2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, a mezzo dei proprio difensore, lamentando:
a) una violazione di legge e un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta applicabilità delle norme penali in tema di bancarotta al concordato preventivo, a seguito della modifica di cui alla novella della legge 80/2005;
b) una violazione di legge e un vizio di motivazione sul punto dell’applicabilità delle norme penali al concordato preventivo che abbia quale presupposto finanziario la mera crisi dell’impresa non derivante da insolvenza;
c) una violazione di legge e un vizio di motivazione in ordine all’applicazione di una misura cautelare in costanza di concordato preventivo, in violazione della disposizione di cui all’articolo 238 L.Fall.;
d) una violazione di legge e un vizio di motivazione in ordine alla omessa indicazione del delitto presupposto del delitto di cui all’articolo 648 bis cod.pen., contestazione alternativa effettuata dal GIP;
e) una violazione di legge e un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari nascenti dal pericolo di fuga e del pericolo di reiterazione del reato.
3. Risulta, altresì, depositato un motivo aggiunto di ricorso che evidenzia una violazione di legge e una illogicità della motivazione in merito alla sussistenza degli indizi di un concorso nei contestati delitti di bancarotta.
4. Risulta, infine, proposta all’udienza avanti questa Corte questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione, della novella di cui alla legge 80/2005 nella parte in cui ha introdotto la possibilità di ricorrere alla procedura di concordato preventivo anche in caso di ‘crisi’ dell’azienda e non soltanto in caso d’insolvenza.
Considerato in diritto
1. Il ricorso merita accoglimento per quanto di ragione.
2. Alla luce di un recente intervento delle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. Sez. Un. 30 settembre 2010 n. 43428) in tema di modifiche dell’istituto del concordato preventivo e loro incidenza in campo penale devono premettersi alcune considerazioni in punto di diritto.
La compresenza nell’istituto del concordato preventivo di componenti privatistiche e pubblicistiche non può dirsi superata a seguito delle sensibili modifiche della sua disciplina intervenute in anni recenti (in forza, in particolare, del D.L. 14 marzo 2005; n. 35, convertito in L 14 maggio 2005, n. 80, e del D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169).
Le principali novità progressivamente introdotte sono, innanzitutto, costituite dalla modificazione dei presupposto di accesso alla procedura, ora individuato nello stato di crisi dell’impresa, la cui nozione non è stata, peraltro, definita dal legislatore se non per la precisazione contenuta nell’inedito comma 2, del nuovo testo della L. Fall., articolo 160, introdotto dal D.L. n. 273 del 2005 (convertito in L. n. 51 del 2006), secondo il cui ultimo comma ‘per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza’.
Lo stato d’insolvenza è rimasto, dunque, presupposto della procedura concorsuale, ancorché la suddetta allargata formula normativa lasci intendere che alla stessa possa accedere anche l’imprenditore che versi in una situazione di difficoltà non ancora identificabile con quella di dissesto.
Il che evoca sia situazioni in cui l’impresa versi nell’impossibilità di adempiere le obbligazioni in scadenza, sia situazioni di squilibrio irreversibile, sia situazioni in cui è agevolmente pronosticabile il verificarsi, nell’immediato, di uno di tali inconvenienti.
Ciò vale, incidenter tantum, a ritenere non condivisibile l’eccezione di non conformità della suddetta normativa al principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, sollevata nell’interesse del ricorrente, posto che rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad poenam situazioni concretamente diverse ma aventi in comune la medesima finalità della tutela dei creditori a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilitato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni.
L’amministrazione controllata aveva, a sua volta, come finalità primaria il risanamento dell’impresa e il ripristino della sua solvibilità o, meglio, il recupero della solvibilità in conseguenza del risanamento dell’impresa, non aveva natura liquidatoria né effetto immediatamente satisfattivo delle pretese creditorie ma, per così dire, dilatorio, nel senso che il debitore era obbligato a soddisfare integralmente tali pretese dopo la chiusura della procedura, se il risanamento finanziario fosse stato conseguito.
La struttura normativa del concordato preventivo, viceversa, prescinde da qualsiasi idea di necessaria protrazione dell’attività imprenditoriale ed è orientata ad assicurare effetti meramente liquidativi dei crediti attraverso qualsiasi forma ma in misura, di norma, falcidiata.
In secondo luogo, la riforma ha provveduto all’eliminazione, nell’articolo 160 L. Fall., dei requisiti di meritevolezza per l’ammissione alfa procedura, nonché all’esclusione di qualsiasi sindacato giudiziale sul merito della proposta di concordato preventivo, la cui omologazione, ai sensi del nuovo articolo 180 L. Fall., avviene ora per decreto sulla base della mera verifica del raggiungimento delle maggioranze prescritte nell’adunanza dei creditori e della regolarità formale della procedura seguita.
Al debitore viene concessa una più ampia autonomia nella scelta dei contenuti del piano concordatario e la possibilità di suddividere i creditori in classi omogenee (all’interno delle quali devono essere raggiunte autonome maggioranze in sede di deliberazione del concordato) cui proporre anche trattamenti differenziati e viene invece richiesto, dal nuovo testo dell’articolo 161 L. Fall., di asseverare la proposta attraverso la relazione di un professionista che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario.
La continuità tra concordato e fallimento, in qualche modo spezzata dal mutamento del presupposto per l’instaurazione della concorsualità, è stata poi ulteriormente ridimensionata.
Infatti, il D.L. n. 35 del 2005, e la L. n. 80 del 2005, hanno eliminato dalla L. Fall., articolo 180, qualsiasi riferimento all’automatismo della conversione del concordato preventivo in fallimento (facendo però salve le ipotesi in qualche modo ‘sanzionatorio’ tuttora previste dalla L. Fall., articolo 173), affidando la stessa conversione all’iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero, nonché alla previa verifica dello stato d’insolvenza.
Alla luce del contenuto delle modifiche illustrate non v’è dubbio che la riforma si sia mossa nella direzione dell’esaltazione del profilo negoziale dell’accordo intervenuto tra l’imprenditore e i suoi creditori e del contestuale ridimensionamento degli aspetti processuali dell’istituto.
La natura del concordato ‘riformato’ appare connotata ormai da una prevalenza di elementi privatistici, che denunciano la volontà di contrarre l’intervento statuale nella procedura anticipatola, rafforzando invece il ruolo di protagonisti di debitore e creditori.
Da ultimo va ricordato che la L. Fall., articolo 236, il cui comma 2, n. 1, estende, in caso di concordato preventivo agli amministratori; direttori generali, sindaci e liquidatori di società le incriminazioni di cui ai precedenti articoli 223 e 224 (relativi ai reati propri dei medesimi soggetti), non ha subito, per quanto qui interessa, modifica alcuna.
La lettura del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, articolo 236, comma 2, n. 1, chiarisce che ‘nel caso di concordato preventivo, si applicano le disposizioni degli articoli 223 e 224 (della stessa legge) agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società’.
Norma che, quindi, rende applicabili le disposizioni sulla bancarotta impropria, quella commessa, cioè, dagli amministratori di società, alla ipotesi di concordato preventivo avendo parificato, quanto agli effetti penali, il decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento.
3. È, inoltre, giurisprudenza da tempo consolidata che le fattispecie penalmente sanzionate nella formulazione della norma fallimentare, si realizzino indipendentemente dalla eventuale successiva dichiarazione di fallimento: infatti, parificando il decreto di ammissione al concordato preventivo (e, prima della recente riforma di cui alla L. 14 maggio 2005, n. 80 ed al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, all’amministrazione controllata), non si è voluto che gravi comportamenti verificatisi prima, e anche in assenza, del fallimento restassero impuniti, sicché esso viene ad assumere la stessa funzione e a svolgere la stessa efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento nelle ipotesi ordinarie di bancarotta (v, di recente, Cass. Sez. V 18 settembre 2007 n. 39307 e 2 marzo 2011 n. 15061).
Il legislatore, con norma espressa, ha poi consentito, ai soli fini procedimentali, di ‘anticipare’ l’iniziativa del Pubblico Ministero, rispetto ai termini ‘naturali’ propri del diritto penale sostanziale.
La L. Fall., articolo 238, comma 2 è, infatti, norma che permette (in deroga a quanto previsto dal precedente comma) uno scollamento tra la consumazione del reato e la sua persecuzione giudiziale.
L’esercizio ‘anticipato’ dell’attività processuale è, comunque, imposta al Pubblico Ministero, nell’ambito rigidamente circoscritto da tre limitazioni: tipologia della fattispecie (la norma accenna testualmente alla L. Fall., soli articoli 216, 217, 223, 224, riferimento che, per quanto riguarda i casi di restrizione della libertà, non può che avere carattere tassativo); le ipotesi della L. Fall., precedente articolo 7, o altro grave motivo; il già esistente o il contemporaneo inoltro dell’istanza di fallimento).
La norma, come riconosciuto dall’unanime dottrina, rappresenta una deroga ai principi generali, consentendo l’esercizio della attività repressiva penale prima della dichiarazione di fallimento e, quindi (per quanti aderiscono alla giurisprudenza della Corte di Cassazione) in epoca antecedente alla consumazione del delitto.
La ragione della disposizione è agevolmente rinvenibile nella esigenza di interrompere comportamenti la cui protrazione, alta luce della già maturata insolvenza, renda definitivo o più dannoso l’esito della condotta delittuosa, atteso quello che si prospetta come inevitabile ed imminente perfezionamento del momento consumativo.
Da tanto discende che il legislatore ha dato rilevanza, per i limitati (ma per nulla irrilevanti) fini di ordine processuale, non già al fatto illecito, completo in tutti i suoi elementi, bensì anche soltanto a meri profili di probabile lesione agli interessi dei creditori, in seno ad una condotta che è ancora carente del crisma giudiziale dichiarativo dell’insolvenza (ed indefettibile premessa alla procedura concorsuale).
Al contempo, questa Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile in siffatto contesto l’emissione di misure cautelari, non avendo evidentemente considerato che la mancata consumazione del delitto si risolvesse in una ostacolo incompatibile con la nozione di ‘gravi indizi di colpevolezza’, quali richiesti dall’articolo 273 cod. proc. pen., comma 1 (v. Cass. Sez. V 19 dicembre 2005 n. 8363 e 16 aprile 2007 n. 21288).
4. Quanto fin qui espresso rende quasi integralmente condivisibile la motivazione del Giudice dell’impugnata ordinanza.
Infatti, anche la sussistenza delle esigenze cautelari è stata logicamente evidenziata nella parte finale della motivazione dell’impugnata ordinanza e corrisponde ai parametri fissati dalla legge (articolo 274 cod. proc. pen.), così come interpretati dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte.
Invero, in tema di misure cautelari personali, le tre esigenze cautelari relative al pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e di reiterazione del reato, non devono necessariamente concorrere, bastando anche l’esistenza di una sola di esse per fondare la misura (v. Cass. Sez. VI 12 dicembre 1995 n. 4829).
5. Quello che la Corte ritiene, però, meritevole di un esame più approfondito è l’aspetto, che non risulta concretamente sviluppato dai Giudici del merito, dell’esistenza del dolo del concorrente extraneus nell’ambito del contestato reato proprio di bancarotta per distrazione.
Oggetto della presente vicenda è, infatti, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, in capo al percettore quale concorrente extraneus nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, di determinate somme versate dall’imprenditore che, successivamente, sia stato ammesso al concordato preventivo.
Questa Corte ha già sottolineato che, se è di massima legittimo ipotizzare il concorso del terzo percipiente nel reato dell’imprenditore fallito, occorre, tuttavia, che non sia posta in dubbio la sua conoscenza dello stato di decozione dell’impresa da cui il denaro proviene (v. oltre le citate Cass. Sez. V 22 aprile 2004 n. 23675 e 27 ottobre 2006 n. 41333 da ultimo, sempre Cass. Sez. V 23 marzo 2011 n. 16388 e 26 aprile 2011 n. 27367).
Invero, il tratto saliente della nozione di ‘distrazione fraudolenta’ in sé comporta la consapevole ed ingiustificata esposizione a repentaglio delle ragioni dei creditori.
La configurazione dell’elemento psicologico è agevole se riferita alla posizione dell’imprenditore: per costui è del tutto logico supporre la conoscenza della consistenza dei proprio patrimonio: dunque, anche dei meccanismi produttivi di profitto nonché dei possibili benefici che l’impiego di denaro può procurare alle sorti dell’impresa, nonché del limite oltre il quale l’uscita di ricchezza rappresenta un serio rischio di insolvenza.
Per questo versante è corretto ritenere completa la rappresentazione della propria realtà economica e sufficiente ad integrare la penale responsabilità, pertanto, con la dimostrazione di un dolo generico.
Ma così non può dirsi per chi, non disponendo di una completa valutazione di questo compendio informativo, non necessariamente ricavi dal dato di uscita del denaro un giudizio di concreto e serio repentaglio agli interessi creditori, tanto più se il versamento sia finalizzato ad un (fondatamente) sperato e perseguito incremento della produttività e di profitto (esito che, se raggiunto, elide il danno da reato).
Dunque, per la corretta valutazione della posizione dell’extraneus, il Giudice deve giovarsi di una rigorosa dimostrazione del sufficiente contenuto rappresentativo dell’elemento psicologico, focalizzato sul concreto rischio di insolvenza, anche se non qualificato da una specifica volontà di cagionare danno ai creditori dell’imprenditore.
Il che non è avvenuto nel caso di specie, avendo il Tribunale a quo omesso di motivare in ordine alla consapevolezza in capo all’odierno ricorrente dello stato di ‘grave crisi’ della Fondazione da cui aveva ricevuto le cospicue somme di denaro indicate nel capo d’imputazione.
Il ricorso va, in definitiva, accolto, ogni altro motivo assorbito e l’impugnata ordinanza annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Milano.
P.T.M.
La Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Milano.
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