Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 26 agosto 2015, n. 35724
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 21 febbraio 2013, ha confermato la sentenza del Tribunale di Ancona, Sezione Distaccata di Jesi del 15 giugno 2011, con la quale L.A. era stato condannato per il delitto di violazione di domicilio aggravata dalla violenza sulle cose (articolo 614 primo e quarto comma cod.pen.).
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato lamentando, a mezzo del proprio difensore:
a) la nullità della impugnata sentenza, a cagione della nullità dell’ordinanza dibattimentale 21 febbraio 2013 con la quale era stato nominato all’imputato in luogo del difensore di fiducia, impossibilitato a presenziare per motivi fisici come da istanza trasmessa a mezzo fax alle ore 22.45 del giorno precedente, un difensore ai sensi dell’articolo 97 comma 4 cod.proc.pen.;
b) una violazione di legge processuale in considerazione del rigetto delle eccezioni con le quali:
1) era stata evidenziata la nullità della notifica del decreto di citazione a giudizio in primo grado effettuata ai sensi dell’articolo 161 comma 4 cod.proc.pen. presso il difensore che aveva dichiarato di non accettare notifiche ai sensi dell’articolo 157 comma 8 bis cod.proc.pen.;
2) era stata evidenziata l’inammissibilità della lista dei testi del P.M. per tardività del deposito;
3) era stata dichiarata chiusa l’istruttoria dibattimentale senza l’esame, già ammesso, dell’imputato;
c) una violazione di legge e la carenza di motivazione in ordine all’affermazione della propria penale responsabilità con particolare riferimento alla qualificazione giuridica dell’ascritto reato.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2. Quanto al primo motivo, il deposito dell’istanza di rinvio e l’omessa pronuncia su tale istanza risultano dagli atti, che la Corte può conoscere in quanto Giudice del fatto nelle questioni procedurali.
In diritto, si afferma come l’omessa valutazione dell’istanza di rinvio, quando poi il processo venga di fatto celebrato senza l’effettiva partecipazione del difensore istante o di sostituto da lui nominato, determina difetto di assistenza dell’imputato, con la conseguente nullità assoluta di cui all’articolo 178 cod.proc.pen., lett. e) e articolo 179 cod.proc.pen., comma 1 (v. per tutte, Cass. Sez. VI 14 ottobre 2009 n. 42110).
Va, però, considerato, come ricavabile dallo stesso ricorso che ha allegato copia dell’istanza di rinvio, come la stessa sia stata inviata a mezzo fax alle ore 22.45 del giorno precedente l’udienza di comparizione avanti la Corte territoriale e che l’invio sia stato fatto non alla Corte ma alla Cancelleria Penale dell’Ufficio Dibattimentale del Tribunale di Ancona- Sezione Distaccata di Senigallia.
Il ricorrente, in definitiva, non ha adempiuto all’onere di pronta comunicazione del legittimo impedimento sia in senso temporale (tarda serata del giorno prima dell’udienza) che in senso spaziale, avendo inviato l’istanza ad altro Ufficio Giudiziario, con ciò violando la disposizione del comma 5 dell’articolo 420 ter cod.proc.pen..
Non poteva, in sostanza, la Corte territoriale dire alcunché in merito ad un’istanza non solo non prontamente comunicata ma neppure alla stessa direttamente inviata.
3. Quanto agli altri motivi in rito si osserva come la giurisprudenza di legittimità abbia affermato che il rifiuto del difensore di accettare notifiche, per essere valido, debba essere enunciato o contestualmente all’atto di nomina o, con comunicazione diretta all’autorità procedente, subito dopo, ma sempre prima della notifica di un atto (v. tra le tante Cass. Sez. Ili 20 settembre 2007 n. 41063).
Tale giurisprudenza è conforme allo spirito della norma e allo scopo per il quale è stata introdotta la modifica legislativa (Legge 22 aprile 2005 n. 60) e cioè quello di realizzare la ragionevole durata del processo. Deve infatti osservarsi che, aspettare la prima notifica per verificare la volontà o meno del difensore di fiducia di accettare le notifiche per conto del proprio assistito, è certamente foriero di ritardi e dilazioni incompatibili con l’avverbio “immediatamente” utilizzato dalla norma. Con la conseguenza che, se anche non è necessario che tale rifiuto sia contestuale alla nomina, deve però intervenire subito dopo e del tutto indipendentemente dalla notifica di un qualche atto. (v. Cass. Sez. I 30 gennaio 2008, n. 6068).
Nella specie il ricorrente non contesta la motivazione della Corte territoriale, che ha affermato, per rigettare l’eccezione, come la dichiarazione espressa di non accettare le notifiche all’imputato ex articolo 157 comma 8 bis cod.proc.pen. fosse stata depositata all’udienza del 4 maggio 2011 mentre la notifica del decreto di citazione a giudizio era avvenuta il precedente il 28 febbraio 2011 ma che vi fosse stata, già nella fase delle indagini preliminari il 24 gennaio 2011, una precedente dichiarazione di nomina con rifiuto di ricevere le notifiche.
Tale contestazione, in ogni caso, non coglie nel segno.
Invero, secondo parte della giurisprudenza: “l’impossibilità della notificazione al domicilio eletto che ne legittima l’esecuzione presso il difensore di fiducia, secondo la procedura prevista dall’articolo 161 cod.proc.pen., comma 4 e articolo 157 cod.proc.pen., comma 8 bis, può essere integrata anche dalla temporanea assenza dell’imputato, al momento dell’accesso dell’ufficiale notificatore, senza che sia necessario procedere ad attestata verifica di vera e propria irreperibilità, così da qualificare come definitiva l’impossibilità alla ricezione degli atti nel luogo dichiarato o eletto dall’imputato, considerati gli oneri imposti dalla legge a quest’ultimo, ove avvisato della pendenza di un procedimento a suo carico, e segnatamente l’obbligo, ex articolo 161 cod.proc.pen., comma 4, di comunicare ogni variazione intervenuta successivamente alla dichiarazione o elezione di domicilio, resa all’avvio della vicenda processuale” (v. Cass. Sez. V 21 aprile 2011 n. 22745 e Sez. VI 27 settembre 2011 n. 42699).
Questa Corte, tuttavia, ritiene di dovere confermare il tradizionale indirizzo cosi come già affermato dalla Corte territoriale per disattendere l’eccezione sollevata dal ricorrente.
Innanzitutto, il concetto di impossibilità della notifica non può essere equiparato a quello di irreperibilità. Sul punto, è sufficiente rilevare che lo stesso articolo 159 cod.proc.pen. prevede una complessa procedura solo all’esito della quale si può emettere il decreto di irreperibilità. L’irreperibilità è quindi, una nozione che, stante la maggiore pregnanza e la solennità che deriva dalla necessità di emettere il relativo decreto, non è assimilabile alla nozione di impossibilità della notifica. La nozione di impossibilità della notifica, si può desumere dallo stesso articolo 161 cod.proc.pen., comma 4 il quale è cosi strutturato: nella prima parte, si enuncia la nozione di “notificazione impossibile” della quale, però, il legislatore non ha ritenuto opportuno fornire alcuna nozione. Nella seconda parte, il comma 4, dispone che si proceda allo stesso modo (notifica al difensore) quando “la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee”. Infine, nella terza parte, il quarto comma, dispone che “quando risulta che, per caso fortuito o forza maggiore, l’imputato non è stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto, si applicano le disposizioni degli articoli 157 e 159”.
Ora, ove si legga il suddetto comma in modo unitario, si può allora desumere che:
a) la prima ipotesi di “notificazione impossibile” è quella prevista nella seconda parte del comma 4, ossia quando “la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee”;
b) la seconda ipotesi di “notificazione impossibile” è quella desumibile, con lettura a contrario, dalla terza parte del comma 4: infatti, ove l’imputato abbia mutato il proprio domicilio e non risulti che si sia trovato in una condizione di caso fortuito o di forza maggiore, allora ci si trova in un’altra ipotesi di “notificazione impossibile”.
Quanto appena detto, consente, quindi, di condividere la giurisprudenza maggioritaria di questa Corte secondo la quale, per ritenere che la notificazione sia divenuta impossibile, non basta la semplice attestazione dell’ufficiale giudiziario di non aver trovato l’imputato, ma occorre un quid pluris che si sostanzi in un accertamento che l’ufficiale giudiziario deve eseguire in loco e solo a seguito del quale, ove l’elezione di domicilio sia mancante o insufficiente o l’imputato risulti essersi trasferito altrove, è possibile attivare la seconda fase della procedura notificatoria di cui all’articolo 161 cod.proc.pen., comma 4 ossia la notifica presso il difensore.
Il che è quanto avvenuto nella specie come evidenziato in punto di fatto nell’impugnata sentenza alle pagine 7 e 8 della motivazione.
Sempre in rito, secondo i principi enunciati da questa Corte, l’ammissione di prove non tempestivamente indicate dalle parti nelle apposite liste o indicate in modo generico quanto all’oggetto, non comporta alcuna nullità, né le prove in questione, dopo essere state assunte, possono essere considerate inutilizzabili, posto che l’articolo 507 cod.proc.pen. consente al Giudice di assumere d’ufficio anche prove irregolarmente indicate dalle parti, ed in ogni caso non sussiste un divieto di assunzione che possa attivare la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’articolo 191 cod.proc.pen. (v. Cass. Sez. VI 9 marzo 2005 n. 9214; v. altresì, Cass. Sez. VI 14 marzo 2003 n. 17651 per cui il Giudice può esercitare il potere riconosciuto dall’articolo 507 cod.proc.pen. “anche quando non vi sia stata in precedenza alcuna acquisizione di prove, in quanto l’espressione “terminata l’assunzione delle prove” sta ad indicare il momento processuale in cui il giudice può esercitare i propri poteri istruttori e non un presupposto per tale esercizio”).
Con riferimento, inoltre, alla prova testimoniale richiesta dall’imputato ed ammessa dal Giudice di primo grado ma poi non espletata, va detto come, ai sensi degli articoli 190 cod.proc.pen., comma 3 e 495 cod.proc.pen,, comma 4, il Giudice abbia certamente il potere di revocare prove già ammesse quando le ritenga superflue e le parti abbiano il potere di rinunciarvi (v. Cass. Sez. V 27 maggio 2008 n. 35986).
Nel primo caso il Giudice deve sentire le parti, mentre nel secondo è necessario il consenso anche dell’altra parte.
Orbene, va detto che la presenza delle parti in dibattimento non è una presenza meramente passiva, ma, con il nuovo processo, è una presenza particolarmente intensa specialmente nella fase dibattimentale, ove il contraddittorio delle parti ne esalta il ruolo. Cosicché le parti processuali presenti al dibattimento non possono interloquire soltanto quando siano specificamente interpellate dal Giudice su specifiche questioni ma debbano far valere gli interessi del proprio assistito con i poteri che il Codice loro concede. Quindi, nel momento in cui il Giudice di primo grado abbia dichiarato chiusa la fase istruttoria, ritenendo evidentemente la istruttoria espletata completa e la causa matura per la decisione, ed abbia invitato le parti alla discussione ed a rassegnare le conclusioni, le parti interessate ben avrebbero potuto sollecitare l’assunzione dei testimoni non escussi, assunzione ancora possibile. In effetti, l’invito alla discussione non è altro che il modo scelto dal Giudice di sentire le parti in ordine all’andamento ed allo sviluppo dell’istruttoria dibattimentale ed alla sua completezza nonché alla discussione sulle prove raccolte e su quelle eventualmente non espletate. In tale momento le parti avrebbero potuto e dovuto far valere le proprie ragioni, anche in ordine alla presunta incompletezza della istruttoria dibattimentale, dal momento che al termine della discussione il Giudice può anche, melius re perpensa, non emettere sentenza, ma riprendere la istruttoria dibattimentale interrotta (v. anche Cass. Sez. IV 3 febbraio 2004 n. 12589).
Nella specie le parti, all’atto della chiusura dell’istruzione dibattimentale, nulla avevano detto in proposito.
4. Quanto al merito, il relativo motivo si sostanzia in una indebita rivisitazione delle risultanze probatorie e perché non è possibile più svolgere tale attività avanti questa Corte di legittimità; trattasi inoltre di doglianza che, per un verso, passa del tutto sotto silenzio la pur esistente motivazione offerta sul punto dalla Corte territoriale che vale a sanare l’eventuale mancanza o insufficienza della motivazione della sentenza di primo grado e, per altro verso, non vale a scalfire la granitica giurisprudenza di questa Corte in tema di c.d. doppia conforme; giova rammentare, in punto di diritto e in via generale, come in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trovi dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento possa essere rilevato in sede di legittimità, ex articolo 606 cod.proc.pen., comma 1, lett. e), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (v. Cass. Sez. IV 10 febbraio 2009 n. 20395).
Inoltre, pur dopo la nuova formulazione dell’articolo 606 cod.proc.pen., lett. e), novellato dalla Legge 20 febbraio 2006, n. 46, articolo 8, il sindacato del Giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia:
a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;
b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica;
c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;
d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per Cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico.
Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che, per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione, siano in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del Giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.
Il Giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.
Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi, anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del Giudice.
Al Giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal Giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.
Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo Giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai Giudici di merito rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal Giudice per giungere alla decisione.
La Corte territoriale, con accertamento in fatto incensurabile in questa sede, ha affermato che l’imputato mediante la forzatura del portone d’ingresso era entrato nello stabile condominiale ove era situato l’appartamento della parte offesa.
Da tale accertamento ha fatto logicamente discendere, sia per la contrarietà della parte offesa che altrimenti avrebbe consentito liberamente l’accesso alla propria abitazione che per i danni cagionati all’immobile condominiale mediante il danneggiamento del portone d’ingresso, l’affermazione della penale responsabilità per l’ascritto reato di violazione di domicilio aggravata dalla violenza delle cose.
La violenza sulle cose, quale circostanza aggravante del reato di violazione di domicilio e sulla base dell’indicazione legislativa contenuta nell’articolo 392 cod.pen., può consistere anche nel semplice danneggiamento della cosa (fattispecie relativa a ritenuta sussistenza dell’aggravante per danneggiamelo di porta di abitazione a seguito di pressione per forzarne l’apertura v. Cass. Sez. V 25 gennaio 1989 n. 5396).
Del tutto generico e palesemente infondato è, poi, il riferimento alla fattispecie di cui all’articolo 639 cod.pen..
Il reato di danneggiamento di cui all’art. 635 cod. pen. si distingue, sotto il profilo del “deterioramento”, da quello di deturpamento o imbrattamento previsto dall’art. 639 cod. pen. perché mentre il primo produce una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa, il secondo produce solo un’alterazione temporanea e superficiale della “res” il cui aspetto originario, quindi, quale che sia la spesa da affrontare, è comunque facilmente reintegrabile (v. per tutte Cass. Sez. II 10 maggio 2002 n. 22370).
Nella specie quello che rileva è l’intento del ricorrente che non aveva coscienza e volontà di deturpare il portone d’ingresso dello stabile condominiale né di danneggiarlo semplicemente ma di forzarlo per accedere invito domina all’abitazione della sorella.
5. Per concludere, dal rigetto del ricorso deriva l’obbligo del ricorrente del pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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