Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 13 dicembre 2013, n. 50586
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Bergamo, con sentenza del 24/10/2012, a conferma di quella emessa dal locale Giudice di pace, ha condannato G.C. , sindaco del comune di S, per minaccia nei confronti di S.R. .
Alla base della resa statuizione vi sono le dichiarazioni della persona offesa, giudicate coerenti e credibili, nonché della teste B.I. , da cui è stato evinto che il sindaco, irritato verso la S. (che si era recata in comune per esporre un problema di rilevanza pubblicistica), la apostrofò dicendole: “adesso capisco perché vivi male e attenta a come ti muovi perché ti troveranno attaccata a un palo”.
2. Ha presentato personalmente ricorso per Cassazione l’imputata avvalendosi di sei motivi.
Col primo lamenta l’erronea applicazione dell’art. 612 cod. pen. sotto il profilo oggettivo. Dopo aver ricostruito, sulla base delle dichiarazioni di testi e persona offesa, il contesto dell’azione asseritamente delittuosa, contesta il carattere minatorio delle espressioni utilizzate nell’occasione, siccome inidonee a turbare la libertà psichica della persona offesa.
Col secondo denuncia la violazione dell’art. 612 cod. pen., in relazione all’art. 43, comma 1, cod. pen., sotto il profilo soggettivo. Lamenta che le sia stata attribuita intenzione offensiva sulla sola base dell’oggettiva idoneità della condotta ad incutere timore, prescindendo dalla consapevole volontà di minacciare un danno ingiusto.
Col terzo lamenta l’erronea applicazione dell’aggravante dell’art. 61, n. 9, cod. penale, in quanto, deduce, la discussone ebbe ad oggetto questioni di carattere personale, che non riguardavano in alcuna maniera la pubblica funzione esercitata. Illogica è pertanto la motivazione contenuta in sentenza, che fonda l’applicazione dell’aggravante sulla circostanza che la S. e l’amica si erano presentate in comune “per questioni di rilevanza pubblicistica”. Col quarto lamenta il travisamento delle dichiarazioni di M.E. , il quale avrebbe dichiarato di non ricordare la presenza in municipio di S.R. nella giornata del 14/5/2005, e non che non avrebbe udito la discussione tra l’imputata e la S. .
Col quinto si duole della ritenuta credibilità della persona offesa, affermata senza un esame critico delle sue dichiarazioni e in assenza di riscontri esterni alle sue dichiarazioni. Contesta altresì l’affidabilità dell’altro teste menzionato in sentenza (B.I. ). Col sesto si duole dell’assenza di prova del danno.
Considerato in diritto
Tutti i motivi di ricorso sono manifestamente infondati, per cui il ricorso va dichiarato inammissibile.
1. Nessuna violazione di legge è stata consumata col ritenere minatorie le espressioni utilizzate dall’imputata. Per logica e senso comune, infatti, la prospettiva di essere “attaccati a un palo” è idonea suscitare un senso di timore e di angoscia che turba l’animo della persona cui viene evocata una tale eventualità. E anche se l’immagine fosse figurata non c’è dubbio che essa evochi comunque un male notevole, idoneo ad intaccare lo stato di tranquillità individuale, da cui dipende il benessere psichico della persona, specie in considerazione della sua rappresentazione da un soggetto investito di funzioni pubbliche, e quindi dotato di notevole potere condizionante, e del contesto -conflittuale – in cui è maturata. Né questa conclusione è intaccata dalle asserzioni della ricorrente, secondo cui la S. non rimase affatto turbata dall’espressione, giacché – oltre a fondarsi su dati inconferenti: la S. continuò a recarsi in comune per far valere le sue pretese – si tratta di lettura personalissima, che non offusca il carattere minatorio dell’espressione. Legittimamente, pertanto, i giudici di merito hanno ravvisato la sussistenza del reato dal punto di vista oggettivo.
2. Nessun fondamento hanno, parimenti, le critiche che riguardano l’elemento soggettivo del reato, che è integrato dalla consapevole volontà di provocare l’intimidazione del soggetto passivo, senza che sia necessario che in tale volontà sia compreso il proposito di tradurre in atto il male minacciato: consapevolezza che, del tutto logicamente, è stata desunta dalla intensità della minaccia e dall’atteggiamento che l’ha accompagnata (la persona offesa fu messa alla porta dall’imputata).
3. Assertiva e indimostrata è l’affermazione – rivolta ad escludere la ricorrenza dell’aggravante di cui all’art. 69, n. 9, cod. pen. – che la discussione ebbe ad oggetto questioni di carattere personale (terzo motivo di ricorso). La sentenza impugnata, sulla base delle dichiarazioni della persona offesa e del teste B. , non smentite dalle deposizioni degli altri testi esaminati, ha chiaramente ricollegato la minaccia alle questioni poste dalla vittima all’attenzione del sindaco, per le quali si era recata in municipio. La stessa ricorrente, peraltro, conferma che la S. si era recata da lei perché qualcuno stava “asportando il ciglio stradale” nella zona adiacente alla sua abitazione (e quindi per motivi inerenti alle funzioni svolte dall’imputata), anche se, aggiunge, la discussione proseguì in un momento successivo per questioni di carattere privato. Ma anche tale circostanza – peraltro argomentata col richiamo di dichiarazioni estrapolate dal loro contesto e di discutibile interpretazione, che questa Corte non conosce e non può visionare – non escluderebbe la sussistenza dell’aggravante, giacché, se è vero che la prevalente giurisprudenza richiede un nesso di carattere strumentale tra l’abuso e il reato, è stato altresì precisato che l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito fuori dell’ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato (Cass., 1/6/1988, n. 9209). E non c’è dubbio che l’intimidazione fu agevolata, nel caso concreto, dal luogo in cui si svolsero i fatti (il comune di Suisio) e dalla qualità dell’imputata, fatta forte dalla posizione occupata nel Municipio e dalla solidarietà o compiacenza, su cui poteva contare, di dipendenti e collaboratori.
4. Manifestamente infondata è la doglianza concernente la deposizione del teste M. , in ordine alla quale viene dedotto il travisamento della prova. La ricorrente deduce, riportando le dichiarazioni del teste in questione, che quest’ultimo non ricordava di essere stato presente in municipio nella giornata del 14/5/2005 (dichiarazione rese a SIT il 2/10/2005); che non era presente alla discussione avvenuta tra il sindaco e la S. e che non si ricordava della presenza di S.R. , “in quanto vi era un assembramento di gente” (verbale di udienza del 28/10/2010). Ebbene, la sentenza impugnata ha utilizzato le dichiarazioni del M. per affermare che da esse “non possono trarsi elementi di smentita” alla tesi dell’accusa, perché nulla ha detto di significativo, “per non aver udito la discussione, perché vi era un assembramento di persone”. La coincidenza tra quanto riportato dalla ricorrente e quanto riportato in sentenza è totale, per cui il vizio dedotto è insussistente.
5. Il quinto motivo, che fa a pugni col primo e col secondo, è manifestamente infondato, perché non corrisponde a verità che i giudici abbiano omesso la valutazione della credibilità della persona offesa, né che le dichiarazioni di questa siano prive di riscontri, essendo state pienamente confermate da quelle di B.I. . Vero è, invece, che la ricorrente, per “denudare” la versione della S. , liquida sbrigativamente quelle della B. , individuando incongruenze nel racconto di quest’ultima che solo una lettura – inibita a questa Corte – delle dichiarazioni dibattimentali della testimone consentirebbe di apprezzare. Né appare senza significato che nemmeno la ricorrente sia stata in grado di indicare i motivi per cui un soggetto estraneo alla contesa tra le due donne abbia reso false dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria, esponendosi al rischio di incolpazione per falsa testimonianza.
6. Manifestamente infondato, infine, è l’ultimo motivo di ricorso, concernente la prova del danno, che è insito nel turbamento psichico determinato dalla minaccia e non è suscettibile di nessuna Obiettiva» dimostrazione, a meno di non trasformare la prova del danno da minaccia nella prova diabolica di un’entità impalpabile, refrattaria – salvo i casi di minaccia devastante, capace di sconvolgere stabilmente la psiche della vittima – ad ogni verifica sperimentale Vero è, invece, che il turbamento suddetto genera un danno di natura morale, che deve necessariamente sopportare una determinazione equitativa.
Il ricorso è pertanto inammissibile. Consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo quantificare in Euro 1 000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 a favore della Cassa delle ammende.
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