Oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico. In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato. La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell’offesa della reputazione. È dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. In tal senso la divulgazione di fatti non veritieri concernenti la vita di quest’ultimo può non determinare automaticamente tale lesione, giacché quelli attribuiti possono risultare indifferenti per l’integrità della sua reputazione. Ciò però non dipende esclusivamente dall’oggettiva natura del fatto divulgato, ma altresì delle implicazioni che la sua divulgazione assume in ragione delle qualifiche soggettive della persona cui viene accostato.

Suprema Corte di Cassazione

sezione V penale

sentenza 31 gennaio 2017, n. 4672 

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Roma ha confermato la condanna, anche agli effetti civili, di F.M.E. per il reato di diffamazione a mezzo stampa e di M.P. , nella sua qualità di direttore responsabile della testata su cui venne pubblicato l’articolo diffamatorio, per quello di omesso controllo ex art. 57 c.p. La vicenda riguarda la pubblicazione sulle pagine romane di un noto quotidiano nazionale di un articolo nel quale veniva affermato che de K.C.F. , all’epoca Presidente della Repubblica (omissis), mentre si trovava nella capitale italiana per partecipare ad un vertice della FAO sull’emergenza alimentare, si sarebbe dedicata a costosi acquisti di beni di lusso in alcuni negozi romani ed altre attività mondane. Fatti che i giudici di merito hanno ritenuto non essere effettivamente avvenuti e il cui addebito doveva considerarsi lesivo della reputazione della persona offesa.
2. Avverso la sentenza ricorrono gli imputati con unico atto a mezzo del comune difensore articolando sei motivi.
2.1 Con il primo viene dedotta violazione di legge e correlati vizi della motivazione in ordine alla mancata sospensione del procedimento nei confronti del M. al fine di attendere la decisione del giudice dell’esecuzione – esclusivamente competente a provvedervi – in merito alla rimozione dell’erronea attestazione in calce alla sentenza di primo grado della sua irrevocabilità nei confronti del succitato imputato, peraltro sollecitata dalla stessa Corte territoriale con ordinanza di trasmissione degli atti al Tribunale, poi immotivatamente disattesa.
2.2 Con il secondo motivo vengono denunziati violazione dell’art. 603 c.p.p., mancata assunzione di prove decisive anche sopravvenute e correlati vizi della motivazione. In tal senso i ricorrenti eccepiscono innanzi tutto il difetto assoluto di motivazione in ordine alla istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ad oggetto le prove di cui era stata richiesta l’assunzione al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 507 c.p.p. In secondo luogo lamentano il rigetto in violazione dell’art. 603 comma 2 c.p.p. e sulla base di motivazione manifestamente illogica dell’analoga istanza ad oggetto l’assunzione della testimonianza di G.M.G. e cioè della persona che avrebbe in ipotesi accompagnato la persona offesa ad effettuare gli acquisti di cui trattava l’articolo incriminato e la cui identità – documentata attraverso la produzione della stampa internazionale che si era occupata della vicenda – era stata scoperta solo successivamente alla pronunzia della sentenza di primo grado.
2.3 Con il terzo motivo i ricorrenti deducono violazione dell’art. 192 c.p.p. e vizi della motivazione in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie. In particolare si lamenta il travisamento delle dichiarazioni della F. e della teste Ma. in ordine alla collocazione temporale degli acquisti effettuati presso la gioielleria (…), dato che ha avuto una influenza decisiva, secondo la motivazione della sentenza impugnata, nell’esclusione della eventuale buona fede dell’imputata.
2.4 Errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione vengono rilevati invece con il quarto motivo in merito alla ritenuta idoneità offensiva dell’articolo incriminato, il quale non contiene apprezzamenti negativi sulla personalità della parte civile in grado di lederne la reputazione e rimanendo eventuali profili di lesione della sua immagine o della sua identità estranei all’ambito di tutela della norma incriminatrice contestata.
2.5 Analoghi vizi vengono dedotti con il quinto in merito al mancato riconoscimento dell’esimente dell’esercizio anche solo putativo del diritto di cronaca e di critica, attesa l’attività di verifica della notizia apprestata dalla F. . E sempre gli stessi vizi vengono denunziati anche con il sesto motivo in merito alla ritenuta responsabilità del M. , affermata in maniera apodittica ed in difetto dell’individuazione degli effettivi doveri di controllo cui sarebbe venuto meno e il cui adempimento avrebbe consentito di evitare la pubblicazione dell’articolo rivelando la falsità dei fatti descritti nell’articolo incriminato.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono fondati negli esclusivi limiti di seguito esposti.
2. Il primo motivo, relativo alla sola posizione del M. , è in realtà manifestamente infondato e comunque inammissibile per carenza di interesse.
2.1 Come risulta da Sez. 1 n. 42381 del 25 maggio 2016 – il provvedimento che ha deciso il ricorso del M. avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Roma aveva dichiarato inammissibile l’istanza volta a rimuovere l’attestazione di irrevocabilità erroneamente apposta sulla sentenza di primo grado – il giudice dell’esecuzione adito aveva dato atto che l’errata apposizione dell’attestazione di cancelleria della irrevocabilità della sentenza pronunciata il 2 maggio 2013 nei confronti del M. , invece tempestivamente e ritualmente impugnata, era stata emendata mediante l’annullamento del relativo estratto esecutivo e dell’annotazione al casellario giudiziale, con provvedimento di natura amministrativa. Trattandosi di errore incidente su un mero adempimento amministrativo di carattere interno, esso è stato dunque giustamente corretto in via amministrativa dal competente cancelliere presso il giudice che ha emesso la sentenza, senza la necessità di alcun provvedimento giurisdizionale, non essendo controversa né controvertibile la natura non definitiva della sentenza, né essendovi sul punto alcuna situazione di incertezza da eliminare – anche solo con lo strumento della procedura di correzione di errore materiale – che riguardasse una statuizione contenuta in un provvedimento giudiziale, come per l’appunto statuito dalla Prima Sezione nella citata pronunzia in conformità all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (ex multis Sez. 1 n. 32301 del 3 luglio 2003, Rv. 225119; Sez. 1 n. 44236 del 13 maggio 2014, Rv. 260714).
2.2 Conseguentemente il giudice dell’appello, pur avendo rilevato l’erronea apposizione dell’attestazione, non aveva alcun obbligo di sospendere il procedimento in attesa della decisione del giudice dell’esecuzione adito fuori dai casi consentiti dall’imputato. In ogni caso, anche a prescindere da tale circostanza, alcun interesse vanta lo stesso ad impugnare la decisione della Corte territoriale di respingere l’istanza di sospensione, posto che questa ha ritenuto ammissibile l’appello e dunque attraverso l’annullamento della stessa egli non potrebbe conseguire un risultato più favorevole di quello già conseguito. È perfino superfluo, infatti ricordare come l’interesse richiesto dall’art. 568, comma quarto, c.p.p. come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere concreto e cioè mirare a rimuovere un effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato; pregiudizio che, pertanto, deve persistere sino al momento della decisione (ex multis Sez. Un., n. 7 del 25 giugno 1997, Chiappetta ed altro, Rv. 208165).
3. Inammissibile è anche la prima delle due eccezioni proposte con il secondo motivo, essendo in proposito sufficiente ricordare che il motivo di ricorso per cassazione consistente nella deduzione di mancata assunzione di una prova decisiva può essere proposto solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, comma secondo, c.p.p., sicché esso non può essere validamente invocato quando il mezzo di prova, sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 stesso codice, non sia stato dal giudice ritenuto necessario ai fini della decisione (Sez. 1, n. 16772 del 15/04/2010 – dep. 03/05/2010, Z., Rv. 246932; Sez. 3, n. 24259 del 27 maggio 2010, C., Rv. 24729001). Né il giudice dell’appello è tenuto a spiegare espressamente le ragioni del mancato accoglimento di un’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale proposta ai sensi del primo comma dell’art. 603 c.p.p., potendo in tal senso provvedere – come avvenuto nel caso di specie – motivando sulla completezza della piattaforma probatoria acquisita a fornire l’evidenza della responsabilità dell’imputato. Ed in questo senso è onere della difesa dimostrare la lacunosità dell’apparato giustificativo fondato sulle prove già acquisite. Onere questo non assolto dai ricorrenti.
4. Quanto invece al mancato accoglimento della richiesta proposta ai sensi del secondo comma dell’art. 603 c.p.p. l’eccezione proposta sempre con il secondo motivo deve ritenersi infondata.
4.1 Oggetto della menzionata richiesta istruttoria era in principalità l’audizione di una persona che (sulla base di quanto apparentemente documentato dalla difesa attraverso meri articoli di stampa) in passato avrebbe prestato i propri servigi alla Presidente K. come “personal shopper”. Attraverso tale audizione la difesa – per quanto risulta dalla stessa memoria dell’8 ottobre 2015 con la quale la richiesta istruttoria è stata avanzata – avrebbe dunque voluto dimostrare che gli acquisti di cui tratta l’articolo in contestazione sarebbero stati effettuati per conto della persona offesa dalla menzionata “personal shopper”, la cui presenza a Roma nei medesimi giorni in cui vi soggiornò la K. era peraltro prospettata come una mera ipotesi, da verificare attraverso accertamenti da compiere sulla documentazione contabile relativa ai suddetti acquisti e dell’albergo in cui alloggiava la persona offesa e il suo staff.
4.2 La Corte territoriale ha giustificato il rigetto della suddetta richiesta ritenendo la prova irrilevante. In tal senso i giudici dell’appello hanno fatto corretta applicazione del combinato disposto degli artt. 495 e 190 c.p.p., cui implicitamente rinvia il citato secondo comma dell’art. 603, sostenendo la propria decisione con motivazione che resiste ai rilievi difensivi. Infatti ciò che è contestato alla giornalista non è solo di aver riferito che la persona offesa avesse acquistato beni di lusso, ma altresì che la stessa si sarebbe recata personalmente ad effettuare tali acquisti nel corso di una trasferta di Stato dedicata alla partecipazione ad un vertice sull’emergenza alimentare organizzato da una delle più importanti istituzioni internazionali. In tal senso, una volta raggiunta la prova nel dibattimento di primo grado che la K. non si era mai recata di persona presso i negozi menzionati nell’articolo, è stato correttamente ritenuto ininfluente introdurre il tema relativo all’eventualità che altri potessero aver effettuato a suo nome gli acquisti incriminati, posto che è circostanza estranea all’oggetto della narrazione ritenuta diffamatoria. Generiche sono poi le obiezioni relative all’altra argomentazione spesa dalla Corte territoriale e cioè quella per cui la teste di cui si chiedeva l’assunzione non poteva identificarsi con la fantomatica donna che avrebbe accompagnato la persona offesa nello shopping, risultando infatti meramente assertiva l’affermazione dei ricorrenti per cui la stessa avrebbe origini italiane a dispetto del suo nome.
5. Il terzo motivo è invece nuovamente inammissibile.
5.1 Manifestamente infondata è innanzi tutto la deduzione della violazione di legge con riguardo all’eccepito malgoverno delle regole di valutazione della prova. Poiché la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall’art. 606, comma primo, lett. c) c.p.p., non è infatti ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dei primi due commi dell’art. 192 c.p.p. con riferimento alla valutazione delle prove da parte del giudice, trattandosi di disposizioni la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata (ex multis Sez. 3, n. 44901 del 17 ottobre 2012, F., Rv. 253567).
5.2 Quanto invece ai vizi di travisamento contestualmente dedotti con lo stesso motivo in relazione al medesimo oggetto, deve rilevarsene la genericità, attesa la solo parziale riproduzione delle dichiarazioni della teste Ma. (non riportate o allegate nella loro integralità) che non consentono di apprezzarne l’effettiva portata. Peraltro il brano riprodotto nel ricorso riguarda il momento in cui la teste ricevette la chiamata della F. , mentre la sentenza afferma che ella nel corso della sua deposizione avrebbe affermato di aver riferito alla giornalista che una signora altolocata si era effettivamente recata nel negozio di (…) il 31 maggio – data incompatibile con la presenza della persona offesa a (…) – e non il 2 o il 3 di giugno. Conseguentemente risulta irrilevante l’eventuale travisamento delle dichiarazioni dell’imputata, in relazione alle quali il ricorso rivela comunque analogo difetto di autosufficienza.
6. Infondate sono le censure svolte con il quarto motivo in merito all’offensività del fatto addebitato alla F. .
6.1 Secondo l’elaborazione tradizionale di questa Corte e della dottrina, oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (così tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28 febbraio 1995, Labertini Padovani ed altro, Rv. 20105401). In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato.
6.2 La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell’offesa della reputazione. È dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. In tal senso la divulgazione di fatti non veritieri concernenti la vita di quest’ultimo può non determinare automaticamente tale lesione, giacché quelli attribuiti possono risultare indifferenti per l’integrità della sua reputazione. Ciò però non dipende esclusivamente dall’oggettiva natura del fatto divulgato, ma altresì delle implicazioni che la sua divulgazione assume in ragione delle qualifiche soggettive della persona cui viene accostato.
6.3 I giudici del merito dimostrano di aver fatto buon governo di questi peraltro consolidati principi. Il fatto falsamente attribuito alla persona offesa ha, infatti, perduto la sua apparente neutralità in ragione del ruolo istituzionale ricoperto dalla stessa e dalla descrizione del particolare contesto in cui sarebbe accaduto, accostamento quest’ultimo oggettivamente insidioso per l’integrità della reputazione di un capo di Stato. Quanto al riferimento all’immagine compiuto in sentenza è evidente che il termine è stato utilizzato al fine di rafforzare il concetto di reputazione cui pure è stato accostato, formulando una sorta di endiadi.
7. Manifestamente infondate sono le doglianze formulate con il quinto motivo in ordine al mancato riconoscimento delle esimenti del diritto di cronaca e di critica, entrambe in configurabili in ragione della accertata non veridicità del fatto narrato. Sono invece fondate quelle proposte nell’interesse esclusivo del M. in merito all’apoditticità della motivazione della sentenza sulla ricorrenza dei presupposti per l’affermazione della responsabilità ex art. 57 c.p. del direttore della testata. Ricordato che la responsabilità del direttore responsabile, che, con la sua condotta omissiva, abbia determinato una pubblicazione criminosa, scaturisce, a titolo di colpa e non oggettivamente, dalla violazione dell’obbligo giuridico di impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, deve ribadirsi la sussistenza di uno specifico onere di motivazione in ordine all’effettiva rimproverabilità in concreto del mancato impedimento dell’evento del reato allo stesso addebitato secondo le ordinarie regole di valutazione della colpa. In tal senso il giudice ha l’obbligo di spiegare le ragioni per cui ha ritenuto inidoneo il controllo esercitato dall’agente avendo riguardo al contenuto dell’articolo pubblicato ed al comportamento del suo autore. Spiegazione del tutto assente nel caso di specie, nel quale i giudici del merito hanno desunto la colpa del M. dalla mera pubblicazione dell’articolo diffamatorio.
8. Posto che non tutti i motivi di ricorso sono risultati inammissibili (ed, anzi, l’ultimo proposto nell’interesse del M. è risultato addirittura fondato) deve a questo punto rilevarsi come i reati rispettivamente ascritti agli imputati si siano oramai estinti per prescrizione, essendosi il relativo termine compiuto al più tardi il 4 dicembre 2015, non risultando che lo stesso sia rimasto per qualunque causa sospeso nel corso del procedimento. Agli effetti penali la sentenza deve dunque essere annullata senza rinvio per tale causa, non emergendo nei termini dell’evidenza necessaria, anche in ragione di quanto illustrato in precedenza, i presupposti per il proscioglimento degli imputati ai sensi dell’art. 129 comma 2 c.p.p. Agli effetti civili, stante il rilevato difetto di motivazione con riguardo alla posizione del M. , la sentenza deve invece essere annullata nei suoi confronti con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, mentre agli stessi effetti il ricorso della F. deve essere rigettato e la medesima deve essere dunque condannata alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 1.500, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali nei confronti di M.P. perché il reato a lui ascritto è estinto per prescrizione. Annulla la medesima sentenza agli effetti civili, nei confronti del M. , con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di F.M.E. perché il reato a lei contestato è estinto per intervenuta prescrizione; rigetta il ricorso della medesima F. agli effetti civili e la condanna alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.500, oltre accessori come per legge.

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