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Va ricordato che, come da costante indirizzo di questa Corte, il ricorso per cassazione contro ordinanze in materia cautelare reale e’ consentito, ex articolo 325 c.p.p., comma 1, solo per violazione di legge, sicche’ in tanto lo stesso puo’ legittimamente dirigersi a censurare la motivazione del provvedimento impugnato in quanto questa sia del tutto assente o meramente apparente perche’ sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l’iter logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato, integrando, infatti, una tale fattispecie, la violazione dell’articolo 125 c.p.p.. (cfr., da ultimo, Sez. 6, n.6589 del 10/01/2013, dep. 11/02/2013, Gabriele, Rv. 254893).
Nella specie, l’ordinanza impugnata ha posto in rilievo che, da comunicazione dell’Agenzia delle Entrate relativa alla decadenza della societa’ dal beneficio della rateizzazione del debito tributario per il pagamento di una sola rata, deve ritenersi emersa una situazione di oggettiva illiquidita’ della persona giuridica tale da rendere superfluo il compimento di ulteriori ricerche del profitto del reato, in tal modo, dunque, essendo stata resa motivazione non sindacabile alla stregua del principio appena ricordato; deve in proposito rammentarsi che una preventiva, generalizzata, ricerca dei beni costituenti il profitto del reato non e’ necessaria (Sez. U., n. 10561 del 30/01/2014, dep. 05/03/2014, Gubert, Rv. 258648): e’ infatti sufficiente una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo appunto necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto diretto del reato (Sez.3, n. 41073 del 30/09/2015, dep. 13/10/2015, P.M. in proc. Scognamiglio, Rv. 265028). Ne’ puo’ sindacarsi l’ulteriore affermazione del Tribunale, del resto neppure contrastata in ricorso, secondo cui mancherebbero gli elementi per potere ritenere beni derivati dal profitto (e dunque solo in tal caso sequestrabili in via diretta, essendo invece inibito nei confronti della persona giuridica il sequestro per equivalente salvo il caso di societa’ -schermo) gli immobili intestati alla societa’.
2. Anche il secondo motivo e’ inammissibile.
Pur a volere ritenere deducibile, secondo orientamento di questa Corte, per la prima volta la questione in sede di legittimita’ ed a prescindere da ogni considerazione sulla invocabilita’, con riguardo al reato di cui all’articolo 10 bis cit., del principio del ne bis in idem per effetto della irrogazione di sanzioni di carattere amministrativo riguardanti, nella pretesa del ricorrente, il medesimo fatto, risulta in radice preclusivo il fatto che, come assume lo stesso ricorrente, la sanzione amministrativa sia stata a suo tempo irrogata nei confronti della persona giuridica mentre il sequestro di cui nella specie ci si duole ha attinto i beni dell’imputato – legale rappresentante; al contrario, presupposto necessario del ne bis in idem deve, in ogni caso, essere la coincidenza tra soggetto colpito dalla sanzione amministrativa e soggetto colpito dalla sanzione penale (Sez. 2, n. 13901 del 25/02/2016, dep. 07/04/2016, P.G., Castiglioni, Rv. 266669; Sez. 3, n. 43809 del 24/10/2014, dep. 30/10/2015, Gabbana e altri, Rv. 265118).
3. Manifestamente infondato e’ poi il terzo motivo con cui si invoca una riduzione del valore dei beni sottoposti a sequestro in misura proporzionale a quanto nel frattempo asseritamente pagato: mentre in ricorso non si specificano gli estremi di tale parziale pagamento, il provvedimento impugnato ha, in senso esattamente contrario, dato espressamente atto della circostanza per cui neppure la prima delle rate al cui pagamento la societa’ (e non, peraltro, l’amministratore) e’ stata ammessa e’ stata effettivamente corrisposta.
4. In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
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