Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 12 settembre 2017, n. 41547. Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente calcolando il profitto sulla base della somma dell’Iva e dell’Irpef evase

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3. – Il ricorso e’ infondato.

Deve premettersi che tutti i motivi di doglianza del ricorrente sono anche sostanzialmente diretti a lamentare la contraddittorieta’ e la manifesta illogicita’ del provvedimento impugnato, il quale risulta ampiamente e coerentemente motivato. Essi, per questa parte, devono essere ritenuti inammissibili, perche’ non si riferiscono alla mancanza della motivazione su profili essenziali ai fini della decisione, ma a valutazioni del Tribunale circa il compendio istruttorio; valutazioni comunque insindacabili in questa sede, perche’ non riconducibili alla categoria della violazione di legge ai sensi e per gli effetti dell’articolo 325 c.p.p., comma 1, (ex plurimis, ribadiscono che il ricorso per cassazione in tema di misure cautelari reali puo’ riguardare solo la motivazione assente o meramente apparente del provvedimento impugnato, sez. 3, 10 luglio 2015, n. 39833; sez. 6, 10 gennaio 2013, n. 6589, rv. 254893). L’esame dei singoli motivi di ricorso dovra’, dunque, essere condotto con esclusivo riferimento alle censure riferite a violazione di legge.

3.1. – Il primo motivo di doglianza – nella parte in cui con esso si afferma che il sequestro per equivalente dei beni del legale rappresentante potrebbe ritenersi legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato presso la societa’ risultasse impossibile – deve essere trattato congiuntamente con il secondo e il quinto, che si riferiscono a questioni analoghe. La difesa sostiene, in particolare, che l’accertamento richiesto sarebbe stato integralmente omesso dal pubblico ministero, che e’ ricorso direttamente al sequestro preventivo per equivalente di beni di proprieta’ dell’imputato, senza verificare la possibilita’ di procedere al sequestro diretto.

Deve richiamarsi, sul punto, il costante orientamento di legittimita’, secondo cui, quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, e’ legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato, sul presupposto dell’impossibilita’ di reperire il profitto del reato nei confronti dell’ente, nel caso in cui, successivamente alla imposizione del vincolo cautelare, dallo stesso soggetto non siano indicati i beni nella disponibilita’ della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta (Sez. 3, n. 40362 del 06/07/2016, Rv. 268587; Sez. 3, n. 42966 del 10/06/2015, Rv. 265158). E deve precisarsi che la prova che ci si trovi di fronte al profitto del reato puo’ dirsi raggiunta solo quando emerga dagli atti, o sia comunque altrimenti provato, che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all’erario, siano nella disponibilita’ della societa’ o nei casi, estremamente rari, in cui sia possibile dimostrare che un determinato bene costituisca il profitto diretto del reato. Percio’, nella fase successiva all’imposizione del vincolo cautelare, che presuppone, come si e’ detto, l’accertata impossibilita’, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima cioe’ che sia disposta la confisca per equivalente (essendo il sequestro a cio’ finalizzato) dei beni nella disponibilita’ dell’imputato, vi e’ un onere di allegazione e prova da parte di quest’ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della societa’. In conclusione, in tema di reati tributari, il pubblico ministero e’ legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della societa’ o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione e, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n. 30995 del 06/04/2016; Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, dep. 2015, Rv. 261929; Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Rv. 26502).

Tali principi trovano applicazione anche nel caso di specie, in cui non emergeva, allo stato degli atti, la praticabilita’ di un sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto nei confronti della societa’; praticabilita’ sostanzialmente non dedotta dal ricorrente neanche con il ricorso per cassazione, nel quale non si sono indicati beni o denaro della societa’ che avrebbero potuto essere sottoposti a sequestro, pur essendo l’imputato perfettamente a conoscenza dello stato patrimoniale della societa’ stessa, della quale era amministratore.

Ne deriva l’infondatezza della doglianza del ricorrente.

Manifestamente infondata e’ l’ulteriore censura proposta nell’ambito del primo motivo di ricorso – e ripresa con il quarto motivo – con la quale si lamenta che la motivazione sulla sussistenza del periculum in mora e’ soltanto apparente, dal momento che non prende in considerazione l’inesistenza di un rapporto di pertinenzialita’ tra i beni sequestrati e i reati contestati, nonche’ l’acquisto dei beni in epoca precedente alla commissione del reato.

E’ sufficiente richiamare, sul punto, il costante orientamento di questa Corte, secondo cui, in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante la valutazione del periculum in mora, che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 1, (ex multis, Sez. 3, n. 20887 del 15/04/2015, Rv. 263408). Quanto al nesso di pertinenzialita’ delle cose sequestrate per equivalente con il profitto del reato, e’ sufficiente qui ricordare che lo stesso non e’ necessario, perche’ lo scopo della confisca per equivalente e’ proprio quello di apprendere somme o beni corrispondenti al profitto del reato qualora questo profitto non sia piu’ rinvenibile (ex plurimis, Sez. 3, n. 34551 del 17/02/2017; Sez. 2, n. 21228 del 29/04/2014, Rv. 259717).

Le epoche di commissione dei reati e di acquisto dei beni immobili sottoposti a sequestro non hanno, dunque, alcuna rilevanza.

3.2. – Il terzo e il sesto motivo di ricorso – che possono essere trattati congiuntamente, perche’ attengono alla determinazione dell’entita’ del profitto e alla proporzionalita’ tra il profitto e il valore dei beni sequestrati – sono inammissibili, perche’ non attinenti a violazioni di legge deducibili ai sensi dell’articolo 325 c.p.p., comma 1.

Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, devi rilevarsi che il Tribunale si e’ correttamente riferito, per determinare il profitto, alla somma dell’Iva e dell’Irpef evase, evidenziando che il relativo ammontare potra’ essere calcolato piu’ esattamente solo nel giudizio di merito, sulla base degli ulteriori elementi di valutazione che l’imputato mettera’ a disposizione. Del resto, la difesa si e’ limitata ad affermare, in linea puramente teorica, che il profitto potrebbe non coincidere con il beneficio fiscale realizzato dall’utilizzatore, sostenendo una parte delle fatture oggetto del procedimento penale era stata portata in detrazione negli anni di riferimento, senza fornire alcun dato specifico che potesse essere preso in considerazione dal Tribunale sul punto. Quanto al valore del compendio sequestrato, lo stesso e’ stato determinato dal ricorrente in Euro 450.000,00, sulla base di sue mere affermazioni, del tutto sfornite di prova.

4. – Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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