Il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio può essere integrato anche mediante il rilascio di un parere non vincolante, allorchè esso assuma rilevanza decisiva nella concatenazione degli atti che compongono la complessiva procedura amministrativa e, quindi, incida sul contenuto dell’atto finale
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
SENTENZA 8 agosto 2017, n.39020
RITENUTO IN FATTO
A.M. e P.L., ciascuno a mezzo dei propri difensori, propongono tempestiva impugnazione avverso il provvedimento in data 26.04.2017, con cui il Tribunale di Genova, adito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal locale g.i.p. nei confronti – fra gli altri – dei due prevenuti, ritenuti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di corruzione, ex artt. 321,319 e 319 bis c.p., ‘perchè, quali consulenti di SECURPOL GROUP s.r.l., consegnavano a PA.Wa., direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di (OMISSIS), una busta contenente 7.500 Euro in contanti per compiere atti contrari al suo dovere di ufficio; in particolare, PA. si rendeva disponibile a definire la posizione tributaria della citata società con una transazione ad essa particolarmente favorevole a scapito dei legittimi interessi dell’erario e, avvisato dai funzionari incaricati della pratica che la proposta di transazione, che egli aveva contribuito a predisporre, era fondata su un bilancio contenente costi fittizi o gonfiati, ne rendeva edotti i suddetti consulenti, suggerendo loro la necessità di operare gli opportuni ‘aggiustamenti’ al fine di rendere possibile la transazione. Fatto aggravato in quanto avente ad oggetto il pagamento di tributi. In (OMISSIS), in data (OMISSIS)’.
L’identità sostanziale dei due ricorsi consente di esporne unitariamente il contenuto, che si articola attraverso le seguenti doglianze:
a) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in rapporto al mancato inquadramento del fatto per cui è processo in seno alla meno grave ipotesi delittuosa disciplinata dall’art. 318 c.p., avendo ritenuto il Tribunale di ravvisare nella fattispecie un’ipotesi di ‘vendita della discrezionalità amministrativa’: ciò erroneamente, in punto di diritto, posto che ‘la vendita della ‘discrezionalità’ integra il delitto di cui all’art. 319 c.p. solo allorquando vi siano elementi di prova da cui poter desumere l’esistenza di un accordo, intercorso tra il privato ed il pubblico ufficiale, in conseguenza del quale quest’ultimo abbia abdicato all’esercizio del potere discrezionale che la legge gli attribuisce, in vista dell’adozione di un ‘atto predeterminato” , la cui assenza – come nella vicenda – comporta che l’illecito refluisce, appunto, nella figura criminosa prevista e punita dal citato art. 318 c.p.; ed altrettanto erroneamente, avuto riguardo alla motivazione del Tribunale distrettuale, poichè quest’ultima è volta a valorizzare il solo dato – in sè insufficiente – della dazione del denaro, ‘omettendo però di dare conto di alcun elemento anche solo di natura gravemente indiziante, tale da far ritenere la certa assunzione di un impegno alla espressione di un parere favorevole sull’istanza transattiva da presentarsi nell’interesse di SECURPOL’, parere in cui viene individuato il potenziale oggetto dell’accordo corruttivo, come detto asseritamente inesistente;
b) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione all’art. 309 c.p.p., comma 9, per via dell’omessa, autonoma valutazione, ad opera del g.i.p., degli elementi forniti dalla difesa già in sede di interrogatorio di convalida (successivo all’arresto in flagranza dei prevenuti), tanto con riferimento al corretto inquadramento giuridico della vicenda, di cui si è appena detto, quanto in relazione alla piena idoneità di misure diverse da quella inframuraria, ad assicurare la tutela delle esigenze cautelari reputate sussistenti;
c) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), in rapporto all’art. 274 c.p.p., lett. a) e c), alla luce del non riuscito tentativo, da parte del Tribunale genovese, ‘di colmare la lacuna della motivazione che era propria dell’originaria ordinanza custodiale’, sfociato in una decisione definita ‘illogica e contraddittoria’: ciò in forza di un’argomentazione ritenuta assai distante dai principi fissati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, senza alcuna considerazione dell’incensuratezza degli indagati e della loro distanza da ambienti delinquenziali di sorta e, ancora, in spregio, ai criteri utilizzati nel vagliare la posizione del coindagato Q..
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi proposti sono parzialmente fondati, alla stregua e nei limiti delle ragioni di seguito esposte.
Inammissibile è il motivo sopra illustrato sub b), dal quale conviene prendere le mosse, in ragione della formale censura di nullità con esso prospettata, in forza del combinato disposto dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c bis) e art. 309 c.p.p., comma 9.
Il primo elemento di cui si lamenta la mancata valutazione ad opera del g.i.p. è quello inerente alla esatta qualificazione giuridica dei fatti, da subito tratteggiata al giudice e di poi posta a fondamento anche del primo profilo di doglianza, di cui si dirà di seguito.
L’assunto è manifestamente infondato.
Correttamente il Tribunale del riesame, nel corpo del provvedimento impugnato, ha posto in rilievo che gli ‘elementi forniti dalla difesa’, cui ha riguardo la disposizione processuale invocata, non possono consistere in ‘una mera interpretazione della norma sostenuta dal difensore’. Ed invero detti elementi – giusta l’esegesi da subito indicata dalla giurisprudenza di legittimità e mai posta in discussione – debbono consistere in circostanze positive, vale a dire in elementi fattuali di natura oggettiva, che contrastino quelli di accusa, annullandoli o rendendoli inattendibili, o comunque pregiudicandone la portata probatoria (cfr., in parte motiva, Sez. 4, sent. n. 2300 del 07.07.1998, non massimata sul punto; v. anche, con riferimento al disposto del cit. art. 292 c.p.p., comma 2 ter), in tema di obbligo di valutazione tanto degli elementi a carico, quanto di quelli a favore dell’indagato/imputato, Sez. 2, sent. n. 292 del 24.01.1997, Rv. 207139 e, più di recente, in senso conforme, Sez. 5, sent. n. 5795 del 05.12.2012 – dep. 05.02.2013, Rv. 254646).
Del resto, è fin troppo ovvio che censure di ordine strettamente giuridico, che si risolvano in violazione di legge da cui risulti inficiata l’ordinanza genetica, sono di per sè dotate di autonomo rilievo, fermo restando che le considerazioni che si leggono nel provvedimento del g.i.p., in ordine all’inquadrabilità dei fatti emersi in seno al paradigma della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (e, più ancora, quelle svolte sul medesimo tema dall’ordinanza del Tribunale distrettuale), valgono a significare inquivocabilmente che il punto è stato affrontato dal giudice della misura, così come poi da quello dell’impugnazione. Il che si conforma puntualmente all’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘La modifica apportata all’art. 292 c.p.p., comma 2 con la L. 8 agosto 1995, n. 332 che ha introdotto la partizione c) bis, non impone al giudice del riesame un onere di motivazione tale da rendere necessaria un’analisi puntuale di ogni elemento fornito dalla difesa, quando l’irrilevanza di simile elemento risulti chiara dall’esposizione delle specifiche esigenze cautelari o degli indizi che legittimano in concreto la misura disposta’ (così Sez. 6, sent. n. 990 del 04.03.1996, Rv. 205048; conf., con riferimento al disposto dell’art. 292 c.p.p., comma 2 ter), Sez. 6, sent. n. 35675 del 06.07.2004, Rv. 229409).
Quanto, poi, al secondo ed ulteriore elemento asseritamente pretermesso, circa l’idoneità di misure più gradate della custodia cautelare in carcere, assorbente è la constatazione che dalle memorie depositate innanzi al Tribunale del riesame, sia nell’interesse del P. che dell’ A. – memorie che sono state allegate a ciascun ricorso, onde fornire prova (indiretta, per vero) della sottoposizione delle relative circostanze già al giudice, in sede di convalida – non risulta affatto che il punto fosse stato al tempo sollevato, la sola questione da subito sottoposta al vaglio del g.i.p. essendo stata quella concernente l’inquadramento giuridico dei fatti.
Eguale valutazione di manifesta infondatezza s’impone in relazione al profilo sostanziale della qualificazione dei fatti medesimi.
Può senz’altro convenirsi con le difese, circa l’insufficienza della sola dimostrazione della dazione di denaro od altra utilità onde inferire la sussistenza di un quadro di gravità indiziaria, relativamente all’ipotesi di reato prevista e punita dall’art. 319 c.p.. In effetti, è principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte – e dal Collegio condiviso appieno – che, accanto al dato di cui sopra, il quadro indiziario deve dar conto che il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio è stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale (cfr., in particolare e da ultimo, Sez. 6, sent. n. 39008 del 06.05.2016, Rv. 268088; n. 5017 del 07.11.2011 – dep. 09.02.2012, Rv. 251867; n. 24439 del 25.03.2010, Rv. 247382). Medesima valenza, inoltre, rivestono le affermazioni con cui si puntualizza che, ai fini della configurabilità del delitto di corruzione propria, deve escludersi l’esistenza di un accordo corruttivo quando l’atto contrario ai doveri di ufficio sia stato oggetto solo di una promessa indeterminata da parte del pubblico ufficiale, senza alcuna certezza di prestazioni corrispettive tra le parti (cfr. in tal senso Sez. 6, n. 3522 del 07.11.2011 – dep. 27.01.2012, Rv. 251561).
Tanto si correla all’esigenza che la prova dell’accordo illecito, quale fatto tipico costituente il reato di corruzione propria, sia raggiunta in termini di certezza al di là del ragionevole dubbio: il paradigma normativo dell’art. 319 c.p. è esplicito, infatti, nel significare che la dazione indebita, dal corruttore al corrotto, deve essere finalizzata all’impegno di porre in essere, ovvero alla già effettuata realizzazione, di un atto/comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica. Ne discende che la prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale ben può costituire, logicamente, un indizio in tal senso, di per sè solo tuttavia insufficiente a dare contezza che essa sia preordinata al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio): donde la necessità di un più robusto costrutto probatorio, che, in assenza di una prova diretta, si conformi al principio dettato dall’art. 192 c.p.p., comma 2, in ambito indiziario.
3.1 Ciò posto, l’ordinanza impugnata, dopo aver opportunamente sottolineato l’inopinato trasferimento di sede della SECURPOL a (OMISSIS) – malgrado l’assenza di interessi gravitanti sul capoluogo ligure – ed il pesante indebitamento della società nei confronti del Fisco, rileva come la proposta di transazione (per due milioni di Euro, a fronte di un’esposizione nell’ordine di ventisei milioni, per come emerge dal provvedimento genetico), formalizzata presso l’Agenzia delle Entrate di (OMISSIS), dovesse essere istruita dalla Direzione provinciale, al cui responsabile – il ‘beneficiario’ della illecita dazione, PA.Wa. (che già aveva formulato una iniziale valutazione di idoneità della proposta ed è risultato in costante collegamento con i rappresentanti della SECURPOL) – spettava la formulazione di un pur non vincolante parere, prima della decisione finale, di competenza della Direzione Regionale: donde la chiara individuazione dell’atto, oggetto della vendita della propria autonomia da parte del menzionato PA., posto che ‘Integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ‘ex post’, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla ‘vendita’ della discrezionalità accordata dalla legge’ (così Sez. 6, sent. n. 4459 del 24.11.2016 – dep. 30.01.2017, Rv. 269613, cui adde, esattamente in termini, Sez. 6, sent. n. 6677 del 03.02.2016, Rv. 267187).
Con l’opportuna precisazione dell’irrilevanza del richiamato carattere non vincolato dell’atto demandato al pubblico ufficiale, in conformità all’insegnamento di questa Corte, giusta la seguente massima, appositamente trascritta nel corpo della motivazione dell’ordinanza impugnata: ‘Il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio può essere integrato anche mediante il rilascio di un parere non vincolante, allorchè esso assuma rilevanza decisiva nella concatenazione degli atti che compongono la complessiva procedura amministrativa e, quindi, incida sul contenuto dell’atto finale’ (così Sez. 6, sent. n. 21740 dell’01.03.2016, Rv. 266923).
Venendo ora alle censure in tema di esigenze cautelaci, occorre premettere, alla luce della interpretazione del concetto di ‘attualità’ delle esigenze medesime, cui la difesa ha ancorato la propria impostazione, che recentemente le Sezioni Unite, pur chiamate ad affrontare una diversa questione di diritto sottoposta alla loro attenzione, hanno dedicato alcuni cenni al tema in questione, significando che il requisito dell’attualità è attributo distinto rispetto a quello della concretezza, posto che quest’ultimo va correlato ‘alla capacità a delinquere del reo’, il primo ‘alla presenza di occasioni prossime al reato’; dopodichè è stato osservato che, ferma la necessità della distinta valutazione dei due requisiti – in ragione, appunto, della loro autonomia concettuale – gli ‘indici rivelatori’ da prendere in esame, ai fini della verifica della loro reale sussistenza, sono i medesimi, da individuarsi nelle ‘specifiche modalità e circostanze del fatto e personalità dell’indagato o imputato’ (cfr., in parte motiva, Cass. Sez. Un. sent. n. 20769 del 28.04.2016).
Dunque, al di là della formale distinzione, il dato qualificante che emerge dal ricordato intervento dell’Alto Consesso consiste nel fatto che l’indagine sull’attualità delle esigenze cautelari va compiuta sulla scorta dei medesimi dati conoscitivi da apprezzarsi ai fini della valutazione sulla concretezza delle esigenze medesime, rimanendo quindi ancorata ad un giudizio prognostico, in cui rivestono rilevanza tanto le componenti oggettive, legate al fatto per cui è processo, quanto quelle discendenti dal profilo soggettivo dell’agente. Ciò allo scopo di verificare la permanenza della situazione di fatto che ha reso possibile o, comunque, agevolato la commissione del delitto per il quale si procede, sì da rendere prevedibile il suo riprodursi nell’immediato futuro; ovvero, qualora tale valutazione non sia possibile – si pensi a fatti di furto non particolarmente connotati, suscettibili di essere consumati attraverso svariate modalità di esecuzione – onde accertare la sussistenza di elementi obiettivi, sintomatici di una continuità ed effettività del pericolo di reiterazione, avuto doverosamente riguardo al momento dell’adozione della misura.
4.1 Ciò posto, l’ordinanza impugnata ha dato conto, sulla scorta delle dichiarazioni rese dal coindagato Q., del proficuo rapporto instaurato con gli odierni ricorrenti, alla luce della già intrapresa ‘collaborazione’, in relazione ad altra società – la ECOLOGIA FALZARANO – che aveva inopinatamente trasferito da (OMISSIS) a (OMISSIS) la propria sede sociale e che era parimenti interessata ad una transazione fiscale, e con i quali – per quanto qui più interessa – manifestando la propria disponibilità in proposito, aveva posto le basi per il prosieguo della ‘collaborazione’, con riferimento a numerosi clienti dei prevenuti che, stante la netta chiusura opposta dall’Agenzia delle Entrate di (OMISSIS) ad ipotesi di accordi transattivi, erano interessati a trasferire le proprie ‘pratiche… al Nord, in modo da avere maggiori chances di ottenere risultati positivi’.
Rispetto a detta argomentazione, entrambi i ricorrenti si sono limitati a denunciare il preteso carattere congetturale dell’ipotizzata possibilità di instaurare rapporti illeciti con altri pubblici ufficiali, dedotta però dalle modalità della condotta incriminata, senza nulla dire allo scopo di contrastare il preciso dato fattuale che l’ordinanza impugnata ha posto a base del proprio ragionamento in materia, cosicchè il motivo di censura risulta nella sostanza generico, in parte qua.
Esso è invece fondato, quanto alla contestazione della specifica esigenza di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a), che il provvedimento del Tribunale, al pari dell’ordinanza genetica, asserisce ricorrere alla stregua di affermazioni di stile, in palese contrasto con l’esaustivo quadro indiziario ormai acquisito ed ampiamente descritto, significativo della sicura insussistenza di qualsivoglia concreto pericolo di inquinamento probatorio, al di là dei non prevedibili sviluppi delle indagini che si assumono ancora in corso.
4.2 L’ordinanza del Tribunale di Genova, infine, non sfugge alle doglianze difensive in tema di adeguatezza della misura, per quanto detto da ritenersi circoscritta alla sola esigenza di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c).
A prescindere dal non proponibile raffronto con la posizione di altro indagato, indebitamente reiterato dalle difese, il giudice distrettuale ha unicamente fatto proprio, esplicitamente condividendolo, quanto argomentato in proposito dal g.i.p., che tuttavia, con specifico riguardo all’ A. ed al P. (oltre che ad un terzo indagato, in persona di C.F., nella identica posizione), si limita apoditticamente ad affermare l’idoneità della misura inframuraria e la sua proporzionalità, senza null’altro aggiungere: evidente, dunque, è il deficit di motivazione, che il giudice del rinvio, nell’autonomia sua propria, dovrà provvedere a colmare.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente alla valutazione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, e rinvia per nuovo esame sul punto al Tribunale di Genova. Rigetta nel resto i ricorsi.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
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