Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza del 27 settembre 2012, n. 16474
…omissis…
6. I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione sono infondati.
Questa Corte ha già da tempo precisato (cfr. Cass. n. 7328 del 17 aprile 2004, cui adde Cass. n. 7127 del 23 marzo 2007, Cass. n. 19559 del 13 settembre 2006, Cass. n. 5493 del 14 marzo 2006, Cass. n. 4980 del 8 marzo 2006 e, più recentemente, Cass. n. 9817 del 14 aprile 2008, nonchè Cass. n. 3786 del 17 febbraio 2009, Cass. n. 4656 del 25 febbraio 2011) che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, cosi da porsi come causa esclusiva dell’evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell’infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta, fermo restando che, allorchè la condotta del lavoratore sia attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo per le modalità dell’esecuzione, il comportamento imprudente o negligente del lavoratore assume efficacia soltanto di mera occasione o modalità dell’iter produttivo dell’evento, la cui responsabilità va, dunque ascritta per intero al datore di lavoro.
Questa Corte ha, infatti, già rilevato che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente – in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente preposto che ne faccia le veci) – finisca per configurarsi nell’eziologia dell’evento dannoso come una mera modalità dell’iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perchè “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell’ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso (cfr. in tal senso Cass. n. 5024 del 8 aprile 2002; Cass. n. 3213 del 18 febbraio 2004, Cass. n. 1994 del 13 febbraio 2012).
Nel caso in esame, la società ricorrente pretende di dedurre l’avvenuta violazione da parte di C.V. dei doveri di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5, al fine di sostenere l’ascrivibilità dell’infortunio mortale ad esclusiva responsabilità dello stesso, dalle seguenti circostanze: l’essere l’infortunato salito sul tetto ancorchè il programma dei lavori prevedesse che egli restasse a terra ed ancorchè nessuno avesse disposto che egli dovesse salirvi; l’essere stati tutti lavoratori informati dei rischi dei lucernari in plexiglass e della fragilità di detto materiale e l’essere le strisce di plexiglass riconoscibili; l’essere state adottate le misure per evitare il calpestio dei lucernari; l’essere l’infortunato – il quale sin dal 1995 era rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ed aveva collaborato alla stesura del documento di valutazione dei rischi – ben a conoscenza dei luoghi e delle loro caratteristiche ed in particolare a conoscenza dei camminamenti in cemento che consentivano di evitare il plexiglass, l’essere l’infortunato salito sul tetto per motivi non lavorativi, l’essere risultato che il secchio ritrovato era stato usato e calato al suolo dal solo F.. In buona sostanza, ad avviso della ricorrente la caduta da tetto sarebbe stata la conseguenza di una iniziativa del C., non richiestagli dal datore di lavoro che gli aveva affidato il diverso incarico di rimanere a terra e comunque sarebbe riconducibile a colpa del lavoratore il quale, benchè edotto dei rischi dei lucernari in plexiglass e pur in presenza delle misure atte ad evitare il camminamento degli stessi, aveva agito in modo assolutamente improvvido, con la conseguenza che l’infortunio mortale che ne era derivato non poteva essere attribuito a responsabilità del datore di lavoro. Invero la Corte territoriale ha analizzato in maniera adeguata ed esaustiva tutte le risultanze istruttorie ed ha preso adeguatamente in esame, sulla base del contesto in cui si era verificato l’infortunio, oltre alle circostanze indicate in questa sede dalla ricorrente anche altre ritenute pregnanti e così innanzitutto che il C., insieme con il F., era stato adibito ad un compito esorbitante rispetto alle normali mansioni, che, in particolare, l’amministratore della VEAT si era rivolto alla vittima chiedendogli di “organizzare il lavoro di pulitura delle canaline”. Significativa era stata, dunque, l’esistenza di una disposizione che, in quanto diretta alla soluzione del problema delle infiltrazioni di acqua che si erano verificate sul tetto del magazzino e per l’ampiezza dell’ordine e l’assenza di specificazioni, non poteva non comportare (o comunque non era tale da escludere ragionevolmente) anche una verifica diretta sul tetto del magazzino.
Come evidenziato dalla Corte territoriale, la circostanza che, per un accordo tra i due lavoratori, fosse salito sul tetto in un primo momento il solo F. (il quale già in passato aveva svolto analoga operazione) non attribuisce all’iniziativa di C. V. (che dei due aveva il compito di sovraintendere i lavori) di salire anch’egli sul tetto, le caratteristiche di abnormità ed inopinabilità tali da comportare l’esonero totale del datore di lavoro ovvero, vertendosi nell’ambito di direttive impartite, anche solo una riduzione proporzionale della sua responsabilità. Detta iniziativa, infatti, lungi dal risultare in contrasto con la direttiva ricevuta e, dunque, lungi dall’integrare una violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5, era riconducibile proprio alla esigenza di trovare la causa dell’infiltrazione e di ottemperare, così, alla disposizione dell’amministratore. La stessa è, allora, da collocarsi, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, funzionalmente in relazione al compito affidato al C., irrilevante essendo che quest’ultimo, una volta salito sul tetto e prima di rovinare a terra, abbia valutato di accordarsi con il F. per il pranzo (essendo, peraltro, plausibile che sia stato considerato come inverosimile – e pertanto trascurato – che la vittima, ben potendo colloquiare da terra con il F. anche in ragione dello svuotamento del secchio calato giù dal primo, per tale accordo verbale – e solo per questo – abbia avuto la necessità di salire sul tetto). Del resto, quello che rileva, ai fini della riconducibilità di un comportamento, alle direttive ricevute, è se l’operazione che il lavoratore stava effettuando al momento dell’infortunio, sia stata in qualche modo riferibile alle prevedibili modalità di esecuzione delle sue prestazioni ovvero anche ad attività strumentali altrettanto prevedibili vuoi perchè abituali vuoi perchè rese necessarie da eventuali condizioni oggettive. Ed è tale riconducibilità che ha consentito alla Corte di merito di ritenere che il lavoratore abbia affrontato un rischio inerente all’attività da compiersi senza alcuna deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative. Non vi è stato, dunque, alcun atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive (melius alle disposizioni impartite), diretto alla soddisfazione di impulsi meramente personali, nè può dirsi mancante il nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Egualmente in modo corretto la Corte territoriale ha valutato come irrilevante, rispetto all’affidamento dei suddetti compiti esorbitanti, la circostanza, ampiamente valorizzata dall’odierna ricorrente, che il C. fosse sin dal 1995 rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e per aver collaborato alla stesura del documento di valutazione dei rischi. Tale circostanza, infatti, evidentemente riferita alla ordinaria attività svolta dal C. (addetto al magazzino) e più in generale dall’azienda (esercente attività di commercializzazione di vernici), non è significativa della specifica conoscenza di rischi presenti in contesti esterni ed estranei a quello di espletamento dei compiti ordinari. Il che vale a dire che il ruolo del C. nell’ambito dell’attività propria della VEAT non esonerava l’amministratore di quest’ultima dall’informare puntualmente detto lavoratore dei rischi specifici ricollegabili alla disposta ed assolutamente contingente attività di pulizia della canaline e così dei rischi di caduta dal tetto, della fragilità dei lucernari nonchè dell’obbligo di utilizzo di strumenti di sicurezza (si richiama, al riguardo, il principio espresso da questa Corte nella sentenza n. 4895 del 14/05/1998:
“Nell’esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, l’accertamento che il datore di lavoro deve compiere per il D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 70 ed ai fini delle idonee conseguenti misure da adottare ai sensi degli artt. 10 e 16 del citato D.P.R. e dell’art. 2087 cod. civ., non è limitato alla resistenza della superficie ove il lavoro si svolge, bensì investe ogni sottostante struttura, nella misura in cui questa condizioni materialmente la predetta resistenza, e nei limiti di diligenza prudenza ed esperienza adeguate a questa attività; il positivo accertamento dell’adempimento di questo obbligo consente di escludere la responsabilità che, negli indicati limiti di colpa, è addebitabile al datore per infortuni causalmente connessi all’esecuzione dei predetti lavori” e nella sentenza n. 9000 del 25/08/1995: “In caso di esecuzione di qualsiasi opera che esponga i lavoratori a rischi di caduta dall’alto, trova applicazione la generale norma di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10, che prescrive l’utilizzazione di cintura di sicurezza debitamente agganciata, e comunque l’art. 2087 cod. civ., che impone l’adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l’impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti – collocazione, a seconda dei casi, di tavole sopra le orditure e di sottopalchi – previsti dal D.P.R. n. 164, art. 70 per i lavori da eseguirsi su lucernari, tetti, coperture e simili”).
Per il resto, le affermazioni della ricorrente, secondo cui le argomentazioni della Corte d’appello, anche per quanto attiene alla ritenuta violazione della normativa prevenzionale, sarebbero smentite da ulteriori elementi raccolti nel giudizio penale, dalle deposizioni testimoniali assunte in sede dibattimentale di primo grado, dalla documentazione versata in atti dalla società e finirebbero per trascurare la gravità dell’imprudenza commessa dal lavoratore ovvero per disconoscere il pieno adempimento dei doveri di cautela e/o di informazione da parte del datore di lavoro, si risolvono in realtà nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito – giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento tanto alla pericolosità dell’incombenza della cui esecuzione era stato incaricato il lavoratore (essendo, come detto, pur sempre riconducibile nell’ambito della direttiva impartita dall’amministratore la verifica sul tetto da parte del lavoratore incaricato della organizzazione delle operazioni di pulitura delle canaline) ed all’assenza di precise disposizioni sulle modalità con le quali avrebbero dovuto essere eseguite dette operazioni (si ribadisce, del tutto estranee agli ordinari compiti del lavoratore), oltre che alla mancata predisposizione delle cautele necessarie per la sua esecuzione – e rimangono pertanto confinate ad una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte di appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di legittimità di quest’ultima. Al riguardo, deve rimarcarsi che la valutazione delle risultanze probatorie e la scelta, tra queste, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti; con la conseguenza che il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova, non essendo conferito alla S.C. il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (cfr. ex plurimis Cass. n. 6288 del 18/03/2011, id. n. 27162 del 23/12/2009 e n. 17477 del 9/08/2007). Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi di aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520).
Rileva questa Corte che, in aderenza alla suddetta regola di diritto, il giudice del merito ha fatto corretta applicazione della legge e della logica per pervenire all’accertamento dell’esclusiva responsabilità del datore di lavoro. Al riguardo, come detto, la Corte territoriale ha attribuito rilievo prevalente all’esistenza di una disposizione dell’amministratore della società che per quanto ampia e priva di specificazioni (posto che al lavoratore era stato ordinato di “organizzare” l’esecuzione di un lavoro nonostante l’obiettiva anzidetta situazione di pericolosità, senza la predisposizione di cautele e di sicure direttive) oltre a non essere idonea ad integrare un preciso “programma” dei lavori (nei termini prospettati dalla ricorrente) rispetto al quale valutare una eventuale abnorme deviazione, era tale da rendere a questa ricollegabile l’iniziativa del C. di salire sul tetto ed ha, altresì, valutato gli altri elementi invocati dalla società, ritenendoli trascurabili ovvero ininfluenti, per cui la conclusione raggiunta non è censurabile per vizio di motivazione, dato che gli argomenti esposti a sostegno dell’impugnazione sostanzialmente si risolvono nella richiesta a questo giudice di legittimità di riesaminare il materiale probatorio raccolto per farne derivare una conclusione diversa da quella di cui alla sentenza impugnata.
La decisione della Corte territoriale risulta, altresì, rispettosa dei principi di diritto come ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha, come già sopra ricordato, ripetutamente affermato che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. Nè, si ribadisce, può attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (e tale non è il caso in esame nel quale vi è stata una piena riconducibilità del comportamento del lavoratore alla sfera di organizzazione ed alle finalità del lavoro, e, con essa, una piena riconducibilità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (cfr., da ultimo, Cass. n. 4656 del 25/2/2011 nonchè Cass. n. 1994 del 13/02/2012).
Nè, infine, può attribuirsi rilievo alcuno alla circostanza che non vi è stata alcuna sentenza penale di condanna degli amministratori o di altro lavoratore della VEAT per l’infortunio di C.V. in quanto, come è noto, “la proponibilità dell’azione di regresso non è condizionata dal previo accertamento in sede penale della responsabilità del datore di lavoro (o di persona del cui operato questi debba civilmente rispondere) e neppure dal previo esame, da parte del giudice penale, del fatto causativo dell’infortunio”, in quanto a tale accertamento può provvedere “incidenter tantum” anche il giudice civile (cfr. in tal senso Cass. n. 10167 del 28/09/1991 nonchè Cass. n. 9601 del 14/07/2001).
Conclusivamente il ricorso va integralmente rigettato.
7. Al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore dell’I.N.A.I.L., delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 40,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per onorario, oltre accessori di legge.
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