cassazione 8

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

SENTENZA 5 febbraio 2015, n. 2143

 
 

RITENUTO IN FATTO

 

Con ricorso al Giudice del lavoro di Novara, B.E. chiedeva dichiararsi nei confronti dell’Azienda ospedaliera universitaria (OMISSIS) il suo diritto ad essere confermato nell’incarico di Direttore del Dipartimento assistenziale integrato medico dell’Azienda medesima per il periodo dal 12 novembre 2008 al 31 ottobre 2010, data del collocamento a riposo, con la conseguente ricostruzione della carriera ai fini economici e previdenziali, previa disapplicazione della deliberazione n. 331 del 12 novembre 2008 del Direttore generale della predetta azienda, con cui, allo scadere del triennio di durata dell’incarico assegnato al ricorrente e della successiva proroga, era stato nominato un altro candidato, C.M.; domandava, in via subordinata, la condanna dell’Azienda al risarcimento dei danni conseguenti all’esclusione dalla riconferma, siccome deliberata in violazione dei canoni di buona fede oggettiva e di buon andamento della pubblica amministrazione.
Il Tribunale di Novara rigettava le domande del ricorrente.
L’appello da questi proposto veniva dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Torino con la sentenza n. 1380 del 2013, che ravvisava la difformità del ricorso rispetto ai canoni imposti dall’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dall’art. 54 c. 1 lett. c) bis del D.I. 22 giugno 2012 n. 83, conv. nella L. 7 agosto 2012 n. 134.
La Corte torinese premetteva che l’adempimento della previsione normativa richiede l’individuazione sufficientemente puntuale delle parti della sentenza di primo grado oggetto di censura, seguita dalla soluzione alternativa che si intende proporre con l’impugnazione medesima. Nel caso in esame riteneva tuttavia che tali prescrizioni non fossero state rispettate, considerato che difettava l’individuazione dei passaggi della sentenza appellata e delle circostanze da cui sarebbe derivata la violazione di legge.
L’appellante si limitava infatti ad avviso della Corte a riproporre i motivi posti a fondamento del ricorso introduttivo del primo grado di giudizio, che erano stati disattesi dall’articolata motivazione della sentenza di primo grado, riportandone sporadici riferimenti e formulando critiche generiche.
Per la cassazione di tale sentenza B.E. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, illustrato anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui ha resistito con controricorso l’Azienda ospedaliera universitaria (OMISSIS)

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

A sostegno del ricorso, B.E. deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione o comunque erronea applicazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, novellato, per avere ritenuto che il ricorso violasse le prescrizioni ivi poste, malgrado l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno dell’impugnazione consentissero di percepire con esattezza il contenuto delle censure e la loro rilevanza, con riferimento alle statuizioni adottate dal giudice di primo grado.

La controricorrente ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, ritenendo che il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte già elaborata anteriormente alla novella che ha inciso sull’art. 434 c.p.c., ed il ricorrente non abbia offerto elementi per ritenere che tale orientamento debba essere mutato.

 
2.1. L’eccezione preliminare non è fondata.
 

E’ vero infatti che il ricorrente sollecita una lettura della disposizione contenuta nel testo novellato dell’art. 434 c.p.c., che adotti alcuni dei parametri interpretativi che già erano stati elaborati con riferimento alla vecchia disposizione. Su tale opzione interpretativa, tuttavia, questa Corte non si è ancora pronunciata.

La decisione della causa richiede quindi che siano in primo luogo poste le premesse logico-giuridiche del ragionamento decisorio, che attengono all’interpretazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che per il rito del lavoro, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., specifica i requisiti della motivazione che il ricorso in appello deve presentare, a pena di inammissibilità del gravame, individuandoli: 1) nell”indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado’ e, 2) ‘nell’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata’, laddove la precedente formulazione imponeva ‘l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell’impugnazione’.

3.1. Con riferimento al previgente testo degli artt. 434 c.p.c., comma 1, e art. 342 c.p.c., comma 1, sui requisiti di specificità dei motivi di impugnazione si sono contrapposti due orientamenti, uno più risalente e meno rigoroso, che considera sufficiente l’indicazione sommaria degli elementi che consentono di individuare i termini di fatto della controversia e delle ragioni per le quali è richiesta la riforma della sentenza (Cass. n. 11158 del 1995; Cass. n. 8181 del 1993, Cass. n. 16190 del 2004, Cass. n. 18674 del 2011), ed un secondo che sostiene invece che, perchè sia valido, l’atto d’appello non deve soltanto consentire di individuare le statuizioni in concreto impugnate e i limiti dell’impugnazione, ma è indispensabile anche, pure quando la pronuncia di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni su cui si fonda l’impugnazione siano formulate con un sufficiente grado di specificità e correlate con la motivazione della sentenza impugnata: con l’effetto che, se da un lato il grado di specificità dei motivi di appello non può essere previsto in via generale e assoluta, dall’altro lato esso richiede pur sempre che alle argomentazioni proprie della sentenza impugnata siano contrapposte le censure mosse dall’appellante, dirette a incrinarne il fondamento logico-giuridico, (v. ex plurimis Cass. n. 5210 del 2003, Cass. n. 8926 del 2004, Cass. n. 967 del 2004, Cass. n. 11781 del 2005, Cass. n. 12984 del 2006, Cass. n. 9244 del 2007, e già Cass., S.U., n. 9628 del 1993, n. 9244 del 2007, Cass. n. 15166 del 2008, Cass. n. 25588 del 2010, Cass. S.U. n.23299 del 2011, Cass. n. 1248 del 2013, Cass. n. 6978 del 2013).

3.2. Esaminando le modifiche introdotte dalla novella, occorre premettere che la dichiarata finalità ne è stata quella di migliorare, ispirandosi in particolare al modello tedesco, l’efficienza delle impugnazioni, a fronte della reiterata violazione dei tempi di ragionevole durata del processo.

3.3. Il primo mezzo mediante il quale tale risultato è stato perseguito è stato quello di sanzionare espressamente il mancato rispetto degli oneri formali con pronuncia d’inammissibilità dell’appello, che deve avvenire con sentenza alla conclusione del processo (e non con ordinanza, come invece nell’ipotesi del c.d. secondo ‘filtro’ in appello, regolato dagli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.); in tal modo, vengono superate quelle soluzioni interpretative che ponevano il rispetto di detti oneri come causa di nullità, sanabile con la costituzione dell’appellato (Cass. S.U. n. 4991 del 1987, ma, contro, Cass. S.U. n. 16 del 2000), così confermandosi che essi hanno natura pubblicistica e sono posti anche in funzione di agevolazione dell’attività del giudice.

3.4. In merito poi al valore da attribuirsi alla puntualizzazione del requisito della ‘specificità’ dei motivi, occorre premettere che l’economia dei tempi processuali perseguita dalla novella può essere ottenuta solo esigendo il rispetto da parte dell’appellante, in un’ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, di precisi oneri formali che impongano e traducano uno sforzo di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione.

3.5. Allo scopo di individuarne l’estensione, vi sono due aspetti da valutare: è vero, da un lato, che il principio della ragionevole durata del processo, elevato a rango costituzionale a seguito della riformulazione dell’art. 111 Cost., ad opera della legge costituzionale n. 2 del 1999, costituisce il parametro per adottare un’ interpretazione delle norme processuali funzionalizzata ad un’accelerazione dei tempi della decisione, conducendo a privilegiare opzioni contrarie ad ogni inutile appesantimento del giudizio, in sintonia con l’obiettivo perseguito anche a livello sovranazionale dall’art. 6 della CEDU di assicurare una decisione di merito in tempi ragionevoli (così Cass. n. 13825 del 2008, Cass. S.U. n. 5700 del 2014, Cass. S.U. n. 9558 del 2014, Cass. n. 17698 del 2014); inoltre, non è prevista costituzionalmente la pluralità di gradi di giudizio (fatto salvo il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale), sicchè il legislatore nazionale gode di una certa discrezionalità nel prevedere limiti all’accesso alle impugnazioni.

3.6. Dall’altro lato, occorre tuttavia rilevare (come evidenziato da Cass. S.U. n. 5700 del 2014 e Cass. S.U. n. 9558 del 2014), che la Corte di Strasburgo afferma che le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l’intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma 1 CEDU qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c. Francia 26 luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). La stessa Corte EDU ha poi affermato che il vincolo del rispetto del diritto ad un processo equo imposto dall’art. 6 comma 1 della CEDU si applica anche ai provvedimenti di autorizzazione all’impugnazione (Corte EDU, Hansen c. Norvegia, 2 ottobre 2014, Dobric c. Serbia, 21 luglio 2011,punto 50).

3.7. Il quadro costituzionale e sovranazionale orienta quindi verso canoni interpretativi capaci di assicurare il compito correttivo del giudizio d’appello, finalizzato a garantire la conformità della decisione di primo grado alla legge ed alle risultanze processuali, ma sanzionando le pratiche che, comportando un abuso del processo, determinino un’ingiustificata dilatazione dei suoi tempi ed un ingiustificato aggravio del lavoro del giudice.

3.8. Sulla base di tali argomentazioni, occorre concludere che gli oneri che vengono imposti alla parte devono essere interpretati in coerenza con la funzione loro ascritta e devono quindi consentire di individuare agevolmente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatimi e di circoscrivere quindi l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre lo sviluppo di un percorso logico alternativo a quello adottato dal primo Giudice e devono chiarire in che senso tale sviluppo logico alternativo sia idoneo a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte.

In tal modo, la novella ha, sostanzialmente e ragionevolmente, recepito e formalizzato gli approdi cui era giunta la giurisprudenza più recente, rendendone certa ed efficace la sanzione processuale.

3.9. Tali essendo i requisiti contenutistici del ricorso, deve ancora precisarsi che con la reiterata locuzione ‘indicazione’, il legislatore non ha previsto che le deduzioni della parte appellante debbano assumere una determinata forma o ricalcare la decisione appellata con diverso contenuto, nè ha adottato una logica di riproposizione, fuori tempo e fuori luogo, del noto (ed oggi superato) requisito del ‘quesito di diritto’: il legislatore ha solo statuito che i contenuti critici proposti debbano essere articolati in modo chiaro ed esauriente, oltre che pertinente.

3.10. Quanto detto non esclude poi che il ricorso in appello possa riproporre anche le argomentazioni già svolte in primo grado, purchè esse siano comunque funzionali a supportare le censure proposte nei confronti di specifici passaggi argomentativi della sentenza appellata.

3.11. Deve quindi riassuntivamente concludersi che l’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma, in ossequio ad una logica di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione, impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatimi e di circoscrivere l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo Giudice ed esplicitare in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte.

Occorre a questo punto rilevare che con il motivo di ricorso con il quale si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, si denuncia un vizio che attiene alla corretta applicazione delle norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione dei giudici di merito, vizio che è pertanto ricompreso nella previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Poichè in tali casi il vizio della sentenza impugnata discende direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver procurato, si spiega il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, inteso come fatto processuale (v. Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 14098 del 2009; Cass. n. 11039 del 2006; Cass. n. 15859 del 2002; Cass. n. 6526 del 2002).

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 8077 del 2012, a composizione di un contrasto di giurisprudenza, hanno definitivamente chiarito che ove i vizi del processo si sostanzino nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore, così come avviene nel caso che si tratti di stabilire se sia stato o meno rispettato il modello legale di introduzione del giudizio, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere-dovere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda.

Affinchè questa Corte possa riscontrare mediante l’esame diretto degli atti l’intero fatto processuale, è necessario comunque che la parte ricorrente indichi gli elementi caratterizzanti il fatto processuale di cui si chiede il riesame, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (ex plurimis, Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 8008 del 2014, Cass. n. 896 del 2014, Cass. Sez. Un. n. 8077 del 2012, cit.).

4.1. Sotto tale aspetto deve rilevarsi – risultando quindi infondata la seconda eccezione preliminare proposta dalla controricorrente – che il ricorso rispetta i richiamati canoni di autosufficienza, considerato che ivi vengono trascritti i passaggi della sentenza gravata (pgg. 6, 7, 25), ai quali si attribuisce la violazione processuale lamentata, che viene puntualmente illustrata con riferimento al contenuto del ricorso in appello (pg. 14 ss.) ed alla correlata sentenza di primo grado.

Ciò è sufficiente per consentire di comprendere la portata della doglianza ed accedere all’esame diretto degli atti imposto dalla censura così come formulata.

Esaminando la fattispecie alla luce delle esposte premesse, si rileva che, come riportato anche nella motivazione della Corte d’appello, il Tribunale aveva respinto il ricorso ritenendo che la deliberazione del Direttore generale n. 331/08, che aveva assegnato al Dott. C. l’incarico di Direttore del Dipartimento assistenziale integrato medico dell’Azienda Ospedaliera, fosse immune dalle censure d’illegittimità dedotte dal ricorrente, perchè richiamava tutti i criteri indicati nella disciplina di riferimento (L. n. 517 del 1999, art. 3, e art. 52, dell’atto aziendale adottato con la delibera n.203/2008 e integrato dalla delibera 289/2008), ossia la capacità gestionale ed organizzativa dei candidati, la loro esperienza professionale ed il curriculum scientifico. Essa poi richiamava anche il curriculum presentato dall’altro concorrente, poi nominato, Dott. C., che conteneva l’indicazione dei lavori scientifici, della partecipazione a convegni e delle esperienze di docente del candidato e che, pur essendo solo menzionato nella delibera, era stato certamente valutato ai fini della scelta. La delibera incentrava poi l’attenzione specialmente sulle capacità gestionali ed organizzative, ma ciò ad avviso del Tribunale era coerente con il fatto che a detti requisiti, previsti sul piano valoriale sia dal D.Lgs. n. 517 del 1999, art. 3, comma 5, sia dall’art. 52, dell’atto aziendale, veniva attribuita maggiore importanza.

Il primo giudice aveva, infine, respinto la censura riguardante la pretesa violazione del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3, comma 12, per l’asserita mancata assunzione del parere del Consiglio dei sanitari per l’adozione della delibera, evidenziando che la materia è stata regolata dal D.Lgs. n. 517 del 1999, per il quale il Direttore del dipartimento è nominato dal Direttore generale d’intesa con il Rettore dell’università (intesa ravvisabile dalla documentazione prodotta). Aveva anche ritenuto che non vi fosse alcuna traccia, nella documentazione in atti ed in quanto allegato, della presenza e/o del condizionamento nell’adozione dell’atto censurato da parte di forze esterne così come vanamente lamentato dalla difesa attorea.

Concludendo, per il Tribunale, la motivazione dell’atto risultava, sia nella forma che nella sostanza, pienamente aderente ai principi connaturati alla sua funzione, e ciò per il fatto che lo stesso ha indicato: le ragioni giuridiche (norme e principi applicabili al caso di specie), i presupposti in senso stretto del provvedimento, i dati acquisiti e gli interessi valutati, i motivi del provvedimento, cioè, in definitiva, le ragioni per le quali era stata praticata la scelta.

5.1. Passando poi ad esaminare il contenuto del ricorso in appello, si rileva che dopo una premessa in fatto in cui si riassumevano i termini della controversia (pgg. 1-4) e nell’ambito dell’esposizione in diritto, si richiamavano i passaggi argomentativi della sentenza gravata alle pp. 5 e 6, laddove il giudice di primo grado aveva ritenuto che il contenuto del curriculum del Dott. C. fosse stato valutato, contestando tale affermazione con le argomentazioni svolte sino a p. 8.

A pag. 8 si censurava poi l’affermazione della sentenza gravata nella parte in cui aveva ritenuto che fosse stato considerato più rilevante il requisito della capacità gestionale e organizzativa rispetto all’esperienza professionale, esplicitando con le considerazioni svolte sino a p. 11 in che cosa sarebbe consistito il travisamento in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado, ovvero nel confondere la capacità gestionale e organizzativa con l’attività formativa in campo gestionale; successivamente, sino a pag. 20, si indicavano gli elementi di valutazione, giuridici e fattuali, che non sarebbero stati utilizzati dal Tribunale nella valutazione, indicazione necessaria per dare conto della rilevanza del travisamento della prima circostanza nell’ambito del risultato della valutazione complessiva.

A pag. 20 si censurava poi l’affermazione del Tribunale secondo la quale non sarebbe stato più necessario il parere dei Consiglio dei Sanitari, esplicitando le ragioni in diritto di tale censura alle pagine successive sino alla 24.

A pag. 25 si sosteneva infine che tutte le esposte considerazioni determinerebbero l’erroneità della sentenza appellata laddove ha ritenuto la legittimità della deliberazione numero 331 del 2008 e quindi dell’esclusione del ricorrente dalla conferma nell’incarico.

5.2. Non risulta pertanto coerente con il contenuto del ricorso l’affermazione della Corte d’appello laddove a pagina 12 ha ritenuto la totale assenza ‘dell’individuazione nel ricorso in appello dei passaggi della sentenza che si intendono appellare e delle circostanze da cui deriverebbe la violazione della legge’.

La decisione, lungi dal coinvolgere una valutazione per la quale le argomentazioni formulate non sarebbero idonee a vincere l’argomentazione contenuta nella sentenza del tribunale (statuizione affatto mancante, e pervero attinente al profilo della fondatezza dei rilievi), si è dichiaratamente attestata sulla sola constatazione che tali rilievi non vi fossero o non fossero stati adeguatamente esplicitati, che attiene alla legittimità formale dell’atto quale presupposto per pervenire all’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’articolo 434 primo comma del codice di procedura civile. Tale constatazione è, ad avviso del Collegio, priva tuttavia di fondamento, considerato che il ricorso in appello è stato correttamente strutturato, in relazione a ciascuna delle censure – attinenti la ricostruzione del fatto e/o la violazione di norme di diritto – sviluppate dall’impugnazione, mediante l’indicazione testuale riassuntiva del contenuto delle parti della motivazione che si sono ritenute erronee, cui ha fatto seguito l’indicazione analitica delle ragioni poste a fondamento delle critiche svolte dall’appellante e della loro rilevanza al fine di confutare la soluzione censurata.

Le esposte considerazioni determinano l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che dovrà fare applicazione dei principi sopra affermati nella disamina del proposto appello, conclusivamente regolando anche le spese processuali.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

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