Il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione – nel termine di cui all’art. 7, quinto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 – di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive
Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 18 agosto 2016, n. 17166
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5435/2015 proposto da:
(OMISSIS), C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1076/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 11/12/2014 r.g.n. 1009/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega verbale Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Con sentenza dell’11 dicembre 2014, la Corte di Appello di L’Aquila ha confermato la pronuncia di primo grado che, in procedimento regolato dal rito previsto dalla L. n. 92 del 2012, aveva respinto l’impugnativa promossa da (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) Spa in relazione al licenziamento in tronco intimato in data 23 aprile 2013 per essere stato il dipendente tratto in arresto per detenzione e spaccio di ingenti quantita’ di eroina.
La Corte territoriale, premesso che le circostanze fattuali che avevano condotto al recesso datoriale risultavano “pacifiche tra le parti” e “comunque documentalmente dimostrate”, ha rilevato che nella lettera di giustificazioni dell’8 aprile 2013 il (OMISSIS), senza contestare i comportamenti ascritti, aveva inteso esclusivamente sminuirne la rilevanza, sul presupposto della loro estraneita’ al rapporto di lavoro, e, benche’ avesse richiesto di essere sentito oralmente allorquando fosse cessato il suo stato di detenzione, i giudici d’appello, “in linea con quanto ritenuto dal primo giudice”, hanno ritenuto che detta richiesta “avesse una finalita’ meramente dilatoria, con la conseguenza che non puo’ dirsi violato l’obbligo datoriale di cui della L. n. 300 del 1970, articolo 7, comma 2”.
Nel merito la Corte, valutata l’indubbia gravita’ oggettiva del delitto perpetrato punito con pene assai pesanti, ha ritenuto che “il dipendente potesse di nuovo contravvenire a norme penali (anche in ambito aziendale)” lasciando “in capo al datore di lavoro piu’ che fondate perplessita’ circa la correttezza del (OMISSIS) ed il puntuale adempimento da parte sua degli obblighi contrattuali e non”; in sentenza si osserva che “siamo in presenza di una ipotesi di detenzione di sostanze stupefacenti la cui natura (eroina) e la cui quantita’ (grammi 215, gia’ frazionati in dosi) lasciano presumere la sussistenza di un fine di spaccio (tanto e’ vero che al momento dell’arresto, nel garage del (OMISSIS), era presente un altro soggetto, che si e’ dileguato alla vista dei militari), e quindi non un mero uso personale, il che evidentemente comporta frequentazioni di gente dedita al traffico di stupefacenti e l’inserimento in un ambiente ben piu’ pericoloso, che certo puo’ costituire una giusta causa del venir meno del rapporto fiduciario”.
2.- Per la cassazione di tale sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso affidato a sei motivi. La societa’ ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3.- I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.
Con il primo si denuncia “violazione ed errata applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 7 e dell’articolo 32 del Contratto Collettivo specifico di lavoro di primo livello del 29 dicembre 2010 in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3”. Si eccepisce che, con le giustificazioni scritte, il (OMISSIS) non aveva “consumato” il suo diritto di difesa, avendo egli chiesto di essere sentito oralmente.
Con il secondo motivo si deduce “violazione ed errata applicazione dell’articolo 115 c.p.c.” in quanto la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento “sulla base di sue congetture non fondate su alcun elemento rinvenibile negli atti del processo”, sia in ordine alla frequentazione del (OMISSIS) “di ambienti malavitosi dediti al traffico di stupefacenti”, sia circa la sussistenza di un danno all’immagine dell’azienda.
Con il terzo motivo si lamenta violazione ed errata applicazione di norme di legge e di contratto collettivo perche’ in quest’ultimo l’ipotesi contestata non risulterebbe presente tra quelle legittimanti il licenziamento.
Con il quarto motivo si denuncia violazione del contratto collettivo nonche’ dell’articolo 2119 c.c., reputando che “il comportamento extralavorativo del dipendente e’ di regola irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario”; si deduce che una condotta extralavorativa puo’ acquisire rilievo “solo qualora presenti una gravita’ tale da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto, specialmente quando, per le caratteristiche e le peculiarita’ della prestazione, si esiga un piu’ ampio margine di fiducia esteso anche alla serieta’ della condotta della vita privata”.
Con il quinto motivo si denuncia ancora violazione ed errata applicazione dell’articolo 2119 c.c., per avere la Corte del reclamo formulato un giudizio prognostico circa il futuro adempimento del lavoratore non basato su elementi di fatto chiaramente riscontrabili, stante l’incensuratezza del (OMISSIS), e senza aver in concreto valutato le mansioni operaie dello stesso.
Con l’ultima censura si eccepisce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dallo svolgimento da parte del (OMISSIS) di mansioni di operaio addetto alla catena di montaggio.
4.- Poiche’ ai sensi della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 6, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, applicabile al presente licenziamento intimato in data 23 aprile 2013, ove il lavoratore, oltre a denunciare la violazione “della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge”, chieda accertarsi “un difetto di giustificazione del licenziamento”, le maggiori tutele di cui all’articolo 18, commi 4, 5 o 7, operano “in luogo di quelle previste dal presente comma” sesto (cd. tutela indennitaria debole), occorre, per ragioni logiche e giuridiche, esaminare preventivamente i motivi di ricorso che vanno dal secondo al sesto, attinenti alla giustificazione del licenziamento del (OMISSIS), potendo solo successivamente valutarsi il primo motivo, che riguarda una violazione della procedura disciplinare.
Tali mezzi di gravame, congiuntamente scrutinabili per reciproca connessione, non possono trovare accoglimento.
4.1.- In premessa va evidenziato che tutti i fatti che hanno dato origine al processo, cosi’ come ricostruiti dai giudici di merito, non possono essere rimessi in discussione in questa sede.
Non hanno ingresso, cioe’, tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica, lamentando una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, perche’, per le sentenze pubblicate, come nella specie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge n. 134 del 2012, di conversione del Decreto Legge n. 83 del 2012, detta ricostruzione e’ censurabile in sede di legittimita’ solo nell’ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti” ai sensi del novellato articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cosi’ come rigorosamente interpretato da questa Corte a Sezioni Unite (v. sent. n. 8053 del 2014).
Detto vizio, inoltre, non e’ denunciabile, per i giudizi di appello instaurati (nel caso che ci occupa il reclamo e’ del 22 ottobre 2014) successivamente alla data sopra indicata (articolo 54, comma 2, del richiamato Decreto Legge n. 83 del 2012), qualora il fatto sia stato ricostruito, come nella specie, nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (articolo 348 ter c.p.c., u.c.), (cfr. Cass. n. 4223 del 2016).
La disposizione e’ applicabile anche al reclamo disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, articolo 1, commi da 58 a 60, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue l’applicabilita’ della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso, tra le altre, Cass. 29.10.2014 n. 23021).
4.2.- Cio’ posto, vanno invece delibate quelle doglianze con cui, in varie forme, si denuncia, da parte della sentenza impugnata, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’articolo 2119 c.c..
Occorre dunque ribadire i confini del sindacato di questa Corte a mente dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ove si controverta della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’articolo 2119 c.c., ovvero, con diversita’ solo di grado, di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali che giustifichi il motivo soggettivo di licenziamento con preavviso, ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 3.
In generale l’attribuzione di un contenuto precettivo ad una norma, compreso in un intervallo di interpretazioni plausibili, e’ operazione che compie ogni giudice nell’assegnare un significato alla disposizione interpretata, ma che compete a questa Corte precisare progressivamente mediante puntualizzazioni, a carattere generale ed astratto, sino alla formazione del cd. diritto vivente (cfr. Cass. n. 18247 del 2009).
Tale operazione di attribuzione di significato non e’ logicamente dissimile per le norme contenenti le cd. clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati, anche se non se ne possono negare le peculiarita’ legate alla circostanza che in tali disposizioni si richiamano concetti elastici, che necessitano di una integrazione che accentua lo spazio lasciato all’interprete, delegato ad effettuare un giudizio di valore che concretizza la norma oltre i rigidi confini dell’ordinamento positivo.
Tanto accade anche per la giusta causa o per il giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
Si tratta di disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realta’ articolata e mutevole nel tempo, mediante la valorizzazione sia di principi che la stessa disposizione richiama sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero al rispetto di criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui si colloca la disposizione.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010); dunque non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perche’, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attivita’ di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).
Tuttavia e’ stato evidenziato che l’attivita’ di integrazione del precetto normativo di cui all’articolo 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito e’ sindacabile in cassazione a condizione, pero’, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realta’ sociale (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).
Invece, nella specie, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi della clausola generale che sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi esclusivamente a ribadire che secondo il suo giudizio – che e’ solo quello personale della parte che vi ha interesse – il fatto addebitato non costituirebbe giusta causa di licenziamento, per cui, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata.
4.3.- Le Sezioni Unite di questa Corte poi insegnano (sent. n. 5 del 2001) che il controllo di legittimita’ non si esaurisce in una verifica dell’attivita’ ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, comprende anche l’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa.
Tale vizio, sovente inteso come falsa applicazione di legge, si riferisce ad un momento successivo a quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e che investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nell’affermazione erronea dell’esistenza o dell’insussistenza di una norma, ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata (violazione di legge in senso proprio); la falsa applicazione consiste invece o nell’assumere la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice, perche’ la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non e’ idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (in termini chiari cosi’ Cass. n. 18782 del 2005; v. pure Cass. n. 15499 del 2004).
Il vizio di sussunzione e’ ipotizzabile naturalmente anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimita’, e’ indispensabile, cosi’ come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta cosi’ come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici.
Orbene, in ordine agli elementi fattuali che il giudice deve valutare per verificare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza di questa Corte e’ pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente che, per stabilire in concreto l’esistenza di una “causa che non consenta al prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro” e che deve dunque rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali di tale rapporto, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravita’ dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensita’ dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalita’ fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.
L’accertamento in ordine alla ricostruzione di detti fatti e del come si siano realizzati nella vicenda storica che origina la controversia compete ai giudici di merito. Ad essi spetta anche la valutazione di tali fatti al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che spieghi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento.
Trattandosi di giudizi di fatto questa Corte puo’ sottoporli a sindacato nei limiti consentiti – come innanzi gia’ precisato – da una prospettazione del vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente.
Inoltre il giudice di legittimita’, sempre nei limiti di una censura appropriata, puo’ sindacare la sussunzione operata dall’impugnata sentenza della fattispecie concreta nell’alveo dell’articolo 2119 c.c., correttamente interpretato.
Resta fermo pero’ che i dati fattuali di partenza devono essere quelli accertati e valutati dal giudice del merito: rispetto ad essi puo’ essere verificata in sede di legittimita’ la corretta riconduzione alla fattispecie astratta.
Poiche’, come abbiamo visto, gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono molteplici occorre guardare, nel sindacato di questa Corte, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne e’ scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza della sussunzione nell’ambito della clausola generale.
Trattandosi di una decisione che e’ il frutto di selezione e valutazione di una pluralita’ di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non puo’ limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, cosi’ come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento.
Altrimenti occorrera’ dedurre che e’ stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilita’; ma in tal caso il vizio e’ attratto nella sfera di applicabilita’ dell’articolo 360, comma 1, n. 5, con tutti i limiti innanzi ricordati, e solo successivamente potra’ essere eventualmente argomentato che l’errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall’omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresi’ un errore di sussunzione rilevante a mente dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per falsa applicazione di legge.
Nella specie, invece, parte ricorrente, senza specificare perche’ quanto accertato e ritenuto dalla Corte di Appello non sarebbe sussumibile nell’ambito dell’articolo 2119 c.c., si limita ad indicare una serie di fatti (la frequentazione di ambienti malavitosi, il danno all’immagine dell’azienda, l’incensuratezza del (OMISSIS), l’espletamento di mansioni operaie) che non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici territoriali, ma alcuno di detti fatti, anche per la loro stessa pluralita’, puo’ ritenersi autonomamente decisivo nel senso sopra specificato, sicche’ le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del giudizio di merito, evidentemente non consentita in questa sede.
4.4.- Pacificamente esclusa, poi, la pur dedotta violazione di norme per il solo fatto che la condotta addebitata non sia espressamente prevista come motivo di licenziamento dalla contrattazione collettiva, attesa la fonte legale della nozione di giusta causa (Cass. n. 5115 del 2012; Cass. n. 4060 del 2011) e sussistendo un vincolo per il giudice solo ove la contrattazione collettiva stabilisca una sanzione meramente conservativa (Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011), resta da esaminare infine la denuncia di violazione dell’articolo 2119 c.c., sull’assunto che “il comportamento extralavorativo del dipendente e’ di regola irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario”.
La censura e’ infondata in diritto.
E’ noto che il concetto di giusta causa non si limita all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extralavorative che, tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti.
Infatti anche condotte concernenti la vita privata del lavoratore possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, allorquando abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalita’ del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attivita’.
Parimenti comportamenti extralavorativi imputabili al lavoratore possono colpire interessi del datore di lavoro, violando obblighi di protezione: il lavoratore e’ tenuto, infatti, non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (cfr. Cass. n. 776 del 2015; Cass. n. 16268 del 2015).
Nondimeno, e’ pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravita’, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perche’ idonei, per le concrete modalita’ con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass. n. 15654 del 2012).
Ancora di recente questa Corte Suprema (Cass. n. 16524 del 2015) ha ribadito, peraltro in fattispecie analoga, che spetta al giudice di merito apprezzare se e in che misura tale condotta extralavorativa abbia leso il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro.
Nel caso che ci occupa l’accertamento della radicale compromissione del vincolo fiduciario da parte del dipendente dedito alla detenzione ed allo spaccio di ingenti quantita’ di eroina, conformemente operato dai giudici del doppio grado ed adeguatamente motivato, supera agevolmente la soglia del sindacato di legittimita’.
5.- Residua dunque l’esame del primo motivo di ricorso con cui si denuncia la violazione ed errata applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 7, anche in riferimento alla contrattazione collettiva applicabile alla fattispecie, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si critica quella parte della sentenza impugnata che ha ritenuto “dilatoria” la richiesta del (OMISSIS) di audizione orale alla cessazione dello stato di detenzione, sostenendosi che questi “non ha mai motivato in alcun modo la sua pervicace volonta’ di essere sentito oralmente, ne’ ha mai spiegato per quale ragione e sulla base di quali considerazioni le sue giustificazioni rese con lettera dell’8.4.2013, dichiarate non integrabili per iscritto, fossero invece suscettibili di essere oggetto di una integrazione verbale”; da tale assunto la Corte territoriale ha tratto la conseguenza che non era stato violato l’obbligo del datore di lavoro di cui della L. n. 300 del 1970, articolo 7, comma 2.
Nel motivo di gravame si eccepisce, invece, che con le giustificazioni scritte il (OMISSIS) non aveva “consumato” il suo diritto di difesa, avendo egli comunque chiesto espressamente di essere sentito oralmente.
Il motivo risulta fondato nei sensi espressi dalla motivazione che segue.
La L. n. 300 del 1970, articolo 7, prescrive, come garanzia procedimentale in favore del lavoratore al quale il datore di lavoro intenda applicare una sanzione disciplinare, che quest’ultimo non possa adottare alcun provvedimento disciplinare non solo senza aver preventivamente contestato l’addebito al lavoratore, ma anche “senza averlo sentito a sua difesa”.
La giurisprudenza di questa Corte ha piu’ volte affermato che questa specifica garanzia (la previa audizione a difesa) opera non gia’ indistintamente, ma solo se il lavoratore abbia espressamente chiesto di essere sentito (v. Cass. n. 4435 del 2004). Pero’, una volta che l’espressa richiesta sia stata formulata in modo univoco dal lavoratore (cfr. Cass. n. 12268 del 2000), la sua previa audizione costituisce in ogni caso indefettibile presupposto procedurale (Cass. n. 1661 del 2008; Cass. n. 7848 del 2006; Cass. n. 9066 del 2005), anche nell’ipotesi in cui il lavoratore, contestualmente alla richiesta di audizione a difesa, abbia comunicato al datore di lavoro giustificazioni scritte; le quali, per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione, sono ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate ad integrarsi con le giustificazioni che il lavoratore stesso eventualmente aggiunga o precisi in sede di audizione. Quindi non puo’ che ribadirsi il principio di diritto secondo cui “il datore di lavoro, il quale intenda adottare una sanzione disciplinare, non puo’ omettere l’audizione del lavoratore incolpato ove quest’ultimo ne abbia fatto richiesta espressa contestualmente alla comunicazione, nel termine di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 7, comma 5, di giustificazioni scritte, anche se queste siano ampie e potenzialmente esaustive” (cosi’ Cass. n. 6845 del 2010; conf. a Cass. n. 7006 del 1999).
Erra dunque in diritto il giudice territoriale nel ritenere non violato della L. n. 300 del 1970, articolo 7, in presenza “di giustificazioni scritte gia’ rese in modo esaustivo” dal lavoratore, atteso che – secondo questa Corte – la richiesta di audizione “non risulta sindacabile dal datore di lavoro in ordine alla sua effettiva idoneita’ difensiva, per essere tale esito, garantito dall’articolo 7, comma 2, non solo conforme alla chiara lettera della norma, ma, ancor prima, funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti, e, quindi, alla piena realizzazione del diritto di difesa dell’incolpato”, non potendosi dare “ingresso ad una valutazione di compatibilita’ della facolta’ di audizione esercitata dal lavoratore incolpato alla luce delle difese gia’ svolte e della sua idoneita’ ad utilmente integrare quest’ultime, che non determinerebbe un mero criterio di valutazione dell’esercizio del diritto, ma risulterebbe, in realta’, sostanzialmente conformativa del precetto legale” (in termini Cass. n. 5864 del 2010; conf. Cass. n. 12978 del 2011 e Cass. n. 23528 del 2013).
D’altro canto e’ costante l’insegnamento di legittimita’ nel senso che l’esercizio del potere disciplinare, al pari dell’esecuzione di tutti i comportamenti negoziali, non puo’ sottrarsi all’applicazione dei canoni di correttezza e buona fede, affidato comunque allo scrutinio del giudice di merito (cfr. Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 23528 del 2013; Cass. n. 3058 del 2013; Cass. n. 7493 del 2011; Cass. n. 488 del 2005; Cass. n. 19350 del 2003; Cass. n. 4187 del 2002; Cass. n. 10760 del 2001), non potendosi ad esempio pretendere, per criterio di ragionevolezza, che il datore di lavoro protragga sine die la procedura disciplinare nell’attesa dell’ascolto dell’incolpato, allorquando l’impedimento posto a fondamento del rinvio sia pero’ legato ad una durata tale da essere incompatibile con l’interesse stesso alla prosecuzione del rapporto di lavoro ovvero quando la mancata presentazione all’audizione, a prescindere da ogni sindacato sulle giustificazioni scritte gia’ rese, palesi intenti manifestamente dilatori, con un giudizio da effettuarsi ex ante tenendo conto di ogni circostanza rilevante ai fini della valutazione delle ragioni addotte a fondamento della protrazione del procedimento disciplinare.
L’esigenza di un esercizio prudente dal parte del datore di lavoro della negazione del diritto dell’accusato all’audizione appare ancora piu’ sentita nel vigore della L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 41, secondo cui “il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare di cui della L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 7…, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo e’ stato avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennita’ sostitutiva;… il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato”. In tal modo il legislatore, per quanto possibile, ha inteso proprio proteggere l’interesse datoriale da condotte abusive del lavoratore finalizzate a procrastinare nel tempo la possibile estinzione del rapporto di lavoro, senza tuttavia minare il principio fondante di ogni diritto punitivo dell’audiatur et altera pars (cfr. Corte cost. n. 204 del 1982).
Nella specie, poi, sussistendo una detenzione che non rendeva possibile la prestazione lavorativa per la sua durata, era comunque applicabile il principio per il quale, fuori dei casi, previsti dalla legge, in cui e’ accordata al lavoratore una particolare tutela, non e’ dovuta retribuzione al lavoratore nell’ipotesi di sopravvenuta impossibilita’, per factum principis o per altra ragione, di svolgimento delle mansioni a lui assegnate, sicche’ a fronte della prestazione lavorativa venuta a mancare non e’ dovuta la corrispondente retribuzione (Cass. n. 7263 del 1996; Cass. n. 9407 del 2001).
Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non dubitandosi che il rilevato difetto del procedimento disciplinare determini una “violazione… della procedura di cui della L. n. 300 del 1970, articolo 7, con conseguente operativita’ della tutela prevista dell’articolo 18, comma 6 della stessa legge, come novellato dalla L. n. 92 del 2012 – tutela gradatamente richiesta dal (OMISSIS) anche nell’atto di reclamo – occorre rinviare al giudice indicato in dispositivo affinche’, come previsto da detto sesto comma, “dichiarato inefficace” il recesso e comunque “risolto il rapporto di lavoro”, attribuisca al lavoratore “un’indennita’ risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravita’ della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”.
6.- Conclusivamente, accolto il primo motivo e respinti gli altri, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo che si uniformera’ a quanto statuito, provvedendo altresi’ sulle spese.
P.Q.M.
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