SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV
SENTENZA 26 maggio 2015, n. 22037
Ritenuto in fatto
La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 27/11/2013, in riforma della pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Roma il 28/11/2011, ha assolto M.P. per insussistenza del fatto dal reato di lesioni colpose gravi ascrittogli perché, in qualità di Presidente della squadra di calcio (omissis), nell’allestire il campo da gioco in cui si svolgevano le partite della predetta squadra, avrebbe cagionato in data (omissis) lesioni gravi a V.S.M. per non aver rispettato, per colpa, la distanza tra la linea bianca delimitatoria del campo di calcio e la palificazione, distanza stabilita dalla legge in misura di m. 1,5 e risultante, invece, pari a m. 1,4.
Il giudice di primo grado aveva così ricostruito il fatto: il 1 ottobre 2006, nel corso di un incontro di calcio del campionato di prima categoria, V.S.M. , giocatore della squadra ospite, aveva riportato un serio incidente al ginocchio sinistro; la partita si disputava sul campo della (omissis) e, pochi minuti dopo il fischio d’inizio, V.S.M. , nel contendere il pallone ad un avversario nei pressi della linea laterale di bordo campo, era stato spinto da quest’ultimo ed era andato ad urtare violentemente con il ginocchio contro un palo in ferro di sostegno alla recinzione del terreno di gioco, riportando la frattura pluriframmentaria della rotula sinistra; l’imputato era titolare di una posizione di garanzia in relazione all’incolumità degli utenti dell’impianto utilizzato per i propri scopi sociali dall’associazione da lui presieduta ed era, pertanto, tenuto a vigilare sul rispetto delle regole emanate dalla Federazione Italiana Gioco Calcio per lo svolgimento delle gare nonché sull’applicazione delle norme di ordinaria prudenza volte a preservare la salute di coloro che usufruiscono del centro sportivo gestito dall’associazione; i pali di sostegno della recinzione del campo non rispettavano le prescrizioni sulla distanza dal terreno di gioco dettate dalla Federazione, trovandosi a cm.114 dalla linea di bordo campo, ed erano stati lasciati privi di protezione. Il Tribunale aveva ritenuto, in ogni caso, non determinante la circostanza che la distanza in questione fosse conforme alle norme regolamentari dettate dalla Federazione, essendo evidenti le condizioni di pericolosità determinate dalla posizione dei pali nel caso concreto, che il gestore del campo avrebbe dovuto ridurre, quanto meno apponendo semplici ed economiche protezioni in gommapiuma.
La Corte di Appello è, invece, pervenuta alla pronuncia assolutoria ritenendo che l’affermazione di responsabilità dell’imputato fosse fondata su elementi fattuali incerti e approssimativi, neppure avvalorati da precisi e tempestivi accertamenti tecnici o da chiara documentazione fotografica raffigurante lo stato dei luoghi al momento dell’infortunio. Il giudice di appello ha ritenuto che l’individuazione esatta della distanza tra la linea bianca di delimitazione del terreno di gioco e il palo in ferro di sostegno alla recinzione fosse essenziale, data la differenza minima tra la distanza ritenuta regolamentare e quella contestata oltre che la difficoltà di un calcolo certo, essendo tale distanza soggetta nel tempo a possibili mutamenti legati alla variabilità della linea bianca laterale, di gesso volatile. La Corte territoriale ha attribuito rilievo all’accertamento che l’impianto sportivo fosse stato omologato dalla Federazione, ritenendo che l’imputato avesse fatto logico affidamento sulle verifiche effettuate da organismi il cui compito sociale e statutario è proprio quello di garantire le condizioni di sicurezza degli impianti sportivi, oltre che al fatto che la (OMISSIS) avesse solo in uso l’impianto sportivo, di proprietà di terzi, e che la collocazione dei pali di sostegno della recinzione fosse stata realizzata dalla società proprietaria; né il Presidente della squadra di calcio che utilizzava il campo da gioco avrebbe potuto eseguire, si legge nella sentenza, modifiche strutturali per garantire il rispetto di condizioni di sicurezza già certificate dagli organismi competenti. In definitiva, la Corte di Appello ha ritenuto sussistente, entro determinati limiti, la posizione di garanzia del Presidente della squadra di calcio ma ha, comunque, escluso il rapporto di causalità tra la condotta antidoverosa e l’evento, rimarcando che, in base alla violenza dell’impatto emergente da una serie di atti e desumibile dalle conseguenze lesive riportate dal querelante, non potesse ritenersi dimostrato con rassicurante certezza, in assenza di specifici accertamenti medico-legali, il dato controfattuale che l’evento non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato in forma attenuata qualora il palo fosse stato posizionato a distanza regolamentare, essendo razionalmente credibile, al contrario, che l’infortunio si sarebbe ugualmente verificato, avuto riguardo alla violenza dello scontro e alla contestata differenza di minima entità rispetto alla distanza considerata regolamentare.
V.S.M. , a mezzo di procuratore speciale, propone ricorso per cassazione ai soli effetti civili deducendo, con unico motivo, vizio di motivazione. In particolare, secondo il ricorrente, la Corte di Appello ha omesso di considerare dati probatori di decisiva rilevanza, ignorando del tutto le argomentazioni sul punto svolte dal giudice di primo grado. Nella sentenza impugnata si afferma che la differenza tra la distanza regolamentare e quella alla quale il palo era infisso sarebbe pari a cm.10, assumendo come dato di riferimento la misura contestata nel capo di imputazione, senza tenere conto delle risultanze dibattimentali, che avevano fissato il palo alla distanza di cm. 114, con una differenza rispetto alla distanza regolamentare di 36 centimetri.
Da tali misure, si deduce, il Tribunale aveva tratto la conclusione che la vicinanza del palo fosse stata una delle cause principali, non solo dell’incidente ma anche, dell’entità delle lesioni riportate. Il ricorrente lamenta che tale argomentazione, sebbene fondata su precisi dati probatori, sia stata del tutto ignorata dalla Corte di Appello; era, infatti, emerso in dibattimento che la rete di delimitazione del campo fosse stata integrata con una sopraelevazione impostata su pali metallici infissi a cm.114 dal bordo del campo. La sentenza impugnata avrebbe ignorato l’esito istruttorio anche nella parte in cui ha ritenuto volatile la linea di gesso delimitante il campo di gioco, essendo emerso dalla testimonianza di Amato Aldo che le righe del campo venivano tracciate in modo semplice e preciso per mezzo di un carrellino che scorreva lungo un filo teso tra le bandierine d’angolo, stabilmente infisse sul terreno. Nel ricorso si censura anche l’affermazione secondo la quale la violenza della spinta da parte dell’avversario avrebbe interrotto il rapporto causale tra condotta dell’imputato ed evento lesivo, non potendosi essa considerare comportamento straordinario ed eccezionale e dovendosi ritenere la spinta del calciatore antagonista mera concausa dell’evento. Si censura, quindi, per contraddittorietà la motivazione laddove, dopo aver ritenuto che l’imputato avesse fatto affidamento sulle verifiche effettuate dalla Federazione, si è affermato che l’imputato rivestisse comunque una posizione di garanzia e che, quale Presidente della squadra di calcio, avrebbe dovuto verificare l’idoneità delle condizioni di sicurezza degli impianti, nonostante la avvenuta omologazione del campo di calcio. Il Tribunale aveva, peraltro, individuato a carico dell’imputato un profilo di colpa generica, per la violazione di norme di ordinaria prudenza mediante l’omessa applicazione di protezioni in gommapiuma, e tale passaggio cruciale della pronuncia è stato ignorato dalla sentenza impugnata.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato.
Deve premettersi che è ammissibile l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione (art. 576 cod. proc. pen.) preordinata a ottenere l’affermazione della responsabilità dell’imputato o, in caso di ricorso per cassazione, l’annullamento della pronuncia assolutoria, quale logico presupposto della condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, con la conseguenza che detta richiesta, indipendentemente dalla modifica delle statuizioni penali, sulle quali, in mancanza dell’impugnazione del Pubblico Ministero, si viene a formare il giudicato, possa tendere all’affermazione della responsabilità dell’imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno.
2.1. In una recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 6509 del 20/12/2012, dep.2013, Colucci, Rv. 254130), il principio sopra espresso è stato ulteriormente sviluppato, accogliendo l’orientamento interpretativo formatosi all’interno della Corte secondo il quale l’impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, è ammissibile anche quando non contenga l’espressa indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili.
2.2. Pertanto, atteso che, nel caso di specie, il Tribunale di Roma aveva condannato l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile, e che tale statuizione è stata riformata dalla Corte di Appello, con eliminazione delle statuizioni civili, si deve procedere ad un esame approfondito dei motivi di doglianza, ai soli fini della responsabilità civile.
La Corte territoriale, riformando la sentenza di condanna, ha applicato il principio in base al quale la regola di giudizio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, introdotta formalmente dall’art.5 legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell’art. 533 cod.proc.pen., impone al giudice di procedere ad un completo esame degli elementi di prova rilevanti e di argomentare adeguatamente circa le opzioni valutative della prova, giustificando, con percorsi razionali idonei, che non residuino dubbi in ordine alla responsabilità dell’imputato. Si è, infatti, affermato (Sez. 2, n.7035 del 9/11/2012, dep. 2013, De Bartolomei, Rv. 254025) che “la previsione normativa della regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato” (conf. nn. 7036, 7037, 7038, 7039, 7040/2013).
3.1. Mette conto, tuttavia, sottolineare come la codificazione di tale principio abbia assunto, nella giurisprudenza della Corte, particolare rilievo nel giudizio di legittimità circa la motivazione della sentenza di appello che abbia riformato la sentenza di assoluzione in primo grado (Sez. 6,n. 1266 del 10/10/2012, dep. 2013, Andrini, Rv. 254024; Sez. 2, n.11883 del 8/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez.6, n.8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113), anche in relazione ai principi affermati in materia dalla CEDU (Corte EDU 5/07/2011, Dan e. Moldavia, parr. 32 e 33), imponendo, in tale ipotesi, particolare rigore metodologico ed argomentativo al giudice di secondo grado.
3.2. Cionondimeno, anche nell’opposta ipotesi in cui il giudice di appello abbia riformato, assolvendo l’imputato, la sentenza di condanna di primo grado, nel giudizio di legittimità è doveroso il controllo circa la corretta applicazione dei principi che disciplinano la valutazione della prova e l’obbligo di motivazione. Il giudice di appello che riformi la decisione di condanna di primo grado, pervenendo a una sentenza di assoluzione, non può, infatti, limitarsi a prospettare notazioni critiche di dissenso alla pronuncia impugnata, dovendo piuttosto esaminare, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e mettere in luce le carenze o aporie della decisione impugnata, per dare, con riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327; Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005).
La sentenza impugnata non risulta rispettosa di tali criteri, posto che, in presenza di una pronuncia di condanna che trovava fondamento nel preciso dato istruttorio, emergente dalla prova testimoniale e documentale, secondo il quale l’originaria rete di delimitazione del campo era stata integrata con una sopraelevazione impostata su pali metallici collocati a distanza di cm.114 dal bordo del campo, ha motivato l’opposta conclusione fermandosi al dato della distanza di cm. 140 indicato nel capo d’imputazione. Il giudice di appello ha, di fatto, ignorato che un diverso dato avesse assunto nella sentenza di primo grado rilievo decisivo per ascrivere all’imputato anche la responsabilità omissiva per colpa generica, per aver omesso di ridurre la pericolosità del campo di gioco, resa evidente dal posizionamento a così breve distanza dal bordo campo della palificazione metallica, omettendo di confutare specificamente tale argomentazione.
Anche la censura riguardante la contraddittorietà della motivazione risulta condivisibile. Non appare, infatti, esservi lineare consequenzialità tra l’affermazione secondo la quale l’imputato aveva fatto logico affidamento sulla omologazione del campo effettuata dalla Federazione, correlata anche all’ulteriore assunto che la società da lui gestita non avesse realizzato la recinzione del campo, di proprietà di terzi, e l’ulteriore affermazione secondo la quale l’imputato era titolare di una posizione di garanzia in quanto, quale Presidente della squadra di calcio, avrebbe comunque dovuto verificare l’idoneità delle condizioni di sicurezza dell’impianto, nonostante la avvenuta omologazione del campo di calcio. Va rilevata, sul punto, una specifica carenza della motivazione che, così come espressa, contiene affermazioni che risultano in contraddizione tra loro senza sviluppare adeguatamente il ragionamento ad esse sotteso.
5.1. Giova, infatti, ricordare che, seguendo un orientamento costante, la Corte di Cassazione ha stabilito che il responsabile di una società sportiva – che quindi gestisce impianti ed attrezzature per le relative attività – è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell’art. 40, secondo comma, cod. pen., a tutela della incolumità di coloro che li utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del neminem laedere, sia nella sua qualità di custode delle stesse attrezzature (come tale civilmente responsabile, per il disposto dell’art. 2051 cod. civ. dei danni provocati dalla cosa, fuori dall’ipotesi del caso fortuito), sia, infine, quando l’uso delle attrezzature dia luogo ad una attività da qualificarsi pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 cod. civ. (Sez. 4, n. 16998 del 24/01/2006, Pisanu, Rv.233831). Ne discende che l’omessa adozione di accorgimenti e cautele idonei al suddetto scopo, in presenza dei quali l’incidente non si sarebbe verificato od avrebbe cagionato pregiudizio meno grave per l’incolumità fisica dell’utente, costituisce violazione di un obbligo di protezione gravante su tale soggetto. Posto che l’attività sportiva del gioco del calcio (benché non assimilabile alle discipline qualificabili come sport estremi, ovvero all’automobilismo od al motociclismo od all’alpinismo) è comunque attività pericolosa, in ragione dei coessenziali rischi per l’incolumità fisica dei giocatori dalla stessa derivanti, deve in altre parole affermarsi che la posizione di garanzia di cui il titolare o responsabile dell’impianto è investito implichi la sicura imposizione di porre in atto quanto è possibile per impedire il verificarsi di eventi lesivi per coloro che praticano detto sport, previa utilizzazione dell’impianto e delle connesse attrezzature (Sez. 4, n. 18798 del 20/09/2011, dep. 2012, Restelli, Rv. 253918).
5.2. Nel caso in esame, dunque, la posizione di garanzia rivestita dall’imputato, quale responsabile della società sportiva che aveva in uso il campo da gioco, nei confronti degli utilizzatori, peraltro riconosciuta nella stessa sentenza impugnata, imponeva al giudice di appello di confutare specificamente il punto della decisione di primo grado che aveva ritenuto omesse le doverose cautele anche sotto il profilo della colpa generica.
La sentenza impugnata presenta una motivazione carente anche con riguardo all’analisi del nesso di causa. In primo luogo, la condotta del giocatore antagonista è stata giudicata causa esclusiva dell’evento in base ad un giudizio controfattuale fondato sul dato non accertato, di cui si è già detto, che il palo si trovasse a distanza di m.1,40 dal bordo del campo, senza alcun riferimento alle argomentazioni svolte dal Tribunale sul punto. La Corte territoriale ha, inoltre, omesso di confutare con il dovuto approfondimento quanto affermato dal Tribunale in merito al fatto che la posizione regolare della palificazione avrebbe consentito al giocatore di riprendere il controllo della propria corsa dopo la spinta subita dall’altro giocatore e di evitare l’impatto o, quanto meno, di attenuarne le conseguenze.
6.1. Va, in punto di diritto, ricordato che l’attività del giudice, quando si tratta di nesso di causa, si sostanzia nell’accertare se l’imputato abbia, con la sua condotta, commissiva od omissiva, contribuito al verificarsi dell’evento; detto in altre parole, al giudice spetta il compito di accertare se, senza l’intervento umano, l’evento si sarebbe o meno verificato o si sarebbe verificato con diverse modalità. Ciò significa che la responsabilità dell’imputato deve essere affermata tutte le volte in cui, nel concatenarsi dei fatti che hanno materialmente prodotto un determinato evento, sia provata l’interferenza dell’opera, o dell’omissione di un’azione dovuta, dell’uomo. La regola che disciplina l’accertamento del nesso di causa, posta dagli artt. 40 e 41 cod. pen., viene comunemente indicata come teoria dell’equivalenza delle cause e si rappresenta con il procedimento logico dell’eliminazione mentale: un’azione è causa dell’evento se, eliminandola mentalmente, l’evento non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato in altro modo.
6.2. Il giudizio controfattuale rappresenta, quindi, il percorso logico mediante il quale si spiega il giudizio di accertamento di un fatto come conseguenza logicamente possibile di un atto; a tanto si perviene esaminando con quale grado di probabilità logica, in assenza di quell’atto, l’evento si sarebbe ugualmente verificato, analizzando i dati del caso concreto nell’ottica di un giudizio basato su criteri di certezza processuale (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138).
6.3. Ma il rischio che i giocatori, nel corso della normale azione di gioco, possano finire per attingere o per entrare in contatto con la rete di recinzione a seguito dello scontro con altro giocatore non può qualificarsi come evento eccezionale ed imprevedibile, tanto è vero che tale rischio è insito nella regola cautelare imposta dalla stessa Federazione sportiva. È per tale ragione necessario che il giudice di appello che intenda pervenire alla pronuncia assolutoria fornisca adeguata motivazione, e confuti specificamente quanto indicato sul punto nella sentenza di condanna di primo grado, in merito alle ragioni per le quali, nel caso in esame, l’impropria apposizione della palificazione di sostegno della rete non fosse inquadrabile nella pluralità di fattori causali, coefficienti nel loro coesistere rispetto all’infortunio così come in concreto verificatosi.
La sentenza impugnata deve quindi esser annullata con rinvio ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen. al giudice civile competente in grado d’appello che, in sede di nuovo esame della vicenda processuale agli effetti civili, terrà conto di quanto sopra osservato e provvederà altresì al regolamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello cui rimette anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.
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