Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza n. 21234 del 29 novembre 2012
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La società S.I.L.E. conveniva in giudizio l’allora società Savoia S.p.A., peri sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’occupazione di vari immobili, deducendo che la Corte di Appello di Milano aveva annullato il contratto di compravendita stipulato tra la S.I.L.E. in bonis, e la Savoia per gli immobili suddetti, affermando il diritto di essa attrice ad essere risarcita. Aggiungeva che il danno corrispondeva al periodo di tempo in cui non aveva potuto disporre degli immobili occupati dalla società Savoia sine titulo. Si costituiva la Savoia, evidenziando che la sentenza della Corte di Appello di Milano era stata impugnata presso questa S.C.; in ogni caso chiedeva il rigetto della domanda.
Nel corso del giudizio di primo grado era depositata la decisione della Suprema Corte che aveva rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano. Il Tribunale condannava la Winterthur (che aveva nelle more incorporato la Savoia assicurazioni), al pagamento della somma di Euro 670140,82 pari al valore locativo degli immobili in questione.
2. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata il 19 giugno 2008 e notificata il successivo 2 ottobre, la Corte di Appello di Roma accoglieva l’appello dell’Aurora assicurazioni (ulteriore denominazione acquisita nelle more dalla Winterthur, già Savoia), osservando che, valutando in concreto il preteso danno derivante dalla restituzione dell’immobile a distanza di tempo rispetto alla consegna per effetto del contratto (poi annullato), tale danno non poteva sic et simpliciter ricondursi all’ipotesi di danno in re ipsa. Aggiungeva che, sebbene in via di principio il ritardo nella restituzione dell’immobile consente l’ulteriore risarcimento connesso alla mancata disponibilità dell’immobile, cioè del reddito che il danneggiato avrebbe potuto ricavare ove il bene fosse rimasto nella sua disponibilità (lucro cessante), determinabile con riferimento al valore locativo dell’immobile maturato medio tempore, tale principio presuppone che il soggetto a cui debba essere restituito l’immobile sarebbe stato in grado di gestirlo autonomamente. Nel caso in esame proprio la circostanza che la liquidazione coatta amministrativa non era libera di agire nel mercato come meglio credesse, ma doveva attenersi ai criteri di legge ed in particolare al principio che il commissario liquidatore avrebbe dovuto procedere al più presto alla liquidazione del patrimonio onde pagare i creditori concorsuali, escludeva che si potesse ricorrere a tale modalità presuntiva di determinazione del danno. In altri termini, ove l’immobile fosse stato restituito, per ipotesi, immediatamente al momento della citazione, il Commissario non avrebbe potuto procedere alla locazione (che per legge ha una durata elevata) se non per un periodo limitato e sempre che non fosse stato possibile procedere alla vendita immediata. Sicchè sarebbe stato onere della Liquidazione dimostrare quale danno ulteriore in concreto avesse ricevuto, rispetto alla restituzione dell’immobile, in grado di per sè a eliminare il pregiudizio subito dalla vendita. Tenuto presente che tra la data del contratto poi annullato e quella della restituzione, avvenuta nel 1992 vi era stato un incremento di valore degli immobili notevole, come era cognizione di comune esperienza, e sopratutto in Roma, come poteva del resto agevolmente argomentarsi dalla c.t.u., sarebbe stato onere di essa S.I.L.E. in L.C.A. di provare quale danno in concreto avesse ricevuto da una vendita differita nel tempo. Inoltre, in base a quanto accertato dal c.t.u., i beni in questione al momento della restituzione erano in buono stato essendo stati oggetto anche di vari e penetranti interventi dell’Aurora, che a seguito dell’acquisto aveva eseguito una serie di opere migliorative. Per effetto della restituzione, la liquidazione aveva, secondo la Corte territoriale, avuto un bene di maggior pregio in conseguenza degli interventi realizzati dalla parte convenuta essendosi, peraltro, anche avvantaggiata dell’incremento del valore degli immobili. Il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso.
Pertanto, una volta ricomposto il patrimonio della S.I.L.E. mediante la restituzione dell’immobile, non poteva automaticamente riconoscersi il valore locativo maturato medio tempore proprio per le finalità cogenti della Liquidazione Coatta Amministrativa. Un eventuale danno ulteriore rispetto alla restituzione degli immobili imponeva nel caso concreto la dimostrazione che, per effetto del ritardo nella disponibilità dell’immobile, vi fosse differenza tra il valore di vendita che si sarebbe potuto conseguire tra la data della citazione (effettuata proprio dalla S.I.L.E. in L.c.a.) e quello del momento della restituzione, ma un tale danno non era stato non solo non provato ma neppure prospettato, avendo la Liquidazione inteso conseguire il solo danno di mancata disponibilità che se in genere è dovuto ali imprenditore commerciale ordinario, il quale utilizza gli immobili sia per acquisire liquidità immediata con la locazione, sia per costituire un investimento a lungo termine, non avrebbe potuto essere riconosciuto alla gestione della liquidazione coatta amministrativa per quanto innanzi osservato dalla Corte territoriale.
3. La S.I.L.E. propone ricorso per cassazione sulla base dei seguenti cinque motivi; resiste l’Aurora con controricorso e chiede dichiararsi inammissibile e, comunque, rigettarsi il ricorso. Le parti hanno entrambe presentato memoria ex art. 378 c.p.c..
3.1. Col primo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dei principi e norme che disciplinano il risarcimento per fatto illecito, in particolare degli artt. 2043, 2056, 1223, 1226 e 1227 c.c., nonchè dei principi e norme che, nell’ipotesi di illecito extracontrattuale, prevedono la risarcibilità dei danni causati direttamente dall’illecito extracontrattuale, escludendo la rilevanza di circostanze estranee alla condotta illecita (art. 360 c.p.c., n. 3) e chiede alla Corte se vi sia violazione di dette norme e principi “allorquando, come nella specie, la Corte territoriale, ai fini della valutazione di siffatto danno (rectius: al fine di escludere la sussistenza del suddetto danno) ha dato rilievo a circostanze diverse dalla semplice indisponibilità, per il proprietario, dei cespiti immobiliari e, quindi, all’incremento del valore degli immobili che sarebbe intervenuto nel periodo intercorrente tra la data di stipula del contratto annullato (ottobre 1980) e quella della restituzione dell’immobile (giugno 1992)”.
3.2. Nel secondo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè dei principi che disciplinano l’onere probatorio (art. 360 c.p.c., n. 3) e chiede alla Corte se vi sia violazione di dette norme e principi allorquando, come nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che l’odierna ricorrente non avesse fornito la prova dell’esistenza e dell’entità dei danni subiti per l’occupazione sine titulo posta in essere dalla Savoia, senza considerare che l’odierna ricorrente aveva provato il fatto illecito causativo di danno con la produzione della sentenza della Corte di Appello di Milano n. 1190 del 1989, passata in giudicato, che aveva esplicitamente accertato l’illecito comportamento della Savoia, con riferimento sia alla stipulazione del contratto in conflitto di interessi, sia alla conseguente perdita, da parte della S.I.L.E., della disponibilità dell’immobile e senza considerare, altresì, che la stessa aveva depositato, sin dal giudizio di primo grado, il verbale di riconsegna dell’immobile, al fine di dimostrare la durata dell’occupazione sine titulo del bene da parte della Savoia, con la conseguenza che l’odierna ricorrente aveva provato, come era suo onere, il fatto illecito dannoso ed il danno, consistente nella mancata disponibilità dell’immobile dall’ottobre 1980 al giugno 1992 e che, ai fini della quantificazione dell’indennità di occupazione, il giudice di primo grado aveva, correttamente, disposto c.t.u..
3.3. Col terzo motivo, deduce violazione e falsa applicazione delle norme che disciplinano le procedure concorsuali ed in particolare la liquidazione coatta amministrativa (art. 360 c.p.c., n. 3) e chiede alla Corte se vi sia violazione di dette norme “allorquando, come nella specie, la Corte territoriale, ha ritenuto non ravvisabile, in concreto, un danno conseguente alla mancata disponibilità dell’immobile oggetto della compravendita annullata, e ciò sul presupposto che la S.I.L.E. si trovava in liquidazione coatta amministrativa e, quindi, secondo il ragionamento della Corte d’Appello, nell’impossibilità di locare l’immobile in questione, dovendo la gestione liquidatoria procedere esclusivamente alla vendita immediata dell’immobile al fine di soddisfare i creditori concorsuali”.
3.4. Col quarto motivo, la società deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e chiede alla Corte se vi sia violazione di detta norma “allorquando, come nella specie, la Corte territoriale, ha ritenuto non provato il danno in concreto subito dalla S.I.L.E. in l.c.a. in conseguenza di una vendita differita dell’immobile, e ciò in considerazione del fatto che “dalla data del contratto annullato a quella della restituzione avvenuta nel 1992″ vi era stato un notevole incremento del valore dell’immobile, senza considerare, quindi, che nel nostro ordinamento la sola diminuzione del risarcimento del danno è correlata, non ad un fatto estraneo alla fattispecie dannosa, ma ad un fatto colposo del creditore, nella specie neppure astrattamente ipotizzarle”.
3.5. Nel quinto motivo, lamenta illogicità e contraddittorietà della, motivazione su punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5). Chiede alla Corte “se possa ritenersi congruamente e logicamente motivata la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di secondo grado, valorizzando la sentenza della Corte d’Appello di Milano, il cui giudicato è stato posto a base della pretesa risarcitoria, ha rilevato che detta Corte territoriale “si è limitata ad affermare che la condotta dell’acquirente a conoscenza del conflitto di interessi del rappresentante era certamente antigiuridica e potenzialmente produttiva di danno, ma tale statuizione non pregiudicava, nell’attuale giudizio, la questione dell’esistenza e dell’entità del danno per la S.I.L.E. S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa” e che “valutando in concreto il preteso danno derivante dalla restituzione dell’immobile a distanza di tempo rispetto alla consegna per effetto del contratto poi annullato, tale danno non poteva, sic et simpliciter, ricondursi all’ipotesi di danno in re ipsa”; e ciòsenza considerare che l’odierna ricorrente aveva fornito la prova dell’esistenza e dell’entità del danno, avendo dimostrato il fatto causativo di danno con la produzione della sentenza della Corte di Appello di Milano n. 1190 del 1989 passata in giudicato che aveva accertato l’illecito comportamento della Savoia sia con riferimento alla stipulazione del contratto in conflitto di interessi, sia con riferimento alla conseguente perdita, da parte della S.I.L.E. della disponibilità del bene compravenduto, e che l’odierna ricorrente aveva prodotto già nel giudizio di primo grado, verbale di riconsegna dell’immobile comprovante anche la cessazione dell’illecito produttivo di danno Dica, altresì, la Corte se possa ritenersi correttamente e congruamente motivata la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha escluso il danno connesso alla disponibilità dell’immobile sul presupposto che la S.I.L.E. in l.c.a. non sarebbe stata in grado di gestire autonomamente il bene e ciò in considerazione del fatto che la liquidazione coatta amministrativa “non sarebbe stata libera” di agire nel mercato come meglio credesse, senza considerare che la “preclusione” di cui alla motivazione della sentenza impugnata non trova riscontro nelle norme e nei principi che disciplinano le procedure concorsuali ed in particolare la procedura di liquidazione coatta amministrativa. Dica, infine, la Corte se possa ritenersi logicamente e congruamente motivata la sentenza impugnata nella parte in cui ha statuito testualmente: “dopo l’illecito accertato con sentenza passata in giudicato della Savoia, la S.I.L.E. non poteva chiedere risarcimento di danno alcuno in quanto, si era avvantaggiata dell’incremento del valore degli immobili”, e ciò senza considerare che detta circostanza si doveva e si deve ritenere assolutamente irrilevante ai fini della quantificazione del danno lamentato, essendo evidente che ogni circostanza successiva alla cessazione dell’illecito causativo del danno è assolutamente irrilevante, ai fini dell’individuazione dell’illecito e del correlativo danno, e che ciò è ancor più vero, allorquando, come nella specie, si è preteso di far riferimento non ad un fatto certo e comprovato ma ad un fatto meramente ipotetico (possibile vendita dell’immobile ad un prezzo maggiore di quello che sarebbe stato realizzato se la indisponibilità del bene non si fosse verificata).
4.1. – I motivi del ricorso – da trattarsi congiuntamente data l’intima connessione, avendo tutti ad oggetto il mancato riconoscimento del quantum – si rivelano privi di pregio.
Nella trattazione dei motivi, mancano idonei elementi circa l’oggetto della questione controversa, circa la sintesi degli sviluppi della controversia sullo stesso, nè la precisa individuazione delle effettive ragioni della decisione oggetto delle critiche del ricorrente.
Invero, si deve ribadire che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 16698 e 7394 del 2010; 4178/07; 10316/06; 15499/04).
Nei motivi in esame, infatti, le assunte violazioni di legge si basano sempre e presuppongono una diversa ricostruzione delle risultanze di causa (in ordine alla prova dell’esistenza in concreto del danno, alla sua reale entità ed al rapporto di causalità, che rappresentano l’oggetto precipuo del giudizio sul quantum; Cass. n. 19453/2008; 21428/2007; 16123/2006), censurabile invece sotto il profilo del vizio di motivazione, secondo il paradigma previsto per la formulazione di detti motivi (e non rispettato, nel caso in esame essendo generico ed inadeguato il momento di sintesi formulato in relazione al quarto motivo).
Del resto, i motivi si limitano alla deduzione dell’asserita violazione delle regole in tema di risarcimento del danno da illecito extracontrattuale e di onere probatorio; mentre il ricorso è teso, in realtà, a censurare da un lato la valutazione degli elementi di prova individuati dalla Corte territoriale, affermando che, invece, la parte ricorrente ne aveva fornito di sufficienti e rilevando, ripetutamente, che la sentenza contiene un’errata valutazione in ordine alla carenza della prova del danno, così confermandosi che la valutazione delle risultanze di causa vi è stata ma che essa, semplicemente, non corrisponde a quella auspicata dalla ricorrente v., tra le tante, Cass. 2272/2007; 16162/2003 e 8898/2003, in motivazione; 2222/2003; 13359/1999; 13342/1999; 5537/1997).
Inoltre, la norma di cui all’art. 2697 c.c. (II motivo) regola l’onere della prova, non anche – come concretamente censurata nella specie – la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass. n. 2707/2004).
In punto di diritto, peraltro, la decisione impugnata è conforme all’orientamento secondo cui il mero ritardo nella riconsegna dell’immobile legittima soltanto la condanna generica al risarcimento del danno, richiedendosi, in sede di liquidazione del danno medesimo, che il proprietario dimostri, con ogni mezzo, e, quindi, anche per presunzioni, l’esistenza di una concreta lesione del suo patrimonio in relazione alle condizioni dell’immobile, alla sua ubicazione e alle possibilità di una specifica attuale utilizzazione (potendo assumere rilievo anche al circostanza che il proprietario non sia autorizzato a dare in locazione a terzi l’immobile oggetto di restituzione: Cass. n. 5051/2009), nonchè all’esistenza di soggetti seriamente disposti ad assicurarsene il godimento dietro corrispettivo (argomento desumibile da Cass. n. 23720/2008; 7499/2007; 993/2002, tutte in tema di ritardato rilascio ex art. 1591 c.c.).
5 – Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 12.200,00, di cui Euro 12.000,00 per onorario, oltre accessori di legge.
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