Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 31 marzo 2016, n. 6218
Svolgimento del processo
P.D. conveniva in giudizio Telecom Italia s.p.a. davanti al tribunale di Napoli, sezione distaccata di Casoria, chiedendo che la convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni patiti conseguentemente all’illegittimo distacco dell’utenza telefonica, avvenuto in assenza di morosità. Il tribunale, in accoglimento della domanda, condannava Telecom al risarcimento dei danni quantificati in euro 70.000.
Avverso detta pronuncia proponeva appello Telecom chiedendone la integrale riforma, non essendo stata fornita dall’interessato la prova dei danni subiti. La corte di appello di Napoli, in accoglimento del gravame, riformava integralmente la sentenza di primo grado, dichiarando compensate le spese. P.D. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi illustrati in memoria.
Telecom ha presentato controricorso, chiedendo dichiararsi inammissibile o comunque rigettarsi il ricorso principale.
Il D. ha depositato anche memoria difensiva, ad ulteriore illustrazione delle doglianze sollevate.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente espone violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 283, 339, 342 cod. proc. civ. in relazione con gli artt. 161,163 n. 3,164, 345, 351 c.p.c., 3, 24 Cost. in quanto la corte di appello, nella sentenza impugnata, ha indicato nel dispositivo con riguardo alla sentenza appellata un numero di ruolo diverso da quello esatto, e quindi relativo a diversa sentenza; inoltre in quanto andava dichiarata l’inammissibilità dell’appello nel quale era contenuto un motivo (il quarto) illegittimo perché relativo alla richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza (che avrebbe dovuto essere formulata ai sensi dell’art. 283 c.p.c.), e per avere dichiarato accolto l’appello nella sua totalità pur avendo rigettato taluno dei motivi prospettati.
Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 161, 162 cod. proc. civ.; 74, 87 disp. att. cod. proc. civ., in relazione agli artt. 112, 113, 168, 345, 347 cod. proc. civ., 72 disp. att. cod. proc. civ., 3 e 24 Cost. mancando agli atti il timbro della cancelleria della corte di appello relativamente all’avvenuto deposito dei documenti elencati nel ricorso da pagina 25 a pagina 27 e non avendo la corte d’appello dichiarato di ufficio l’espulsione dal fascicolo di tali documenti irritualmente inseritivi.
Entrambi i motivi sono inammissibili giacché non consentono di individuare con sufficiente chiarezza le censure mosse alla sentenza impugnata né in cosa consisterebbe la violazione delle numerose disposizioni richiamante in premessa. Inoltre, le censure risultano destituite di fondamento già in prospettazione, non potendo eventuali errori materiali (sul numero di ruolo della sentenza impugnata, tuttavia individuata con certezza dalla corte nella sua decisione), inficiare la decisione; né potendo derivare, dalla eventuale inammissibilità di un motivo di appello (il quarto) automaticamente la inammissibilità dell’intero atto, composto da altri e indipendenti motivi di doglianza; né potendo discendere la nullità della sentenza impugnata dalla formulazione letterale del dispositivo (che, peraltro, è correttamente riferito all’integrale accoglimento dell’appello, avvenuto nella specie, e che non corrisponde, come opina il ricorrente, all’integrale condivisione delle ragioni di impugnazione); né, infine, derivando vizi del processo dalle asserite irregolarità del timbro di deposito dei documenti probativi: non solo perché si tratta di irregolarità sanate, nel caso, dall’assicurato e avvenuto contraddittorio su tali depositi, ma soprattutto, e ciò è dei tutto assorbente, perché la corte territoriale ha accertato e dichiarato l’inadempimento di Telecom, come richiesto dall’odierno ricorrente e diversamente da quanto tentato di dimostrare dalla società di telefonia con le produzioni in oggetto (cosicché la doglianza risulta destituita di interesse). Con il terzo motivo si lamenta violazione, travisamento, falsa e omessa applicazione degli artt. 185, 331, 388, 358, 629, 650 cod. pen., 55 cod. proc.pen., 1176, 1218, 1223, 1226, 1375, 1565, 2043, 2059, 2697 cod. civ., 112,113, 115 20 comma, 116, 339 20 comma cod. proc. civ. in relazione agli artt. 2, 3, 24, 32, 101,108, 111, 112 Cost. per avere la corte di appello ritenuto non provato il danno accertato e liquidato dal giudice di primo grado nonostante l’evidenza dello stesso, essendo tale danno dovuto al palese inadempimento della Telecom. Si lamenta che erroneamente la corte territoriale non avrebbe considerato il pregiudizio arrecato dalla interruzione del servizio al corretto funzionamento dello studio legale condotto dal ricorrente, omettendo di valorizzare la possibilità della liquidazione equitativa del danno medesimo secondo tutte le voci richieste. In premessa deve ribadirsi la distinzione tra fatto di inadempimento (nel caso accertato dal giudice di merito a carico di Telecom) e fatto dannoso eventualmente conseguente. L’accertamento del primo non implica la certezza dei secondo. Inoltre, dei danno deve essere provato l’evento e poi l’ammontare. A tale ultimo riguardo la corte territoriale argomenta a p. 5 che l’interessato non ha fornito la prova del danno, lamentando la perdita della clientela e il danno all’immagine professionale, ma non fornendo alcun argomento e nessuna prova della sussistenza di tali danni, e fornendo, quanto alla prova del danno biologico pure asseritamente subito prova della patologia di cui è affetto con documentazione di anni pregressa ai fatti per cui è causa (che dunque non hanno potuto sprigionare efficacia causale sulla stessa).
A tal riguardo giova richiamare la giurisprudenza di legittimità, da ultimo ribadita in Cass. 8. 1.2016, n. 127, per cui il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice del merito dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., s’inquadra nel potere generale attribuitogli dal disposto dell’art. 115 cod. proc. civ.; cosicché non si estrinseca in un giudizio d’equità ma in un giudizio di diritto caratterizzato dall’equità giudiziale correttiva od integrativa, e trova ingresso, a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova dei quantum debeatur.
Grava, pertanto, sulla parte interessata dimostrare, secondo la regola generale posta dall’art. 2697 c.c., ogni elemento di fatto, di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l’apprezzamento equitativo esplichi la sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell’iter della precisa determinazione della misura del danno stesso. Proprio tale onere, ha rilevato la corte territoriale, è risulta inottemperato dall’interessato odierno ricorrente: con conseguente inapplicabilità, nel caso, della regola sulla valutazione equitativa del danno.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in euro 5.500,00, di cui euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, 11 gennaio 2016
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