Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 22 dicembre 2015, n. 50215
Ritenuto in fatto
1. S.G. ricorre per cassazione impugnando la sentenza emessa in data 19 febbraio 2015 dalla Corte d’appello di Potenza che ha confermato quella resa dal tribunale di Matera che aveva condannato il ricorrente alla pena di venti giorni di arresto ed Euro 3.600, 00 di ammenda per il reato previsto dall’articolo 44, comma 1, lettera e), d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 perché, in qualità di comproprietario dell’area ubicata in contrada (omissis) e censita nel Comune di (…), in assenza del permesso di costruire, realizzava abusivamente, in aderenza ad un preesistente fabbricato, un pollaio consistente in un manufatto edilizio a pianta rettangolare delle dimensioni lorde di metri 4,20 per metri 2,65 ed avente struttura portante verticale costituita da muratura perimetrale in tufo dello spessore di cm 27 e struttura orizzontale costituita da 4 travi in legno con sovrastante copertura di pannelli in lamiera zincata con copertura a falda unica.
Accertato in (omissis) .
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, articola i due seguenti motivi di gravame.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione della legge penale ed in particolare dell’articolo 44, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001 e la contraddittorietà della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
Rileva in proposito come egli sia uno dei comproprietari del terreno sul quale si assume essere stata realizzata l’opera abusiva (pollaio) e che è stato individuato quale presunto autore del reato (come si evince dalla deposizione del teste D. ) solo perché al momento dell’accertamento, avvenuto per stessa ammissione del teste escusso dopo un anno dall’ultimazione dell’opera, era presente in loco. Alcun altro elemento è emerso a suo carico nel corso della istruttoria di primo grado e neppure sono emersi altri elementi che consentano di escludere con certezza che la presunta opera abusiva fosse stata realizzata dagli altri comproprietari del terreno, fratelli dell’imputato.
Peraltro la Corte territoriale ha erroneamente escluso che l’opera fosse precaria e che non necessitasse, per essere realizzata, del titolo abilitativo.
2.2. Con il secondo motivo di gravame il ricorrente prospetta l’applicabilità al caso di specie dell’articolo 131 bis codice penale in considerazione della particolare tenuità del fatto, applicabile alla fattispecie quale ius superveniens anche nel giudizio di legittimità. Nel caso in esame, sussisterebbero tutti i presupposti richiesti dall’articolo 131 bis codice penale per la declaratoria della particolare tenuità del fatto ed il riconoscimento della relativa causa di non punibilità atteso che si è in presenza di un “pollaio” di dimensioni lorde 4,20 m 2,65 m, quindi di modeste dimensioni e prontamente demolito a seguito dell’accertamento effettuato dalla polizia locale del Comune di (…).
Non ravvisandosi nella motivazione del provvedimento impugnato elementi che escludano la particolare tenuità del fatto e ritenuta la non abitualità del comportamento, il ricorrente insiste per l’applicazione della causa di non punibilità.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato, per quanto di ragione, sulla base del secondo motivo. Il primo motivo è invece infondato.
2. Secondo la Corte d’appello, dalla documentazione fotografica in atti e dalle deposizioni dei testi autori del sopralluogo effettuato in data 10 maggio 2011, il manufatto realizzato, in assenza del permesso di costruire, consiste in un corpo di fabbrica edificato con blocchetti di tufo con copertura di travi di legno e lamiera zincata, destinato a pollaio, perimetrato da una rete metallica di recinzione infissa in un cordolo anch’esso realizzato con blocchetti di tufo. È stato pertanto escluso trattarsi di un’opera definibile come precaria in quanto non affatto destinata ad esigenze temporanee (non essendo tali quelle sottese a procurare agli animali di cortile un idoneo riparo) ma altresì realizzata con modalità e materiali non idonei ad essere sollecitamente eliminati e denotanti, per converso, la finalizzazione del manufatto ad esigenze non contingenti e limitate nel tempo.
Quanto alla attribuibilita all’imputato dell’opera in questione, è stato posto in evidenza che il teste D. abbia riferito che il ricorrente è l’unico dei comproprietari dell’azienda, cui il pollaio è annesso, ad occuparlo stabilmente in quanto tutti gli altri contitolari “non sono presenti sul territorio” a causa di una problematica attinente proprio al possesso della menzionata azienda che il prevenuto rivendica in via esclusiva.
3. Pertanto, con logica ed adeguata motivazione, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto la non precarietà dell’opera e dunque la necessità che, per la sua realizzazione, fosse necessario il permesso di costruire in considerazione della natura dell’intervento realizzato e ha altrettanto correttamente attribuito il fatto di reato all’imputato essendo costui l’unica persona ad avere un rapporto permanente con i luoghi in cui l’abuso è stato realizzato e l’unica ad avervi interesse ad eseguirlo.
Nel pervenir a tali conclusioni la Corte lucana si è attenuta ai principi di diritto affermati da questa Corte secondo i quali, in materia edilizia, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve risultare dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (Sez. 3, n. 37992 del 03/06/2004, Mandò, Rv. 229601).
Nel caso di specie, il fatto che l’opera fosse adibita abitualmente al ricovero degli animali (pollaio) esclude, con tutta evidenza, la natura precaria della stessa ed il fatto che l’imputato fosse l’unico tra i comproprietari dell’immobile, ove insisteva il manufatto abusivo, ad utilizzarlo induce fondatamente a ritenere che egli fosse il committente dell’opera, stante la diretta utilizzazione della stessa da parte sua e l’assenza in zona degli altri comproprietari.
4. Il secondo motivo è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
La giurisprudenza di questa Corte si è assestata nel senso di ritenere che l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell’art. 609, comma secondo, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito (Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308).
Nel caso di specie, l’applicabilità dell’istituto per effetto dello ius superveniens è stata peraltro eccepita con il secondo motivo di ricorso e sussistono i presupposti affinché il giudice di merito verifichi, in concreto, se sussistono le condizioni per l’applicazione dell’invocata causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, posto che tale accertamento richiede apprezzamenti fattuali (nel caso in esame, anche se l’opera abusiva sia stata o meno rimossa) e che ogni valutazione al riguardo è preclusa in sede di legittimità.
Va tuttavia precisato che nei reati permanenti, nei cui novero rientrano le contravvenzioni relative agli abusi edilizi, è preclusa, quando la permanenza non sia cessata, l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto a cagione della perdurante compressione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, per effetto della condotta delittuosa compiuta dall’autore del fatto di reato, non potendosi considerare tenue, secondo i criteri di cui all’art. 133, comma 1, cod. pen. e dei quali occorre tenere conto ai fini della (particolare) tenuità del fatto, un’offesa all’interesse penalmente tutelato che continua a protrarsi nel tempo. Questa Corte ha tuttavia opportunamente precisato che il reato permanente, non essendo riconducibile nell’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio ex art. 131-bis cod. pen., può essere oggetto di valutazione con riferimento all’”indice-criterio” della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quando più tardi sarà cessata la permanenza (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, non ancora mass.).
Quindi, l’eliminazione dell’opera abusiva, attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della permanenza, può consentire, a condizioni esatte, l’applicazione della causa di non punibilità introdotta dall’art. 131-bis cod. pen..
5. Questa Corte ha già affermato che la particolare tenuità del fatto costituisce una causa di non punibilità atipica (Sez. 3, n. 21014 del 07/05/2015, v. Fregolent, non mass.) per gli effetti negativi che produce per l’imputato (anzitutto la possibile rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi ed, ancora, l’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale) e la sua applicazione presuppone, tra l’altro, l’accertamento della responsabilità penale ossia l’accertamento dell’esistenza delitto e della sua attribuibilità all’imputato.
Ciò spiega la ragione per la quale la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., sia perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, P.C. in proc. Sorbara, Rv. 263885).
Perciò, la questione del concorso tra le due cause di estinzione del reato e non punibilità può porsi solo quando le stesse siano entrambe contemporaneamente applicabili “in partenza”, con la conseguenza che – quando, come nella specie, la Corte di cassazione, non essendosi verificata la causa estintiva della prescrizione del reato, annulli la sentenza con rinvio al giudice di merito per l’applicabilità o meno dell’art. 131-bis cod. pen. (e quindi al cospetto di un annullamento parziale avente ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell’esistenza del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato) – nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale.
6. Siffatta conclusione è autorizzata dal fatto che la “punibilità” – e dunque le cause che per immancabile previsione di legge ne certificano la mancanza (cosiddette “cause di non punibilità”) – non costituisce un elemento costitutivo del reato e l’assenza della punibilità non esclude la configurabilità dell’illecito penale, per la cui ontologica e giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, non anche l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di colui che lo ha commesso.
A questo proposito, sotto un primo profilo, è sufficiente considerare che, ex positivo iure, l’art. 129 cod. proc. pen., allo stesso modo del previgente art. 152 cod. proc. pen. 1930, non ha inserito – al di là dell’accenno (non vincolante per l’interprete) nella rubrica della disposizione alle “cause di non punibilità” (e, all’evidenza, in senso lato) – le altre ragioni di non punibilità, compreso il difetto dell’imputabilità, tra le cause di cui sia obbligatoria la immediata declaratoria (Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, cit., non mass. sul punto).
Tale silenzio non è stato ritenuto il frutto di una mera dimenticanza del legislatore, trovando al contrario radici profonde nei presupposti che giustificano il ricorso alle cause di proscioglimento nel merito, alle cause di estinzione del reato o alle cause d’improcedibilità codificate ed esulando invece dall’ambito operativo della fattispecie processuale le ipotesi in cui la causa di non punibilità possa essere dichiarata esclusivamente dopo l’accertamento del fatto di reato e della sua attribuibilità all’imputato, epilogo, questo, confermato, sia pure con riferimento all’imputabilità, dalla Corte costituzionale (sentenza del 10 febbraio 1993, n. 41) secondo cui la suddetta declaratoria (di non punibilità per difetto d’imputabilità) postula il necessario accertamento della responsabilità in ordine al fatto-reato e della sua attribuibilità all’imputato.
Sotto altro profilo, è stato lucidamente chiarito, in dottrina, come alla punibilità possano essere attribuiti due significati: uno generico, con il quale si rappresenta che un determinato fatto in tanto è preveduto dalla legge come reato in quanto per esso è prevista, come ordinaria conseguenza per coloro che lo hanno commesso, l’applicazione d’una sanzione penale; l’altro, strettamente tecnico, secondo cui nella punibilità deve riconoscersi il complesso di tutti gli elementi richiesti dalle norme del diritto penale sostanziale per l’assoggettamento di una persona alla potestà punitiva dello Stato, pervenendosi alla conclusione che né dal primo punto di vista e né dall’altro la punibilità appare elemento costitutivo o carattere del reato: nel primo caso essa non è infatti che l’indicazione del carattere (o disvalore) criminoso di un determinato fatto i cui estremi costitutivi sono e restano la conformità al tipo, l’antigiuridicità e la colpevolezza; mentre nel secondo la punibilità si identifica con la ordinaria conseguenza del reato, con la potenzialità dell’applicazione della pena, vuoi nel suo momento giudiziale (cosiddetta punibilità in astratto), vuoi nel suo momento esecutivo (cosiddetta punibilità in concreto).
Ne consegue che il precetto penale, pur essendo riconoscibile solo per la previsione della sanzione criminale, tipicizza i fatti che sono configurati dalla legge come reato, rispetto al quale, quando se ne compia l’esame o l’analisi in concreto, la punibilità non appare come indefettibile elemento, posto che i due momenti della norma penale (precetto e sanzione) mostrano in pieno la loro rispettiva autonomia, al punto che l’inapplicabilità della sanzione non appare affatto come elemento decisivo per negare che un determinato interesse rientri nella sfera dei fatti penalmente rilevanti, allorquando l’ordinamento penale una tale rilevanza attribuisca tanto quando ammette l’esistenza di eventi o di condizioni che determinano l’applicabilità della sanzione, pur non facendo parte del fatto tipico (quali le cosiddette condizioni oggettive di punibilità), tanto quando contempla eventi o condizioni che, pur non escludendo il reato perché non attengono né al fatto tipico né alla sua antigiuridicità né alla colpevolezza, escludono tuttavia l’applicabilità della sola sanzione.
Una conferma di tale soluzione si coglie quando si consideri che, pur al cospetto di tali eventi e condizioni che escludono la punibilità, l’esistenza del reato non può negarsi, vuoi perché la causa di non punibilità è riferibile soltanto a un momento successivo a quello del perfezionamento di tutti gli estremi di esso (come nel caso della ritrattazione della falsa testimonianza), vuoi perché la esclusione della pena è rimessa al potere discrezionale del giudice (come nel caso della non punibilità dell’ingiuria per reciprocità delle offese).
Si tratta di un principio che questa Corte ha già affermato con riferimento alla causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma I-bis D.L. 12 settembre 1983, n. 463, conv. in L. 11 novembre 1983, n. 638 a proposito del reato di omesso versamento delle ritenute d’imposta operate dal datore di lavoro allorquando è stato precisato (Sez.3, n. 45451 del 18/07/2014, Cardaci, non mass. sul punto) come le cause, nel caso di specie sopravvenute, di non punibilità siano caratterizzate da situazioni o da fatti che derivano sempre da accadimenti posteriori alla commissione di un reato e tali accadimenti possono essere collegati ad un comportamento dell’agente di valore inverso rispetto alla condotta illecita tenuta (come, a titolo esemplificativo, nel caso di recesso dai delitti di cospirazione politica o di banda armata alle condizioni rispettivamente previste dagli artt. 308 e 309 cod. pen., nel caso di ritrattazione della falsa testimonianza) ovvero ad una manifestazione di volontà del soggetto passivo (come ad esempio nel caso previsto dall’art. 596 cod. pen., comma 3, n. 3, in relazione all’ultimo comma della medesima disposizione) oppure all’esercizio di un potere discrezionale del giudice (come avviene, ad esempio, nell’art. 599 cod.pen. che attribuisce al giudice il potere di non punire uno o entrambi gli offensori se le offese sono reciproche).
Perciò nei casi in cui l’esenzione da pena dipende da comportamenti del reo successivi al fatto o è rimessa soltanto al potere discrezionale del giudice non si può negare che la valutazione compiuta dal legislatore nell’attribuire rilevanza alle cause di esenzione discrezionale da pena riguardino esclusivamente l’an o il quantum della punibilità e non anche gli elementi (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza) che reggono la struttura del reato, presupponendone pertanto l’accertamento e la sua attribuibilità all’autore, posto che la ragione dell’esenzione della pena riposa, di regola, su motivi di convenienza o di politica utilità della punizione che, come è stato precisato, tradizionalmente si vogliono vedere alla base delle cause di esclusione della sola punibilità sussumibili piuttosto in una fattispecie di “perdono” giudiziale che non di un accertamento dei presupposti del dovere di punire.
Va aggiunto come questa Corte, nella sua più autorevole composizione, abbia già affermato il principio secondo il quale la punibilità non può essere considerata un elemento costitutivo del reato, osservando che il diritto positivo, prevedendo cause che escludono l’illiceità del fatto – c.d. cause di giustificazione – nonché cause scusanti che escludono la colpevolezza ma non l’illiceità del fatto (artt. 45, 46, cod. pen.) e cause di esclusione della punibilità in senso stretto – le quali hanno l’effetto di escludere la sola pena lasciando sussistere l’illiceità del fatto e la colpevolezza dello autore – non consente di ritenere che del reato sia sempre componente essenziale l’applicazione della pena comminata, evidenziando come emerga, dunque, un ruolo autonomo della punibilità rispetto al reato, sganciato dall’applicazione della sanzione tipica, punibilità che va, pertanto, esclusa dai suoi elementi costitutivi, anche se, di norma, alla commissione di un illecito penale e accertamento della colpevolezza segue l’applicazione della relativa sanzione. (Sez. U, Sentenza n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, in motiv.).
Decisivo a questo proposito è lo scrutinio concernente la fattispecie riguardante la pacifica ammissibilità di un concorso punibile nel fatto commesso dal soggetto esentato dalla pena per la particolare tenuità del fatto. Se quest’ultimo non avesse realizzato il presupposto minimo della partecipazione criminosa, che è la realizzazione del fatto tipico, un concorso penale del terzo, per il quale sussista l’abitualità del comportamento delittuoso, assente invece nel concorrente, non si potrebbe in alcun modo concepire.
Invece la possibilità di un tale concorso deve essere, secondo i principi generali, pacificamente ammessa cosicché, come è stato rilevato, proprio nella prospettiva del reato plurisoggettivo è dato cogliere la peculiare fisionomia delle cause personali di non punibilità e la loro differenza dalle cause di esclusione del reato.
Ne consegue che il fatto non punibile non assume alcuna diversa rilevanza nel senso che non diviene lecito, ma resta reato, pur se non punibile.
Ciò spiega anche la ragione per la quale la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non configura un’ipotesi di abolitio criminis sul rilievo, desumibile dal comb. disp. ex art. 2, comma 2, cod. pen. e art. 673 cod. proc. pen., che, qualora ricorrono i presupposti dell’istituto previsto dall’art. 131-bis cod. pen., il fatto è pur sempre qualificabile – e qualificato dalla legge – come “reato”, dovendosi ricordare, tra l’altro, che il nuovo art. 651-bis cod. proc. pen. attribuisce efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi alla sentenza dibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto anche “quanto all’accertamento (…) della sua illiceità penale”(Sez. 3, n. 34932 del 24/06/2015, Elia, non mass. sul punto).
7. La causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto si presta quindi a testare ulteriormente le conclusioni alle quali si è giunti in precedenza, convalidandole e confermando che essa presuppone l’integrazione del reato al completo di tutti i suoi elementi e, per l’effetto, l’accertamento della responsabilità e l’attribuibilità del fatto – reato all’autore, il quale rimane esentato, se la causa è applicata, solo dall’assoggettamento alla sanzione penale.
L’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto non esige, allora, un fatto conforme al tipo ma inoffensivo, anzi richiede la presenza di un fatto conforme al tipo ed offensivo, seppure in maniera esigua e tenue secondo i due “indici-criteri” della tenuità del fatto (la “tenuità dell’offesa” e la “non abitualità del comportamento”) in coincidenza necessaria con due ulteriori sotto-indici (o “indici-requisiti”) della tenuità dell’offesa, rappresentati dalle “modalità della condotta” e dalla “esiguità del danno o del pericolo”.
La valutazione in ordine alla sua applicabilità è affidata al potere discrezionale del giudice al quale, secondo il principio della discrezionalità guidata o vincolata per essere i parametri di riferimento normativamente previsti, è affidato il compito di riconoscerne la sussistenza nonostante l’accertata commissione del reato e l’attribuibilità di esso all’imputato.
Logico corollario di tale fisionomia della causa di non punibilità è costituito dagli effetti negativi che il reato commesso produce nonostante che, per ragioni di politica criminale, l’autore è esentato dalla pena: l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti “che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale” e la rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi secondo quanto disposto dall’art. 651-bis, cod. proc. pen. recante la disciplina dell’efficacia della sentenza di proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. nel giudizio civile o amministrativo di danno, con i conseguenti risvolti processuali, tra cui vanno segnalati i più importanti: l’opposizione, ex art. 411, comma 1 bis, cod. proc. pen. che possono presentare la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa sulla richiesta di archiviazione del pubblico ministero per particolare tenuità del fatto, l’esclusione della causa di non punibilità dal novero di quelle codificate nell’art. 129 cod. proc. pen. e la previsione del meccanismo descritto nell’art. 469 cod. proc. pen. posto che la sentenza di non doversi procedere prevista dall’art. 469, comma I-bis, cod. proc. pen. presuppone che l’imputato e il pubblico ministero non si oppongano alla declaratoria di improcedibilità, essendo anche necessario consentire alla persona offesa di interloquire sulla questione della tenuità del fatto mediante notifica dell’avviso della fissazione dell’udienza in camera di consiglio, con espresso riferimento alla procedura ex art. 469, comma I-bis, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, cit.).
Da tutto ciò consegue che l’annullamento con rinvio della sentenza di condanna per la verifica della sussistenza dell’art. 131 bis cod. pen., impedisce l’applicabilità nel giudizio di rinvio della causa di estinzione del reato per prescrizione e, fermo restando l’accertamento della responsabilità penale, la statuizione di condanna rimane sospesa al verificarsi di una condizione costituita dall’applicabilità o meno della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto.
Sul punto, va ricordato che questa Corte ha stabilito che, da un lato, non si può ritenere la punibilità elemento costitutivo del reato, come tale in grado di condizionarne il perfezionamento; dall’altro lato, vige il principio della formazione progressiva del giudicato, che si forma, in conseguenza del giudizio della Corte di cassazione di parziale annullamento dei capi della sentenza e dei punti della decisione impugnati, su quelle statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, quale quella relativa all’accertamento della responsabilità in merito al reato ascritto, che diventano non più suscettibili di ulteriore riesame. (Cass. Sez. 3, n. 15472 del 20/02/2004, cit., Rv. 228499; Sez. 2, n. 44949 del 17/10/2013, Abenavoli, Rv. 257314).
La configurabilità del giudicato progressivo comporta, infatti, che l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione della pena possono intervenire in momenti distinti posto che la punibilità non è elemento costitutivo del reato e dunque non è “extra ordinerà” la concezione di una definitività decisoria che, attenendo all’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto criminoso e ponendo fine all’iter processuale su tale parte, crei una barriera invalicabile all’applicazione di cause estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di annullamento ad opera della Cassazione, con la conseguenza che, se l’annullamento è parziale e non intacca le disposizioni della sentenza che attengono all’affermazione di responsabilità, la sentenza acquista “autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata” (art. 624 cod. proc. pen.) e tale connessione non sussiste quando venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla punibilità, sul rilievo che il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive sopravvenute all’annullamento parziale (Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640).
8. La sentenza impugnata va pertanto annullata per la verifica dell’applicazione al caso di specie della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, alla Corte di appello di Salerno, la quale si atterrà ai principi di diritto in precedenza affermati.
Nel resto, il ricorso va invece rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata – limitatamente alla richiesta di applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. – con rinvio, sul punto, alla Corte di appello di Salerno. Rigetta il ricorso nel resto.
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