iva

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

Sentenza 21 gennaio 2014, n. 2614

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente –

Dott. GRILLO Renato – Consigliere –

Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.V. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 2994/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del 17/04/2012;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/11/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Vito D’Ambrosio che ha concluso per l’inammissibilità.

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Milano con sentenza 17.4.2012 ha confermato la colpevolezza di S.V. per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter rilevando, per quanto interessa:

– che l’erronea indicazione della data di consumazione del reato ((OMISSIS)) in luogo del (OMISSIS)) non integrava alcuna nullità del capo si imputazione perchè, trattandosi di condotta contestata in fatto, il termine per la presentazione della dichiarazione (e quindi la data di consumazione del reato) non poteva che essere quella del (OMISSIS) prevista dalla legge;

– che, quanto alla censura riguardante l’assenza dell’elemento soggettivo, la dedotta difficoltà nel pagamento del debito non aveva rilievo atteso che il soggetto passivo dell’imposta ha solo l’obbligo di versare l’IVA; pertanto, nel caso di specie, vi è stata destinazione a scopi diversi degli importi dovuti.

Il difensore ricorre per cassazione con due motivi.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e c), la nullità del capo di imputazione in ordine alla determinazione del tempus commissi delicti, dolendosi della mancata assoluzione ex art. 129 c.p.p. o della mancata trasmissione degli atti al PM in considerazione dell’errore della data di consumazione del reato contenuta nel capo di imputazione.

La censura è infondata.

Il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter), entrato in vigore il 4 luglio 2006, che punisce il mancato adempimento dell’obbligazione tributaria entro la scadenza del termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successivo, è applicabile anche alle omissioni dei versamenti relativi all’anno 2005, senza che ciò comporti violazione del principio di irretroattività della norma penale (Sez. U, Sentenza n. 37424 del 28/03/2013 Ud. dep. 12/09/2013 Rv. 255758).

Per il perfezionamento del reato in esame è necessario che il contribuente ometta di versare l’IVA dichiarata a debito per l’anno precedente entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta dell’anno successivo, e cioè entro il 27 dicembre dell’anno successivo, giusta la previsione della L. 29 dicembre 1990, n. 405, art. 6, comma 2, come modificato dal D.L. 28 giugno 1995, n. 250, art. 3, convertito dalla L. 8 agosto 1995, n. 349.

Nel caso in esame, il capo di imputazione contiene, effettivamente, un errore nella data di commissione del reato (indicata come 25.7.2006), che però – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – non incide assolutamente sulla validità della contestazione (cfr. in proposito art. 429 c.p.p., lett. c) perchè nel capo di imputazione il fatto viene descritto nelle sue linee essenziali anche con l’indicazione delle norme violate (viene infatti addebitato il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, per omesso versamento, in qualità di legale rappresentante di società, nei termini previsti per la presentazione delle dichiarazioni annuali relativi al 2005, dell’Iva dovuta in base alle dichiarazioni annuali per l’ammontare complessivo di Euro 61.401,00): così contestato il fatto, è evidente che la data di commissione dell’illecito deriva dalla legge, come del resto ammette lo stesso ricorrente a pag. 3.

Una attenta lettura della contestazione consentiva dunque all’imputato di comprendere senz’altro il fatto addebitato e di svolgere adeguatamente la propria difesa.

2. Col secondo motivo, denunziandosi la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), si ripropone la questione della mancanza dell’elemento soggettivo del reato di omesso versamento. Dopo avere proceduto ad una ricostruzione del quadro normativo, il ricorrente perviene alla conclusione secondo cui occorreva considerare la mancanza del fine di evadere l’imposta, trattandosi di una società che svolge attività ben definite e non già di una mera “cartiera”, ma purtroppo in un momento di crisi economica.

Anche questo motivo è infondato.

Con la citata sentenza 37424/2013 le sezioni unite hanno ribadito che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico. Mentre, invero, molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter.

Per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di Euro cinquantamila, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore. La prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di Euro cinquantamila, entro il termine lungo previsto. Il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale.

Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nella seconda metà del 2006) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta (per l’esclusione del rilievo scriminante di impreviste difficoltà economiche in sè considerate v., in riferimento alla parallela norma dell’art. 10-bis, Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010, dep. 2011, Provenzale).

Nel caso in esame, la deduzione riguardante la crisi economica è generica e in fatto e non reca, in particolare, indicazioni specifiche nè concrete atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole all’adempimento ovvero a ricondurre la causa esclusiva dell’inadempimento a condotte tenute prima del secondo semestre del 2006 (cfr. cass. s.u. cit.).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2014.

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