SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 20 maggio 2015, n. 10291
Motivi della decisione
Si esamina preliminarmente il profilo relativo alla responsabilità del Ministero per danni da emotrasfusioni, avvenute negli anni dal 1970 al 1974, atteso che in mancanza di responsabilità dello stesso ogni indagine sulla prescrizione dei diritti sarebbe superflua.
La Corte di merito, riprendendo in genere la giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia (richiamando in particolare Sez. Un. n. 581 del 2008) e, soprattutto, una successiva decisione della terza sezione civile (Cass. n. 17685 del 2011), sostiene che il comportamento omissivo dei controlli da parte dell’Amministrazione ridonda in responsabilità, anche per trattamenti del 1970, precedenti alla data della sicura di conoscenza del’epatite B (1978), in quanto a partire dalla fine degli anni sessanta – inizi anni settanta – era noto il rischio collegato alla trasmissione dell’epatite ed il Ministero era tenuto a controllare che i trattamenti fossero esenti da virus.
2.1. Il Ministero censura tale statuizione con il secondo motivo del ricorso: per violazione dell’art. 2043 c.c. e degli artt. 1 delle leggi n. 296 del 1958 e n. 592 del 1967; per contraddittorietà, insufficienza, illogicità della motivazione (anche con il richiamo gli artt. 115 e 116 c.p.c.).
Sostiene che, per i trattamenti antecedenti al 1978, data di scoperta del virus HBV, nessuna responsabilità è imputabile al Ministero, anche secondo l’orientamento più recente della cassazione (Cass. n. 2250 del 2013), in continuità con la richiamata decisione delle Sezioni Unite del 2008, dalla quale si sarebbe discostata la decisione della sezione semplice, posta dalla Corte di merito a fondamento della sentenza.
2.2. Innanzitutto, deve rilevarsi che nella parte esplicativa del motivo non ha alcuna autonomia la censura motivazionale prospettata in riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., come novellato nel 2012, che sarebbe applicabile ratione temporis
Il motivo è fondato e va accolto.
3.1. È opportuno prendere la mosse dalla decisione della Corte di legittimità (n. 17685 del 2011), che la Corte di merito ha posto a fondamento della sentenza impugnata.
In estrema sintesi, le argomentazioni si snodano attraverso i seguenti essenziali passaggi.
Il Ministero della salute è obbligato da una pluralità di fonti normative ad esercitare una attività di controllo e vigilanza, anche in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso di emoderivati, rispondendo per omessa vigilanza dei danni conseguenti a infezioni da virus contratte da soggetti trasfusi.
Dalle fonti normative si evince che, sin dalla fine degli anni sessanta/inizi anni settanta, era noto il rischio di trasmissione di epatite virale, essendo possibile la rilevazione indiretta del virus mediante la rilevazione di valori alti di funzionalità epatica (transaminasi). Sin dalla metà degli anni sessanta erano esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro che avevano valori di funzionalità epatica alterati rispetto ai limiti prescritti.
Il Ministero, a conoscenza del fenomeno, ha, con circolari del 1971 e del 1972, disposto la ricerca sistematica dell’antigene Australia, cui successivamente fu dato il nome di antigene di superficie del virus dell’epatite B; dal 1978 ha reso obbligatoria la ricerca della presenza dell’antigene dell’epatite B in ogni singolo campione.
Anche prima della legge n. 107 del 1990 il Ministero era tenuto ad attività di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano.
L’omissioni di tali attività, funzionali alla tutela della salute pubblica, espone il Ministero a responsabilità extracontrattuale quando dalla violazione del dovere di vigilanza derivi la violazione di interessi giuridicamente rilevanti dei cittadini.
In caso di concretizzazione del rischio, che la regola violata tende a prevenire, non può prescindersi dal comportamento dovuto e dalla condotta nel singolo caso tenuta e i danni conseguenti a quest’ultima, costituendone il risultato, rendono presuntivamente provato il nesso di causalità.
Le Sezioni Unite, nello specificare che il Ministero risponde per il contagio degli altri virus (HIV e HCV) a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B (HBC), trattandosi di forme di manifestazione patogena dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolato da sangue infetto, non hanno inteso limitare la rilevanza del fenomeno e la relativa responsabilità alla data di conoscenza dell’epatite B; anzi hanno sottolineato che il rischio è antico quanto la necessità delle trasfusioni.
Pertanto, il Ministero non può non ritenersi tenuto, anche anteriormente al 1978, a controllare che il sangue per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente dai virus de quibus e che i donatori non presentassero alterazioni delle transaminasi.
3.2. Le Sezioni Unite del 2008 non hanno affrontato espressamente la tematica della responsabilità del Ministero per il periodo precedente al 1978, anno in cui l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha ufficialmente riconosciuto. Tuttavia, il principio applicabile emerge chiaramente da quelli, affermati ed applicati, in riferimento ai contagi successivi. Emerge, in particolare, dai principi applicati in tema di nesso di causa; ed è proprio su tale snodo cruciale che la decisione della sezione semplice, richiamata dalla Corte di merito, si discosta dalle Sezioni Unite.
Infatti, non sono in discussione gli obblighi del Ministero, derivanti da norme primarie e regolamentari, di direttiva, di vigilanza e di controllo, in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico, finalizzati alla esclusione di rischi di malattie, fattisi più stringenti agli inizi degli anni settanta in concomitanza al diffondersi delle ricerche scientifiche. È pacifico, e le stesse Sezioni Unite lo ribadiscono, che l’omissione di un comportamento dovuto è di per sé un comportamento antigiuridico.
La differenza fondamentale è data dalla teorizzazione e applicazione del nesso di causa. La sentenza richiamata dalla Corte di appello di Roma si ferma al comportamento dovuto ed omesso e, ai fini della imputazione della responsabilità, ritiene sufficiente la concretizzazione del rischio (malattia), che la norma impositiva dell’obbligo tende a prevenire. In tal modo, ritenendo presuntivamente provato il nesso di causa, come pure espressamente si afferma, la responsabilità da comportamento omissivo sorge dalla semplice omissione del comportamento dovuto.
Invece, le Sezioni unite, all’esito del richiamo dei principi di causalità applicabili, e con particolare riferimento a condotte omissive, hanno negato la responsabilità per omissione quando quell’omissione non è causa della lesione e del danno lamentato.
Senza qui ripercorrere i principi applicabili in generale – enucleati con chiarezza dalle Sezioni Unite – è sufficiente sottolineare che il problema della conoscenza del virus è inquadrato nell’ambito della c.d. causalità adeguata o regolarità causale. E, quindi, dando rilievo, per pervenire ad una causalità giuridicamente rilevante all’interno delle serie causali determinate ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., solo a quelle cause che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della regolarità causale. Con la conseguenza, che ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Prevedibilità effettuata con giudizio ex ante ed obiettiva, individuata in astratto e non in concreto, non con il metro di valutazione della conoscenza dell’uomo medio, ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento, proprio perché si tratta di accertare il nesso causale e non l’elemento soggettivo. Divenendo così rilevante, non la prevedibilità da parte dell’agente, ma la prevedibilità secondo le regole scientifiche.
La responsabilità per omissione, inserita entro tale ambito di regolarità causale, e pacificamente accertarle attraverso un giudizio ipotetico, comporta che, individuato preliminarmente l’obbligo di tenere una condotta omessa in capo al soggetto, sussiste il nesso di causa se, secondo un giudizio ipotetico, l’azione omessa avrebbe impedito l’evento, non potendosi riconoscere responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, anche se fosse stato tenuto, non avrebbe impedito l’evento; non essendo in tal caso causa del danno lamentato.
Da queste considerazioni concettuali, le Sezioni Unite hanno tratto e affermato il principio, secondo cui: “Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, di direttive e di vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati), anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusione di rischi, il giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell’evento”.
Le stesse Sezioni Unite hanno precisato che, a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B – proprio per via della raggiunta conoscenza ai più alti livello scientifici della veicolazione di un virus, con conseguente esclusione della imprevedibilità ed esistenza, quindi, della regolarità causale – sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi di serie causali autonome ed indipendenti, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica (del fegato) da virus veicolati dal sangue infetto, per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità.
Dalla portata e valenza generale delle argomentazioni delle Sezioni Unite prese in esame discende anche che il principio affermato non può essere limitato alle fattispecie rilevanti in quella decisione, relative a condotte successive al 1978 (nello stesso senso, già Cass. n. 2250 del 2013, non massimata). Altrimenti, se ne metterebbe in dubbio la stessa validità, come è dimostrato dalla decisione di legittimità, presa a base dalla Corte di merito, che giunge a presumere lo stesso nesso di causa.
È opportuno, quindi, precisare che, in tema di responsabilità omissiva per contagio, si applica il principio della regolarità causale della condotta omissiva che presuppone, oltre all’accertamento della violazione dell’obbligo di tenere la condotta, l’accertamento, in riferimento all’epoca di produzione del preparato, della conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, in modo che, secondo un giudizio ipotetico, possa dirsi che l’azione omessa avrebbe potuto impedire l’evento, essendo oggettivamente prevedibile che ne sarebbe potuta derivare come conseguenza la lesione. E tale accertamento che – unitamente all’accertamento della omissione della attività dovuta, della esistenza della patologia, dell’assenza di altri fattori causali alternativi – rientra nelle competenze del giudice del merito, deve ritenersi raggiunto con il riconoscimento del virus dell’epatite B (per via della unicità dell’eventi di cui si è detto) da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1978, dovendosi fare riferimento alla conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici, sempre che non emerga altra data antecedente con Io stesso livello di oggettività.
3.3. Nella specie ora all’attenzione della Corte, essenziale sarebbe stato, allora, ai fini della sussistenza della regolarità causate di cui si è detto e, quindi della imputabilità della omissione dei controlli al Ministero, l’accertamento, con riferimento all’epoca delle trasfusioni, dal 1970 al 1974, della conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, dopo aver accertato l’esistenza della patologia da HCV e l’assenza di altri fattori alternativi causativi della stessa.
Ed, invece, la Corte di merito ha fondato la responsabilità del Ministero sulla omissione dei controlli ministeriali previsti nella normativa, ravvisandone il nesso di causalità nella sola concretizzazione del rischio malattia che la disciplina dei controlli preventivi mirava a prevenire
All’accoglimento del secondo motivo, consegue l’assorbimento di tutti gli altri motivi di ricorso, che presuppongono il riconoscimento del risarcimento del danno in capo agli originari attori.
Dagli atti processuali non risultano accertamenti, con carattere di oggettività, in ordine alla conoscenza ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, diversi dal riconoscimento in sede internazionale del virus dell’epatite B), individuato nel 1978. Pertanto, la ricorrenza della regolarità causale tra il mancato controllo da parte del Ministero e l’infezione da epatite C) per emotrasfusioni subite negli anni tra il 1970 e il 1974, può essere esclusa senza la necessità di ulteriori accertamenti da parte del giudice del merito.
In conclusione, la sentenza impugnata è cassata; non essendo necessari accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., la Corte, decidendo nel merito, rigetta la domanda.
In ragione delle incertezze in ordine alla fondatezza della domanda determinate da diversi orientamenti della giurisprudenza, anche di legittimità, si ravvisano giusti motivi per la compensazione integrale delle spese processuali, sia dei due gradi del giudizio di merito, sia del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione accoglie il secondo motivo del ricorso; dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dagli attori; compensa integralmente le spese processuali dei due gradi di merito e del giudizio di legittimità.
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