SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 18 settembre 2015, n.18305
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 28 settembre 2011 la Corte d’Appello di Roma, provvedendo, per quanto in questa sede interessa, sull’appello incidentale, proposto da B.M. e G.B. in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore B.V. , ha rigettato entrambi i motivi sui quali esso si fondava e che afferivano rispettivamente:
a) al riconoscimento ai genitori della minore di un danno non patrimoniale troppo esiguo in relazione alle conseguenze dannose che la medesima aveva sofferto a causa di una mancata diagnosi di una meningite batterica, dalla quale era conseguita come esito finale una cofosi;
b) al mancato riconoscimento alla minore di un danno patrimoniale futuro da diminuzione della capacità lavorativa.
§2. Contro tale sentenza, che ha invece accolto l’appello principale dell’Azienda de qua contro l’INA-Assitalia s.p.a., che era stata convenuta dall’azienda stessa in garanzia, il B. e la G. , nella loro duplice qualità, hanno proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo.
Al ricorso hanno resistito, con separati controricorsi, l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini e l’INA-Assialia s.p.a.
§3. I ricorrenti e l’INA-Assitalia hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
- Con l’unico motivo di ricorso si deduce ‘erronea e contraddittoria motivazione circa punto decisivo, rilevato dalla parte’ (art. 360 n. 5 c.p.c.).
Il motivo si duole della motivazione con cui la Corte territoriale ha rigettato l’appello incidentale dei ricorrenti con riferimento ad entrambi i motivi sui quali si fondava.
La motivazione, che viene riprodotta nel ricorso, ha avuto il seguente tenore: “l’appello incidentale va parimenti respinto esso è integralmente formulato sulla premessa, in fatto, e delle V. sia affetta da sordomutismo, come comprovato da certificazione della commissione invalidi civili del 13 dicembre 2007. Ma tale premessa non tiene in nessun conto un elemento essenziale, d’altronde già risultante dalla sentenza impugnata, ossia che delle V. ha potuto rimediare agli effetti funzionali della lesione biologica riportata attraverso l’applicazione di un impianto cocleare: impianto attraverso il quale – come ha osservato il tribunale senza che sul punto sia stata spiegata alcuna contestazione – la patologia è stata compensata mediante un intervento terapeutico in grado di ripristinare un livello uditivo sostanzialmente normale. Va da sé che la varianza spiegata, tutto motivata sulla considerazione del grave danno morale esistenziale patito per la ‘consapevolezza che tale invalidità si riverberano negativamente sulla realizzazione futuro della loro figlia’ nonché ‘per lo svolgimento delle loro abitudini di vita’, stante l’assillo di dover girare gli ospedali in ospedale per seguire la figlia, non coglie nel segno, una volta accertato che il sordomutismo è stato corretto, sia pure a mezzo di un ausilio meccanico. Le quali considerazioni vanno svolte con riguardo al danno da perdita della capacità lavorativa specifica di B.V. . Anche in questo caso, per lo sfondo sul richiamo di un principio giuridico corre, quale quello che vuole la risarcibilità del danno della capacità lavorativa specifica anche in favore del danneggiato non percettori di reddito, sulla base di una valutazione prognostica e probabilistica delle ricadute della lesione biologica sulla capacità lavorativa, ovvero, in mancanza di ogni altro elemento, sulla base del triplo della pensione sociale (di recente p.e. Cass. 30 settembre 2008, n. 24331). Ma, in fatto, appare evidente come, corretto sul piano penale il deficit mediante l’applicazione di un impianto cocleare, non è neppur pronosticabile della danneggiata avrà lavorativa nel terreno favorevole di quello che potrà raggiungere nelle condizioni in cui si trova”.
1.1. La critica alla riportata motivazione è finalizzata sia a dolersi che troppo esigua sarebbe stata la valutazione del danno non patrimoniale riconosciuto iure proprio ai coniugi B. , sia a prospettare che erroneamente sarebbe stato negato il riconoscimento del danno patrimoniale alla capacità lavorativa della minore.
La critica viene svolta osservando che non sarebbe esatto l’asserto che dalla sentenza di primo grado impugnata “risulti, quale ‘elemento essenziale’ ‘che B.V. ha potuto rimediare agli effetti funzionali della lesione biologica riportata attraverso l’applicazione di un impianto cocleare”.
Il Tribunale, invece, avrebbe ritenuto “che la ‘compensazione’ operata sia ‘simile ma non sovrapponibile al livello uditivo del normoudente alla quale esita, in ogni caso, una percezione della rumorosità complessiva dell’ambiente diversa rispetto a quella di soggetto non portatore di apparecchio acustico’“. Ne conseguirebbe che secondo il Tribunale l’impianto protesico non avrebbe affatto ripristinato la normalità della funzione uditiva ed anzi tanto rappresenterebbe un decisum sul quale non vi era stata affatto alcuna contestazione. Allo stesso modo, si sostiene, punto che sarebbe stato accertato dal Tribunale e non sarebbe stato rimesso in discussione con l’appello era che il danno alla salute fosse stato del trenta per cento.
Si deduce, quindi, che con l’appello incidentale si era invocato il principio di diritto di cui a Cass. n. 20943 del 2009, secondo il quale, con riferimento a persona minore si deve in primo luogo considerare, ai fini dello stabilire l’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale, la percentuale di invalidità permanente medicalmente accertata e si assume che l’accertamento nella specie di una invalidità rilevante (del trenta per cento) non poteva giustificare l’esclusione della sua incidenza sulla capacità lavorativa, tenuto conto che il c.t.u. in primo grado aveva rilevato che “gli esiti invalidanti si ripercuoteranno sulle comuni attività esistenziali”.
Negando che un’invalidità del trenta per cento potesse avere ripercussioni sulla capacità lavorativa la Corte territoriale avrebbe finito per negare la stessa esistenza dell’invalidità.
D’altro canto, rilevano i ricorrenti, il c.t.u. aveva riconosciuto l’esistenza dell’invalidità del trenta per cento quando l’impianto cocleare era stato già impiantato alla minore. Aveva, inoltre, rilevato che la minore frequentava la quinta classe della scuola primaria con sostegno didattico e con rendimento appena sufficiente, nonché che presentava difficoltà logico-matematiche e difficoltà narrative, diagnosticando ‘esiti di meningite con residua sordità”, soggiungendo che “quest’ultima è stata corretta con impianto cocleare ma è comunque esitata cofosi bilaterale”.
- Il motivo è fondato sia riguardo alla situazione soggettiva fatta valere in proprio dai genitori, sia riguardo alla posizione fatta valere in proprio dalla minore.
2.1. L’accoglimento si giustifica previa qualificazione del vizio effettivamente denunciato come vizio di sussunzione, ancorché fatto valere ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis al ricorso.
Invero, con le deduzioni illustrative del motivo, in realtà, si espone non già un vizio della sentenza impugnata relativamente alla ricostruzione della quaestio facti esaminata, sebbene in funzione del giudizio reso dalla Corte territoriale tanto riguardo all’una che all’altra posizione, bensì che la Corte territoriale non abbia fatto corretta applicazione dei principi di diritto in ordine al riconoscimento nell’an debeatur (e salva la successiva operazione di liquidazione) in capo alla minore di un danno da perdita della capacità lavorativa alla stregua della proiezione futura dell’incidenza che su di essa potrà avere la patologia che pacificamente le è stata cagionata con riconosciuta responsabilità della struttura sanitaria.
Il mancato riconoscimento di tale incidenza non viene, cioè, addebitato ad errori commessi dalla Corte territoriale nella ricostruzione della quaestio facti rilevante in funzione dell’espressione del giudizio su detta incidenza, bensì ad errori di apprezzamento delle risultanze fattuali acquisite nel giudizio di merito come idonee a determinare in iure un’incidenza sulla futura capacità lavorativa della minore quando essa raggiungerà l’età lavorativa.
Nella illustrazione del motivo è dunque lamentato un vizio di cd. sussunzione della fattispecie fattuale, sebbene correttamente ricostruita nei suoi dati identificatori rilevanti, sotto la fattispecie astratta della individuazione di uno dei potenziali danni-conseguenza, che, in ragione della naturale proiezione della vita umana di un soggetto minore danneggiato, possono conseguire dalla verificazione di una perdita (danno evento) rappresentata dalla diminuzione della piena idoneità psico-fisica (invalidità permanente) a causa della condotta dannosa di un terzo. Tale potenziale danno-conseguenza si ricollega all’incidenza della diminuzione così sofferta nella idoneità psico-fisica su quella che naturaliter rappresenta una delle attività umane rispetto a cui essa è servente, per ogni uomo e per ogni donna, sebbene a partire da quella che si chiama età lavorativa e si determina come tale secondo l’atteggiarsi del vivere sociale in un determinato momento storico, cioè la cd. capacità lavorativa.
La possibile incidenza della diminuzione della integrità psico-fisica di una persona su tale capacità si configura anche rispetto al minore, cioè alla persona che ancora non è in età lavorativa, e si deve apprezzare come danno futuro, siccome ammette pacificamente la giurisprudenza di questa Corte, che poi si preoccupa di dettare i possibili criteri di liquidazione del danno conseguenza una volta accertato.
2.2. Quello che, dunque, l’illustrazione del motivo denuncia è l’essersi la Corte territoriale rifiutata di sussumere la situazione accertata riguardo alla minore quanto alla condizione derivata dall’illecito sulla sua capacità psico fisica sotto la specie normativa dell’art. 1223 c.c. e particolarmente sotto la figura del danno da perdita subita nella sua futura proiezione sulla capacità lavorativa della minore.
La Corte capitolina si è rifiutata di sussumere la condizione della minore, pacificamente accertata quanto al danno evento rappresentato dalla diminuzione della sua integrità psico-fisica e siccome risultante da essa nella misura del 30%, come fonte di una futura perdita della sua capacità lavorativa.
La Corte capitolina ha valutato che il rimedio alla diminuzione di detta integrità costituito dall’applicazione di una protesi artificiale, cioè dell’impianto cocleare, in quanto tale impianto sarebbe idoneo a compensare la funzione cui assolveva quella parte della sua integrità psico-fisica compromessa dall’illecito, escluderebbe una ricaduta dello stato invalidante permanente così corretto sulla capacità lavorativa futura della minore.
Tale valutazione si è risolta in una falsa applicazione del criterio che, nel quadro dell’applicazione dell’art. 1223 c.c., deve presiedere alla individuazione dell’esistenza o meno di un danno conseguenza da diminuzione della futura capacità lavorativa per effetto della diminuzione (danno evento) della integrità psico-fisica, in ragione della applicazione della protesi.
È vero che il motivo è stato formalmente dedotto ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (nel testo introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2006), ma nella sua illustrazione si coglie quanto si è detto e, dunque, un vizio riconoscibile al n. 3 dell’art. 360 c.p.c..
Ora Cass. sez. un. n. 17931 del 2013 ha osservato che “il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi”.
Ne segue che la pur formale deduzione del vizio ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., stante l’evidenza della riconducibilità dell’esposizione del motivo al paradigma del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. nel senso del c.d. vizio di sussunzione, non osta a che lo scrutinio del motivo debba farsi secondo quella che è la sua effettiva consistenza, dovendosi osservare che essa, ancorché non vi si evochi formalmente l’art. 1223 c.c., nella sostanza sulla sua violazione si incentra.
2.3. Le svolte considerazioni assorbono per palese infondatezza anche la deduzione da parte delle resistenti che nella specie la Corte sarebbe sollecitata ad una rivalutazione della vicenda in fatto secondo i poteri e le possibilità di cognizione del giudice di merito.
2.4. Tanto premesso, l’errore derivante dalla mancata sussunzione della fattispecie fattuale sotto la norma dell’art. 1223 c.c., cioè ai fini del riconoscimento dell’esistenza nell’an di un danno conseguenza futuro della minore alla propria capacità lavorativa si coglie là dove la sentenza impugnata ha reputato che la correzione del deficit uditivo con l’impianto cocleare avesse eliso l’incidenza della invalidità sul possibile dispiegarsi sulla futura capacità lavorativa della minore.
Invero, in disparte il dato del residuo del 30% riconosciuto dal c.t.u. e sottolineato dai ricorrenti come escludente l’assorbimento del deficit (dato che non risulta apprezzabile in modo chiaro da questa Corte), in ogni caso si deve rilevare in modo decisivo che i ricorrenti bene hanno evidenziato che lo stesso Tribunale non aveva considerato idoneo l’impianto cocleare a determinare l’effetto che la situazione della minore fosse, per effetto del suo apporto ed impiego, identica a quella di un normoudente.
2.5. D’altro canto, è nozione che può dirsi di comune esperienza che dispiegare una capacità lavorativa sebbene generica, cioè qualsiasi capacità lavorativa, con un apparecchio impiantato come protesi artificiale e, dunque, invasivo riguardo alla persona, quale che esso sia potrebbe dirsi (e tanto più per un impianto cocleare, una cui parte è inserita, a quel che sembra desumibile da semplici notizie di comune acquisibilità, nel corpo della persona), si connota come situazione che non può giustificare che la persona cui la protesi sia stata applicata si trovi nella stessa condizione di una persona sana e, dunque, nella specie di un normoudente ai fini dell’esplicazione della capacità lavorativa.
È sufficiente riflettere innanzitutto sulla consistenza propria dell’impianto cocleare, che la Corte rileva via internet da una fonte ufficiale, quella del Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza, che nella seduta del 9 febbraio 2005, ai fini dell’inserimento nei ‘Livelli essenziali di assistenza’ delle procedure di manutenzione, riparazione e/o sostituzione delle componenti delle parti esterne degli impianti cocleari, con riferimento alle problematiche che riguardano i soggetti per i quali, diagnosticata una sordità profonda o completa bilaterale (detta ‘cofosi’), si è proceduto all’intervento chirurgico di impianto cocleare (I.C.), ha rilevato quanto segue: “L’I.C. si compone di due componenti: una interna, o endoprotesi, ed una esterna, o esoprotesi, entrambe fornite al soggetto colpito da sordità profonda in occasione dell’intervento chirurgico previsto per l’impianto. Tale intervento consiste nella inserzione nella coclea della componente interna (endoprotesi), -costituita da un ricevitore ed un numero variabile di elettrodi (dispositivo impiantabile attivo ai sensi del D. lgs. 46/97) – e nella successiva attivazione della componente esterna (esoprotesi) – costituita da un microfono, un elaboratore di suoni (speech processor) e un trasmettitore collegato all’elaboratore tramite un sottile cavo – posto in un piccolo dispositivo dietro l’orecchio, oppure, nel caso dei bambini molto piccoli, all’interno di una scatola fissata tramite bretelline al corpo del soggetto impiantato.”.
Ora, è sufficiente riflettere sul dato che una persona, della quale debba apprezzarsi la capacità lavorativa, dovendo operare con l’apporto di detto impianto e, dunque, di un’entità esterna alla propria persona, anche se in parte inserita nella sua fisicità, certamente è nella condizione di dover costantemente percepire tale incidenza sulla propria persona di detta entità, per comprendere che l’impiego delle sue facoltà nell’esplicazione di una qualsiasi attività lavorativa, a prescindere dall’utilitas specifica che per essa possa avere in concreto, in misura minore o maggiore, la capacità uditiva, non può non risentire negativamente della percezione costante di tale incidenza a differenza di come si porrebbe una persona normoudente che non sia costretta ad usare l’impianto.
La condizione di chi deve lavorare senza un impianto di tal genere è diversa da quella di chi debba lavorare con un impianto se non altro perché il secondo lavorerà con la consapevolezza del proprio handicap, della propria minorata condizione, che è percezione che la presenza dell’impianto non potrà certo eliminare con l’effetto compensativo.
Tale costante consapevolezza, nonché quella delle attività complementari alla manutenzione e gestione dell’impianto, implicando una percezione di una condizione pur sempre minorata, si presta necessariamente ad essere valutata come un modo di porsi della persona che l’avverte, di fronte alla propria proiezione lavorativa, in una condizione diversa e peggiore di una persona ‘normale’, cioè normoudente. Tanto nello scegliere la direzione della propria capacità lavorativa generica, quanto nell’esplicare la capacità corrispondente alla scelta una volta realizzata nelle future potenzialità, l’incidenza del dover far conto costante sull’impianto, sulla protesi, rappresenta una percezione di sé stesso che, secondo una nozione di esperienza comune, sarà idonea ad influenzare tanto la scelta quanto le possibilità di progressione futura della capacità lavorativa in atto.
In altri termini, chi sopporta l’applicazione di un impianto cocleare, sebbene da esso riceva la correzione del deficit uditivo, è costretto (come chi sopporta qualsiasi protesi diretta a rimediare ad uno stato invalidante) a convivere con la sua invasiva presenza ed a costantemente percepirla e tanto si presta ad essere apprezzato come condizione che sarà rilevante negativamente quando egli dovrà cercare lavoro e quanto, una volta trovatolo, dovrà competere per progredire in carriera.
Si vuoi dire che la percezione e sopportazione di una protesi correttiva di un deficit psico-fisico, sebbene essa lo corregga pienamente, costituisce elemento che, quando si deve apprezzare la capacità lavorativa della persona non può essere ignorata a questo scopo semplicemente perché la protesi è idonea a correggere il deficit. E ciò tanto più quando, come nella specie si debba stimare la capacità lavorativa futura di una minore, la quale sarà costretta a vivere con l’impianto, con la protesi, fin dall’età infantile e, quindi, per un lungo periodo prima di mettersi in giuoco sul mercato del lavoro, subendo l’incidenza negativa della percezione di sé come soggetto che ha una protesi durante l’infanzia, durante adolescenza e durante l’età giovanile. La percezione della condizione di soggetto che è costretto a ricorrere ad una protesi e che, quindi, è in una condizione diversa dalle persone ‘normali’ è, già durante tali fasi della vita circostanza idonea ad esser apprezzata secondo l’id quod plerumque accidit come determinativa di una condizione della persona che certamente influenzerà la sua futura capacità lavorativa.
Per intendersi: una minore che dovrà convivere e, quindi, sentirsi diversa dai coetanei durante l’infanzia, dovrà fare la stessa cosa quando sarà adolescente, e la medesima quando sarà in età giovanile, per il fatto stesso di sentirsi ‘diversa’ per tutte queste tre fasi della sua vita, è più che ragionevole reputare che da tale percezione risentirà durante la sua evoluzione attraverso di essa conseguenze che si riveleranno incidenti quando dovrà entrare nel mercato del lavoro. Durante l’età scolare sarà soggetto che avrà difficoltà di apprendimento dell’istruzione maggiori di uno normale e ciò proprio per la sua condizione costantemente accompagnata dalla percezione della presenza dell’impianto e, dunque, dalla sua condizione di anormalità. Sarà soggetto che non potrà giuocare allo stesso modo dei suoi coetanei. Durante l’adolescenza e l’età giovanile, nel relazionarsi agli altri, non potrà non risentire della sua particolare condizione.
2.6. Tutte tali ovvie considerazioni rendono palese già esse stesse l’erroneità del modo in cui la Corte capitolina ha esplicato il giudizio di sussunzione della situazione della minore ai fini dell’apprezzamento in iure dell’esistenza di un suo danno futuro alla capacità lavorativa.
2.7. Ma esse sono rafforzate in concreto, sebbene si potrebbe dire anche superfluamente ai fini di giustificare la cassazione della sentenza:
a) da quanto evocato dal ricorso con riguardo a quanto aveva affermato il Tribunale sulla natura del tutto relativa della ‘compensazione’ della perdita della capacità uditiva da parte dell’impianto in ragione dalla percezione della rumorosità complessiva dell’ambiente diversa da quella di un soggetto normoudente (che nient’altro rappresenta se non un particolare aspetto di quella che sopra si è discussa come incidenza negativa sulla persona della ‘percezione’ della presenza dell’impianto e, quindi del doversene avvalere);
b) dal rilievo del c.t.u. (pag. 7-8 della relazione) di avere riscontato nella minore, visitata quando frequentava la V primaria ‘con sostegno didattico e con rendimento appena sufficiente’, la presenza di ‘difficoltà logico-matematiche e difficoltà narrativa’, nonché di ‘difficoltà ad accettare le regole soprattutto in ambito intrafamiliare: tutti indici evidenti, sebbene collocati in quel momento della vita della bambina, proprio del fatto che l’impianto protesico non valeva a rendere la piccola soggetto uguale ad un soggetto normale e, del resto, in quanto accertati con riferimento alla capacità scolare esplicantesi sempre in quel momento, pienamente idonei a dover essere considerati dalla Corte romana come sintomi di futura incidenza del deficit pur corretto dall’impianto cocleare sulla successiva manifestazione da parte della piccola della sua capacità lavorativa;
c) dalla conclusione del c.t.u. (p. 11 della relazione) nel senso che “gli esiti invalidanti si ripercuoteranno sulle comuni attività esistenziali”.
- Il motivo di ricorso, nei sensi in cui è stato qualificato, è dunque accolto e la sentenza è cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
La Corte capitolina si conformerà al seguente principio di diritto: “L’accertamento in un minore in età infantile che lo stato di invalidità permanente alla persona (nella specie sordità causata da non tempestiva diagnosi di meningite, stimata come determinativa di invalidità nella misura del 30% derivante da cofosi bilaterale), cagionato da responsabilità medica, sia rimediabile e sia stato in concreto rimediato tramite l’applicazione di una protesi (nella specie un impianto cocleare), non è ragione sufficiente – per vizio di violazione dell’art. 1223 c.c. sotto il profilo della mancata sussunzione dello stato invalidante come evidenziatore di un danno conseguenza patrimoniale futuro da c.d. perdita – a giustificare l’esclusione dell’esistenza, in ragione della invalidità, e sulla base di una valutazione prognostica, di un danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa del minore, atteso che il dover svolgersi la vita del minore con la percezione della costante applicazione della protesi necessaria per sopperire al deficit derivante dalla invalidità è circostanza che di per sé – ed a maggior ragione quando come nella specie si accompagni ad elementi desunti come sintomatici nello stesso senso dalle modalità di vita del minore nel momento in cui si compie l’accertamento – contraddice e si oppone a quella esclusione.”.
La Corte di rinvio procederà alla decisione dell’appello incidentale applicando tale principio di diritto e considerando che la correzione del deficit uditivo della minore tramite l’impianto cocleare non è in alcun modo di per sé idonea ad escludere il riverberarsi dello stato invalidante permanente sulla capacità lavorativa della stessa. Terrà conto degli elementi sopra indicati sub a), b) e e) nel paragrafo precedente e dei principi in precedenza enunciati da questa Corte.
Ciò, sia ai fini della individuazione della perdita della capacità lavorativa della minore, siccome accertata quale danno futuro, come danno patrimoniale futuro subendo dalla stessa, sia ai fini della valutazione di detta perdita come elemento idoneo ad incidere ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale dei genitori.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
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