Cassazione 13

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 15 marzo 2016, n. 10788

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. ACETO Aldo – Consigliere

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere

Dott. DI STASI Antonella – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 16/07/2015 del Tribunale di Reggio Calabria;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa DI STASI Antonella;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. POLICASTRO Aldo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

uditi per l’imputato l’avv. (OMISSIS) e l’avv. (OMISSIS), che hanno concluso riportandosi ai motivi del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 16.7.2015 il Tribunale di Reggio Calabria- a seguito di istanza di riesame proposta nell’interesse dell’indagato (OMISSIS) avverso l’ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria in data 11.5.2015 – confermava detta ordinanza.

La misura cautelare era stata emessa per la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 110, articolo 73, comma 1 e articolo 80, comma 2 e di cui alla Legge n. 146 del 2006, articolo 14 (perche’ in concorso con (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), e con persone non meglio identificate), acquistava, importava e trasportava un ingente quantitativo di cocaina, in particolare, 83 panetti di cocaina del peso complessivo di Kg 86, contenuti nel container (OMISSIS) imbarcato sulla (OMISSIS) partita dal porto di (OMISSIS) e giunta a quello di (OMISSIS), dove cadevano in sequestro, caratterizzandosi la condotta del (OMISSIS) come attivita’ finalizzata ad interfacciarsi con gli operatori portuali addetti al recupero dello stupefacente; le esigenze cautelari ritenute sussistenti erano quelle di cui all’articolo 274 codice procedura penale, lettera c).

Il Tribunale rigettava l’istanza di riesame, ritenendo esistente un solido quadro di gravita’ indiziaria emergente dalle conversazioni intercettati e dalla sostanza stupefacente (83 panetti di cocaina per un peso complessivo di Kg 86) sequestrata presso il porto di (OMISSIS), nonche’ le esigenze cautelari di cui all’articolo 274 codice procedura penale, lettera c), evincibili dalle modalita’ della condotta e dalla personalita’ del prevenuto; riteneva, quindi, unica misura proporzionale e idonea quella di massimo grado applicata dal Giudice per le indagini preliminari.

2. Avverso l’ordinanza del Tribunale proponeva ricorso per cassazione la difesa dell’indagato, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. codice procedura penale, comma 1:

a. Annullamento ai sensi dell’articolo 606 codice procedura penale, comma 1, lettera e) in relazione all’articolo 297 codice procedura penale, comma 3.

Il ricorrente deduce che l’ordinanza genetica di applicazione della misura attiene ad uno dei due procedimenti in cui si e’ articolata l’originaria vicenda giudiziaria, nota come operazione “(OMISSIS)” e, cioe’, allo stralcio del procedimento noto come “(OMISSIS)”. Nell’ambito dell’ulteriore stralcio noto come “(OMISSIS)”, il (OMISSIS) e’ stato destinatario di altra e precedente ordinanza cautelare, emessa sulla base dell’imputazione relativa al delitto di cui all’articolo 416 bis codice penale, poiche’ gli viene contestato il ruolo di “organizzatore, con compiti di reperimento e detenzione di micidiali armi e munizionamento da guerra, nonche’ di pianificazione e supporto nelle azioni omicidiarie da compiere e spaccio di sostanze stupefacenti, in riferimento all’intera organizzazione criminale…”.

Ripercorre, poi, l’evoluzione giurisprudenziale della materia delle cd. contestazioni a catena e argomenta, quindi, che, nella specie, trova applicazione il disposto dell’articolo 297 codice procedura penale, comma 3 posto che i fatti contestati nelle due distinte ordinanze sono connessi e sussiste il requisito della desumibilita’ dagli atti.

La motivazione del Tribunale confermativa della ordinanza di custodia in carcere – argomenta – e’ sul punto viziata da illogicita’, in quanto trascura l’identita’ degli elementi afferenti ad entrambi i procedimenti, la comunanza dell’attivita’ tecnica di captazione, la circostanza che il traffico di stupefacenti costituisce finalita’ precipuo del reato associativo contesto nel primo procedimento.

b. Annullamento ai sensi dell’articolo 606 codice procedura penale, comma 1, lettera c) ed e) in relazione agli articoli 267, 268 e 271, 696, 727 e 729 codice procedura penale.

Il ricorrente deduce che l’ordinanza impugnata poggia su un compendio indiziario che consta di intercettazioni del traffico telematico del (OMISSIS), oggetto di invio e ricezione mediante il sistema cd. Pin to Pin, tipico degli apparati mobili BlackBerry, la cui attivazione genera dal collegamento Internet.

Contesta, quindi, l’utilizzazione, nelle operazioni di intercettazione, di impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura di Catanzaro, oltre che per l’assenza della necessaria rogatoria alle autorita’ straniere, ed in particolare a quelle canadesi, poiche’ l’attivita’ captativi era diretta a percepire contenuti di comunicazioni o conversazioni transitanti ed elaborati sul territorio straniero, attraverso server ubicati tutti nel Canada; le autorita’ italiane, infatti, hanno notificato i decreti autorizzativi ad una societa’ esterna – con sede legale in Italia – fornitrice di servizi della societa’ madre canadese, che aveva ideato e sviluppato un programma di messaggistica istantanea attraverso cui, secondo l’impostazione accusatoria, gli indagati pianificavano il traffico di stupefacenti.

Conclude, pertanto, per l’annullamento dell’ordinanza impugnata con ogni statuizione consequenziale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. E’ infondato il primo motivo di ricorso.

1.1. E’ opportuno premette una disamina della norma dettata dall’articolo 297 codice procedura penale, comma 3 alla luce delle modifiche legislative e delle sentenze della Corte Costituzionale che hanno interessato il testo normativo nonche’ delle decisioni della giurisprudenza di legittimita’ nell’interpretazione della predetta norma.

Con la norma in esame, disciplinante l’istituto cosiddetto della “contestazione a catena”, il legislatore ha codificato la regula iuris, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale formatasi sotto la vigenza del previgente codice di rito, con la quale si era stabilita una deroga al principio della decorrenza autonoma dei termini di durata massima della custodia in relazione a ciascun titolo cautelare, all’evidente fine di evitare il fenomeno della “diluizione” nel tempo della “carcerazione provvisoria”, attuata mediante l’emissione, in momenti diversi, nei confronti della stessa persona di piu’ provvedimenti coercitivi concernenti il medesimo fatto, diversamente qualificato o circostanziato, ovvero riguardanti fatti di reato diversi ma connessi tra loro.

Nel suo testo originario l’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, (che riprendeva la disposizione da ultimo appositamente introdotta nel codice abrogato dalla Legge n. 398 del 1984) stabiliva che la decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare applicata con un’ordinanza si sarebbe dovuta retrodatare al momento dell’esecuzione di altra precedente ordinanza cautelare, laddove i due provvedimenti avessero riguardato lo stesso fatto ovvero piu’ fatti in concorso formale tra loro, oppure integranti ipotesi di aberratio delitti o di aberratio ictus plurioffensiva. Nella versione novellata nel 1995 e’ stato ristretto l’ambito applicativo della norma, con la previsione dell’operativita’ del meccanismo di retrodatazione esclusivamente con riferimento ai casi di connessione qualificata ai sensi dell’articolo 12 codice procedura penale, lettera b) (concorso formale e continuazione tra i reati) e c) limitatamente all’ipotesi di reati connessi per eseguire gli altri (connessione teleologia); si e’, poi, introdotta una regola generale di retrodatazione “automatica” (“se nei confronti di un imputato sono emesse piu’ ordinanze che dispongono la medesima misura… i termini decorrono dal giorno in cui e’ stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione piu’ grave”): automatismo, tuttavia, non applicabile laddove la seconda ordinanza cautelare veniva emessa dopo il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (“la disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”). La portata applicativa della disposizione in esame e’ stata, infine, ampliata per effetto della sentenza additiva n. 408 del 2005, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimita’ dell’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, nella parte in cui “non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano gia’ desumibili dagli atti al momento dell’emissione della precedente ordinanza”; ed ulteriormente precisata dalla sentenza n. 233 del 2011, con la quale la Consulta – “reagendo” ad un contrario orientamento della giurisprudenza di legittimita’, che aveva finito per diventare “diritto vivente” – ha dichiarato la illegittimita’ dello stesso articolo 297, comma nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.

Nella cornice normativa cosi’ tratteggiata, seguendo il percorso argomentativo fissato dalle Sezioni Unite con due decisioni rispettivamente del 2005 e del 2006 (Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, Rv. 235909-1011; Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, P.M. in proc. Rahulia ed altri, Rv. 2310578-9), con riguardo alla contestazione di reati diversi, variamente collegabili tra loro, e’ possibile – in linea schematica – riconoscere tre distinte situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte regole operative.

In tutti e tre i casi e’, comunque, necessario, perche’ si possa parlare di “contestazione a catena” e perche’ possa eventualmente trovare applicazione la disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare, che i delitti oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore (in questo senso, ex plurimis, Sez. 6, n. 31441 del 2012, Rv. 253237; Sez. 6, n. 15821, del 2014 Rv 259771). Il presupposto della anteriorita’ dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della prima non ricorre allorche’ il provvedimento successivo riguarda un reato di associazione e la condotta di partecipazione si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza.

La prima situazione e’ quella in cui le due (o piu’) ordinanze applicative di misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti – reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologia (casi di connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, che non lascia alcun dubbio sul fatto che la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima operi automaticamente e, dunque – come affermato dalle Sezioni unite di questa Corte – “indipendentemente dalla possibilita’, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilita’ di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure”.

Automatica retrodatazione della decorrenza dei termini che risponde all’esigenza “di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabili dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata” (cosi’ C. Cost., 28 marzo 1996, n. 89), e che si determina solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento penale (cosi’ Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, city.

La seconda situazione rappresenta una variante della prima, presupponendo comunque l’accertata esistenza, tra i fatti oggetto delle distinte ordinanze cautelari, di una delle tre forme di connessione qualificata sopra indicate, ma e’ caratterizzata dall’intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti oggetto del primo provvedimento coercitivo. Tale ipotesi presuppone, ovviamente, che le due o piu’ ordinanze siano state emesse in distinti procedimenti, ma (come hanno chiarito le Sezioni unite nelle richiamate sentenze) e’ irrilevante che gli stessi siano “gemmazione” di un unico procedimento, vale a dire siano la conseguenza di una separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini. In siffatta diversa situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo dell’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, sicche’ la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti gia’ prima del momento in cui e’ intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (Cass. N. 42442 del 2013 Rv. 257380, N. 50128 del 2013 Rv. 258500; N. 17918 del 2014 Rv. 259713).

Infine, la terza situazione e’ quella in cui tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari non esista alcuna connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione non qualificata, cioe’ diversa da quelle sopra considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologia) (per quest’ultimo, nei limiti fissati dal codice). Questa ipotesi, che in passato si riteneva pacificamente non riguardare l’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, oggi rientra nel campo applicativo di tale disposizione codicistica per effetto della menzionata sentenza “manipolativa” della Consulta n. 408 del 2005. Ne consegue che la retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura cautelare e’ dovuta “in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorita’ giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze”. Il giudice deve, percio’, verificare se al momento dell’emissione della prima ordinanza cautelare non fossero desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, da intendersi – come sottolineato dai Giudici delle leggi – come “elementi idonei e sufficienti per adottare” il provvedimento cronologicamente posteriore. Tale regola vale solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso procedimento penale, perche’ se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorita’ giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (cosi’ Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, cit; conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Sez. 2, n. 44381 del 25/11/2010, Noci, Rv. 248895; Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, Camello, Rv. 240099). Deve aggiungersi che per lungo tempo, la giurisprudenza di legittimita’ e’ stata unanime nel ritenere che la verifica delle condizioni per la retrodatazione esulasse dalla cognizione del giudice investito del procedimento incidentale di riesame delle ordinanze che dispongono misure coercitive (articolo 309 codice procedura penale). Tale indirizzo si collocava nell’alveo del piu’ generale orientamento interpretativo secondo cui il riesame – quale impugnazione de libertate a carattere pienamente devolutivo – sarebbe finalizzato alla verifica dei soli requisiti di validita’, formali e sostanziali, del provvedimento cautelare impugnato: validita’ non intaccata dal meccanismo della retrodatazione, il quale incide sul diverso piano dell’efficacia della misura coercitiva disposta, modificando la decorrenza e i criteri di computo della relativa durata massima. Al pari di altri eventi produttivi dell’inefficacia di detta misura la retrodatazione avrebbe dovuto essere fatta valere dall’interessato in altro modo: e, cioe’, proponendo istanza di revoca della misura al giudice che procede, ai sensi dell’articolo 306 codice procedura penale, salvo poi impugnare con appello l’eventuale decisione negativa di quest’ultimo (articolo 310 codice procedura penale). A partire dal 2010 e’, peraltro, emerso un indirizzo giurisprudenziale di diverso segno, secondo il quale la retrodatazione sarebbe deducibile in sede di riesame, quantomeno allorche’, per effetto di essa, i termini massimi risultino gia’ spirati alla data di adozione dell’ordinanza impugnata. Del contrasto sono state quindi investite le Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato che l’orientamento tradizionale e maggioritario, inteso ad escludere la competenza del giudice del riesame, dovrebbe essere tenuto fermo nei casi in cui l’inefficacia conseguente alla retrodatazione sia sopravvenuta rispetto alla data di emissione del provvedimento coercitivo. A conclusioni parzialmente diverse dovrebbe invece pervenirsi quando, a seguito della retrodatazione, il termine risulti interamente decorso gia’ al momento dell’adozione della misura, in maniera tale da determinare una inefficacia originaria del titolo cautelare. Anche in quest’ultima ipotesi (termine gia’ scaduto alla data del provvedimento coercitivo impugnato), la deducibilita’ della retrodatazione in sede di riesame non sarebbe peraltro piena, ma rimarrebbe soggetta ad una ulteriore condizione limitativa.

E’ stato infatti tenuto conto delle particolari caratteristiche della procedura incidentale di riesame, “che non prevede l’esercizio di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento…” e che si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza”; dall’altro, della “notevole complessita’ ” che l’accertamento delle condizioni per la retrodatazione e’ suscettibile di assumere ed e’ stato cosi’ affermato che i presupposti ai quali e’ subordinata, a seconda dei casi, la configurabilita’ di una “contestazione a catena” potrebbero rendere necessarie verifiche particolarmente penetranti e porre problemi da non agevole soluzione. Da cio’ le Sezioni unite hanno desunto che “soltanto nel caso in cui dalla stessa ordinanza impugnata emergano in modo incontrovertibile e completo gli elementi utili e necessari per la decisione e’ possibile dare spazio ai principi di economia processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della piu’ ampia tutela del bene primario della liberta’ personale”, riconoscendo al tribunale del riesame il potere da pronunciarsi in materia.

E’ stato cosi’ enunciato il principio di diritto per cui, “nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare puo’ essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare”.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 293 del 2013, e’ stata investita di censure di illegittimita’ costituzionale solo con riguardo alla seconda condizione limitativa indicata. Non e’ stata dunque oggetto di contestazione avanti ai giudici delle leggi la prima condizione, che, come indicato nella stessa sentenza della Corte Costituzionale, e’ in linea con il carattere impugnatorio del mezzo e circoscrive la cognizione del giudice del riesame all’ipotesi in cui la retrodatazione implichi un “vizio” (lato sensu) originario del titolo coercitivo, a fronte del quale la misura da esso disposta non avrebbe dovuto essere applicata fin dall’inizio.

I giudici delle leggi hanno ritenuto che la regula iuris censurata si’ presta a determinare disparita’ di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche in correlazione a fattori puramente accidentali, avulsi dalla ratio degli istituti che vengono in rilievo.

Hanno ritenuto che il tribunale del riesame dispone, ai fini della sua decisione, sia degli atti trasmessigli dall’autorita’ giudiziaria procedente ai sensi dell’articolo 309 codice procedura penale, comma 5, sia degli ulteriori elementi eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza, ai sensi del comma 9 del medesimo articolo e che, quindi, non e’ certo impossibile che le condizioni per la retrodatazione emergano in modo del tutto piano da fonti diverse dall’ordinanza sottoposta a riesame. Hanno pertanto dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 309 codice procedura penale, in quanto interpretato nel senso che la deducibilita’, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall’articolo 297, comma 3, sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia gia’ scaduto al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza.

1.2. Tutto cio’ premesso in punto di diritto, va rilevato che il ricorrente, come desumibile dall’ordinanza impugnata, ha fondato l’istanza di riesame finalizzata all’applicazione del disposto dell’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, in via principale, sulla esistenza di un rapporto di connessione qualificata tra i reati contestati nelle due diverse ordinanze e, in via subordinata, sulla ricorrenza del requisito della desumibilita’ degli elementi giustificativi della seconda ordinanza gia’ al momento dell’emissione della prima ordinanza cautelare.

Le argomentazioni del Tribunale di Reggio Calabria, che ha ritenuto infondata l’istanza di riesame, risultano congruamente motivate, senza specifiche incoerenze od aporie logiche e contengono una valutazione esauriente degli elementi probatori e delle loro implicazioni sequenziali.

L’ordinanza impugnata, oltre che rispettosa degli orientamenti giurisprudenziali relativi al disposto di cui all’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, risulta congruamente e logicamente motivata, laddove ha preso in esame gli argomenti addotti dal ricorrente.

In particolare, il Collegio cautelare ha negato l’esistenza della connessione qualificata tra i fatti della prima ordinanza e quelli della seconda, svolgendo una motivazione diffusa ed ineccepibile, quanto alla affermata insussistenza della connessione qualificata, in adesione ai principi ormai pacifici, indicati da questa Corte per la valutazione dell’unicita’ del disegno criminoso tra reato associativo ed altre fattispecie delittuose.

Il Tribunale ha esaminato i contenuti delle vicende fattuali deducibili dai provvedimenti cautelari al fine di compiere la concreta verifica del legame teleologico o della continuazione (si veda parte motiva di Sez. 1, n. 42442 del 26/9/2013, Gatto, Rv. 257379) ed ha ritenuto non sussistente una connessione qualificata tra il reato di associazione mafiosa di cui all’articolo 416 bis codice penale contestato nella prima ordinanza cautelare- e il reato di narcoimportazione ex Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73 contestato nel secondo titolo custodiale, qui impugnato.

Ha posto, in evidenza la differenza tra un mero contesto di traffico illecito di droga, e la nozione di “unicita’ del disegno criminoso”, che esige l’unica e precisa rappresentazione e determinazione dei diversi reati posti in essere.

L’esclusione del nesso della continuazione trova conferma nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita’ riguardante le condizioni per la configurabilita’ dell’unicita’ del disegno criminoso tra reati associativi e reati fine, i quali devono essere oggetto di volizione nelle linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso (Sez. 1, n.46576 del 17/11/2005, Rv. 232965; Sez. 1, n 12639 del 28/03/2006, Rv. 234100; Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009 Rv.243199; Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013,Rv.257253).

Il Tribunale ha, poi, argomentato, con chiarezza ed esaustivita’, circa la mancanza dei requisiti per operare la retrodatazione, sotto il profilo della non desumibilita’ dagli atti.

Sul punto, questa Corte ha piu’ volte affermato che, in tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, la nozione di anteriore “desumibilita’” delle fonti indiziarie, poste a fondamento dell’ordinanza cautelare successiva, dagli atti inerenti la prima ordinanza cautelare, non va confusa con quella di semplice “conoscenza” o “conoscibilita’” di determinate evenienze fattuali.

La “desumibilita’ “, per essere rilevante ai fini del meccanismo di cui all’articolo 297 codice procedura penale, comma 3, deve essere individuata nella condizione di conoscenza, da un determinato compendio documentale o dichiarativo, degli elementi relativi ad un determinato fatto-reato che abbiano in se’ una specifica “significanza processuale”; cio’ che si verifica allorquando il pubblico ministero procedente sia nella reale condizione di avvalersi di un quadro sufficientemente compiuto ed esauriente (sebbene modificabile nel prosieguo delle indagini) del panorama indiziario, tale da consentirgli di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravita’ delle fonti indiziarie, suscettibili di dare luogo – in presenza di concrete esigenze cautelari – alla richiesta ed all’adozione di una misura cautelare (Sez. 4, n. 15451 del 14/03/2012, Di Paola, Rv. 253509; Sez. 6, n. 11807 del 11/02/2013, Paladini, Rv. 255722, Sez 3 n. 18671 del 15.1.2015, Rv. 263511).

Ne consegue che deve essere esclusa la “desumibilita’ ” allo stato degli atti quando, al momento dell’emissione della prima ordinanza, non era stata ancora depositata al pubblico ministero un’informativa relativa a pregresse indagini sostanziatesi anche in intercettazioni, sulla base della quale sia stata poi formulata la richiesta del successivo provvedimento (Sez. 6, n. 11807 del 11/02/2013, cit.) perche’, in tal caso, i due provvedimenti non potevano, in mancanza di un quadro indiziario e cautelare sufficientemente definito, essere adottati in un unico contesto temporale.

Il Tribunale, facendo corretta applicazione dei principi di diritto suesposti, con motivazione congrua, esaustiva ed esente da vizi logici, ha ritenuto insussistente il requisito della “desumibilita’” dagli atti.

Ha, infatti, rilevato come l’ordinanza impugnata si fondi sulle complessive risultanze investigative che sono state compendiate e valorizzate nell’informativa di reato datata 2.4.2015 e, quindi, in data successiva all’emissione del primo titolo cautelare, rimarcando anche che l’operativita’ dell’associazione viene contestata fino alla data del febbraio 2015.

2.E’ infondato il secondo motivo di ricorso.

Va osservato che, nel caso di specie, oggetto di intercettazione, non sono “ordinarie” comunicazioni telefoniche, bensi’ comunicazioni protette tramite il servizio cd. pin to pin offerto da Blackberry sui suoi terminali, cioe’ cd. comunicazioni in chat. Si tratta di una modalita’ di comunicazione comunemente ritenuta piu’ sicura per la privacy in quanto puo’ intervenire esclusivamente fra persone in possesso di apparecchi Blackberry identificati soltanto a mezzo di un PIN (da qui la denominazione pin to pin) e comporta che le comunicazioni trasmesse siano compresse e, soprattutto, cifrate. L’interconnessione e’ garantita da un server, cioe’ la memoria informatica centralizzata, che si trova presso la sede della societa’ canadese ” (OMISSIS)” (research in motion), che appunto gestisce il servizio.

Il Tribunale del riesame ha dettagliatamente individuato, sulla base delle emergenze investigative, l’utenza nella disponibilita’ del ricorrente, ricostruendo i suoi spostamenti e spiegando, con argomentazioni specificamente illustrate ed immuni da vizi logico-giuridici in questa sede censurabili: a) che le operazioni di intercettazione sono avvenute in territorio italiano, tramite la registrazione dei dati nella memoria informatica centralizzata (server) installata nei locali della Procura di Catanzaro; b) che i dati telematici delle captazioni riguardanti lo scambio di messaggi fra telefoni “Blackberry” con il sistema cd. “pin to pin” sono stati trasmessi in originale dalla societa’ con sede in Italia direttamente sul server degli uffici della Procura.

Nel caso di specie, dunque, e’ stata rispettata la condizione necessaria per l’utilizzabilita’ delle intercettazioni, ossia che l’attivita’ di registrazione consistente, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata – avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l’utilizzo di impianti ivi esistenti (Sez. Un., n. 36359 del 26/06/2008, dep. 23/09/2008, Rv. 240395).

Al riguardo, inoltre, deve ribadirsi il principio, piu’ volte affermato da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 7634 del 12/12/2014, dep. 19/02/2015, Rv. 262495; Sez. 1, n. 13972 del 04/03/2009, dep. 31/03/2009, Rv. 243138; v., inoltre, Sez. 4, n. 9161 del 29/01/2015, Rv. 262441), secondo cui, in tema di intercettazioni telefoniche, il ricorso alla procedura cd di istradamento, e cioe’ il convogliamento delle chiamate in partenza dall’estero in un “nodo” situato in Italia (e a maggior ragione di quelle in partenza dall’Italia verso l’estero, delle quali e’ certo che vengono convogliate a mezzo di gestore sito nel territorio nazionale) non comporta la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali, poiche’ in tal modo tutta l’attivita’ d’intercettazione, ricezione e registrazione delle telefonate viene interamente compiuta nel territorio italiano, mentre il ricorso alle forme dell’assistenza giudiziaria all’estero e’ necessario unicamente per gli interventi da compiersi all’estero, per l’intercettazione di conversazioni captate solo da un gestore straniero.

Il Collegio della cautela ha, quindi, correttamente applicato i principi nel caso di cui si tratta ed ha evidenziato che le intercettazioni telematiche ex articolo 266 bis codice procedura penale erano state disposte direttamente sui codici PIN, mentre la successiva richiesta alla societa’ (OMISSIS) in merito ai dati identificativi associati ai codici PIN intercettati aveva riguardato dati non muniti di alcuna protezione particolare e, comunque, coperti da cifratura e generati da terminale sul territorio italiano. E’ stato, inoltre, opportunamente sottolineata la irrilevanza del fatto che la societa’ (OMISSIS) fosse canadese, posto che risulta pacifico (e non e’ contestato invero nemmeno dal ricorrente) che le comunicazioni avvenivano in Italia per effetto del convogliamento delle chiamate in un nodo situato in Italia, ove e’ stata svolta l’attivita’ di captazione.

3. Il ricorso va, quindi, rigettato per l’infondatezza dei motivi proposti.

4. Consegue, a norma dell’articolo 616 codice procedura penale, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’Istituto Penitenziario competente, a norma dell’articolo 94 disp. att. codice procedura penale, comma 1 ter.

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