L’obbligo di applicare le disposizioni di garanzia del c.p.p. in fase di espletamento di attività ispettive e di vigilanza, ai sensi dell’art. 220 disp. att. c.p.p., non insorge per il solo rinvenimento di documentazione da cui desumere la sussistenza di irregolarità fiscali, né a seguito della constatazione della soppressione da parte del contribuente verificato della banca dati contabile
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 7 giugno 2016, n. 23368
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRILLO Renato – Presidente
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere
Dott. MOCCI Mauro – Consigliere
Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere
Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la ordinanza del 26/03/2015 del Tribunale di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Enrico Manzon;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. DELEHAYE Enrico, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato gli avv. (OMISSIS) e (OMISSIS), che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con ordinanza del 26 marzo 2015 il Tribunale di Napoli rigettava la richiesta di riesame proposta da (OMISSIS) avverso il decreto di sequestro preventivo emesso nei suoi confronti dal Gip del Tribunale di Nola per il reato di cui all’articolo 81 cpv. c.p., Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 4. Con ampia motivazione il Tribunale confermava la sussistenza del fumus commissi delicti, quale riveniente dalle attivita’ di pg, che analiticamente descriveva e valutava, ed in particolare dalla scoperta di una contabilita’ “non ufficiale” dell’impresa del (OMISSIS), poi riscontrata, anche per mezzo di accertamenti bancari. Riscontrava poi, punto per punto, i singoli motivi di riesame proposti dalla difesa dell’indagato, particolarmente in ordine all’oggetto del sequestro “per equivalente”, con specifico riguardo alle attivita’ in merito condotte dal PM, alla dedotta violazione dell’articolo 220 disp. att. c.p.p., alla inattendibilita’ dei dati informatici acquisiti, al valore dei beni concretamente sequestrati ed alle relative modalita’ di custodia.
2. Contro l’ordinanza, tramite i difensori fiduciari, ha proposto ricorso per cassazione il (OMISSIS) deducendo due motivi.
2.1 Con un primo motivo si duole della violazione ovvero erronea applicazione dell’articolo 324, comma 5, articolo 309, commi 9 e 10, in relazione all’articolo 352 c.p.p.. In particolare deduce l’inosservanza del termine di deposito del provvedimento del Tribunale del riesame, essendo l’istanza stata proposta il 4 marzo 2015 ed essendo la decisione, ancorche’ soltanto con deposito del dispositivo, intervenuta il 26 marzo 2015, quindi oltre il termine di 10 giorni fissato perentoriamente dalla legge. Ravvisa nullita’ dell’ordinanza altresi’ per la mutata composizione del Collegio giudicante tra la prima udienza del 16 marzo 2015 e la seconda del 26 marzo 2015.
2.2 Con un secondo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla utilizzabilita’ degli atti di indagine ad onta della previsione di cui all’articolo 220 disp. att. c.p.p.. Afferma in particolare l’immediata applicabilita’ di tale norma al sorgere di un mero sospetto di reato, essendo cio’ quasi immediatamente concretizzatosi nel caso di specie e comunque essendo le attivita’ di verifica fiscale durate a lungo, ben evidenziandosi nel corso delle stesse la sussistenza di ipotesi di reato fiscale, con la conseguente applicabilita’, mal valutata dall’ordinanza, della norma di garanzia procedurale de qua.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ infondato.
2. La prima censura e’ articolata sotto due distinti profili.
2.1 Il primo concerne il mancato rispetto del termine perentorio di 10 giorni previsto dall’articolo 324 c.p.p., comma 5, per l’emissione della decisione, rilevandosi che l’istanza di riesame e’ stata depositata il 6 marzo 2015, mentre il Tribunale ha deciso in data 26 marzo 2015, dopo aver rinviato la prima udienza tenutasi in data 13 marzo 2015 nonche’ la seconda avutasi il 16 marzo 2015, assumendo il ricorrente che non abbia alcun rilievo giuridico il provvedimento di sospensione del termine de quo pronunciato in tale seconda udienza dal Collegio.
Pacifica detta sequenza temporale procedimentale, l’eccezione e’ comunque infondata.
Il Collegio ritiene infatti di doversi adeguare e quindi dover ribadire il principio che “In tema di riesame avverso misure cautelari reali, integra una causa di nullita’ d’ordine generale a regime intermedio, per violazione del diritto al contraddittorio delle parti, la mancata acquisizione da parte del Tribunale di tutti gli atti specificamente posti a fondamento del provvedimento di vincolo, in quanto in tal modo si pregiudica la possibilita’ di delineare il contenuto del proposto gravame e si sottrae comunque al giudice il materiale cognitivo utilizzato per l’emissione della misura. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che il principio affermato discende dall’ammissibilita’ di una trasmissione frazionata degli atti, e dalla inoperativita’ della sanzione dell’inefficacia della misura cautelare reale per la violazione del termine di cinque giorni, fissato per i provvedimenti cautelari personali dall’articolo 309 c.p.p., comma 5)” (Sez. 3, n. 36531 del 12/05/2015, Moro, Rv. 264871). Principio che peraltro va correlato a quello ulteriore, egualmente condivisibile, che “Nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, il termine perentorio di dieci giorni entro cui deve intervenire la decisione a pena di inefficacia della misura, decorre, nel caso di trasmissione frazionata degli atti, dal momento in cui il tribunale ritenga completa l’acquisizione degli atti mancanti, nei limiti dell’effetto devolutivo dell’impugnazione” (Sez. U, n. 26268 del 28/03/2013, Cavalli, Rv. 255582).
Tali massime sono perfettamente pertinenti al profilo della censura in esame e lo dirimono in senso sfavorevole al ricorrente.
E’ infatti accaduto nel caso di specie, appunto che il 16 marzo 2015, alla seconda udienza fissata per la trattazione dell’istanza di riesame, il Tribunale di Napoli, riscontrata l’assenza negli atti trasmessi dal PM della copia integrale del processo verbale di verifica della GdF in data 9 giugno 2011, ritenendolo necessario ai fini della decisione, ne abbia disposto l’acquisizione con contestuale sospensione del termine di cui all’articolo 324 c.p.p., comma 5; che quindi acquisito il documento in data 18 marzo 2016, abbia fissato nuova udienza al 26 marzo 2015, nella quale il riesame e’ stato deciso.
Dunque il giudice del riesame si e’ avvalso di una facolta’ che gli competeva e cio’ ha comportato un nuovo dies a quo di decorrenza del termine processuale in questione, essendo poi comunque intervenuta la decisione entro il termine stesso.
2.2 Il secondo profilo della censura mira ad affermare che il deposito del solo dispositivo della decisione non e’ sufficiente al fine di considerare rispettato il termine de quo.
Anche tale eccezione e’ infondata.
Il Collegio intende infatti aderire e ribadire il piu’ recente ed ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimita’ secondo il quale “In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il principio, secondo il quale il provvedimento che dispone la misura cautelare reale perde immediatamente efficacia se la decisione sulla richiesta di riesame non interviene entro il prescritto termine di dieci giorni dalla trasmissione degli atti al tribunale, deve essere inteso nel senso che e’ necessario e sufficiente, affinche’ non si produca l’effetto caducatorio, che, entro il termine predetto, il tribunale abbia deliberato in merito alla richiesta ed abbia depositato il dispositivo, mentre e’ irrilevante la data di deposito della motivazione” (ex multis, v. da ultimo Sez. 3, n. 14603 del 24/03/2015, Ricci, Rv. 263334).
3. Nemmeno e’ fondato il secondo motivo di ricorso.
Il ricorrente si duole della violazione dell’articolo 220 disp. att. c.p.p., asserendo che tale norma di garanzia doveva essere applicata sin dal momento, peraltro iniziale delle attivita’ di verifica fiscale amministrativa, in cui la GdF operante in data 9 settembre 2011 ha rinvenuto ed acquisito alcuni documenti “extracontabili”, ma con evidente funzione contabile “parallela”, che, di per se’, potevano costituire altrettanti elementi indiziari di reita’. Afferma inoltre che nello sviluppo delle ulteriori attivita’ di ispezione/verifica fiscale, la scoperta in data 25 giugno 2012 della cancellazione della banca dati contabile aziendale, dopo peraltro che la stessa era stata copiata dal ct del PM, rappresentava comunque una circostanza di peso indiziario tale da rendere inevitabile l’applicazione della disposizione normativa de qua. Rileva che del resto con la comunicazione della notitia criminis in data 5 luglio 2014 la stessa pg operante segnalava l’acquisizione di precisi indizi di reita’ sin dall’1 dicembre 2011, tanto che in quella data si era richiesta al Comandante regionale della GdF l’autorizzazione alle indagini bancarie.
Sulla base di questi dati fattuali, il ricorrente afferma dunque che le risultanze degli atti investigativi espletati dopo il verificarsi dei fatti medesimi non possano essere utilizzati ad alcun fine decisionale, per la violazione dell’articolo 220 disp. att. c.p.p., in quanto pacificamente non adottate le forme previste dal codice di rito penale da parte degli operanti. A sostegno di questa tesi giuridica evoca una recente pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 4919/2015) che assume essere in termini.
Rileva il Collegio che tuttavia cosi’ non e’.
Tale pronuncia di legittimita’ infatti, pur riguardando una situazione procedimentale analoga, trattandosi anche in quel caso di attivita’ ispettiva tributaria, cui e’ poi seguito un processo penale per il delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 4, e’ stata resa a seguito del ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza di condanna in appello e non, come nel caso che occupa, nella fase procedimentale delle indagini preliminari, in particolare di incidente cautelare, prodromica all’esercizio dell’azione penale e quindi alla fase processuale penale in senso stretto e proprio.
E’ pertanto evidente e determinante la differenza di ratio decidendi, stante la radicale diversita’ della funzione e dell’oggetto delle due distinte fasi procedimentali, essendo la prima, quella delle indagini preliminari, volta a verificare la fondatezza di una notizia di reato al fine dell’eventuale promuovimento dell’azione penale, la seconda, quella del processo, mirata al giudizio di responsabilita’ penale in ordine ad un’accusa formulata alla chiusura della prima.
E tale profonda diversita’ funzionale comporta un’altrettanto evidente diversita’ ontologica del giudizio e delle sue regole nell’una e nell’altra delle due fasi. In particolare, nel sottosistema normativo cautelare reale, per il giudice della cautela ovvero del riesame, si tratta di valutare, ancorche’ “in concreto” (ex pluribus, v. Cass., Sez. 5, n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677), soltanto la sussistenza del c.d. fumus commissi delicti, che pacificamente e’ di gia’ un quid minus rispetto alla sussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” oggetto di valutazione della cautela personale ed ancor piu’ minus e’ rispetto alla valutazione della sussistenza della responsabilita’ penale oggetto del processo, vincolata dalle assai piu’ stringenti e rigorose relative regole di valutazione della prova e di giudizio.
Queste diversita’ funzionali, oggettive e formali tra il giudizio incidentale cautelare (in particolare reale, per cio’ che interessa in questa sede) e quello processuale di merito, segnano pertanto inevitabilmente anche i confini dei correlativi giudizi di legittimita’.
Tale considerazione, quanto al giudizio incidentale cautelare reale, e’ peraltro ben consolidata nella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale ” In sede di riesame del sequestro probatorio il Tribunale e’ chiamato a verificare l’astratta configurabilita’ del reato ipotizzato, valutando il “fumus commissi delicti” in relazione alla congruita’ degli elementi rappresentati, non gia’ nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa, ma con riferimento alla idoneita’ degli elementi su cui si fonda la notizia di reato a rendere utile l’espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all’indagato o il trasferimento di esso nella disponibilita’ dell’autorita’ giudiziaria” (ex multis, da ultimo Sez. 2, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero, Rv. 263053).
Chiaro e’ percio’ che il precedente evocato dal ricorrente non possa trovare seguito in questa sede, come detto, per la diversita’ sostanziale del suo oggetto decisionale.
In termini piu’ concreti e specifici, la questione della eventuale nullita’/inutilizzabilita’ del processo verbale di verifica della GdF potra’ essere posta, in via di eccezione procedurale con effetti diretti sulla cognizione giudiziale, nella eventuale fase delibativa dell’accusa dopo la conclusione delle indagini preliminari ovvero nel successivo giudizio di merito sulla fondatezza dell’imputazione oggetto della promuovenda azione penale.
Diversamente, in questa sede incidentale cautelare, comunque sussistendo un apparato indiziario (piu’ che) minimo connotante la sussistenza del fumus criminis in relazione all’imputazione provvisoria Decreto Legislativo n. 74 del 2000, ex articolo 4, sulla scorta delle ampie e doviziose considerazioni al riguardo sviluppate nell’ordinanza impugnata, tutt’affatto basate esclusivamente sull’atto oggetto della censura in esame, bensi’ assai piu’ ampiamente sulle parallele acquisizioni informatiche extracontabili e documentali bancarie, l’eccezione stessa non puo’ che essere rigettata.
Le considerazioni che precedono sono pregiudizialmente dirimenti pur ai precisati limitati fini della presente pronuncia di legittimita’, anche se tuttavia vi e’ da rilevare che la censura in oggetto, oltre che non direttamente rilevante, non risulta nemmeno fondata.
Come correttamente ha gia’ osservato il Tribunale di Napoli, non puo’ infatti ritenersi che, per il solo rinvenimento in sede di primo accesso ispettivo amministrativo di documentazione che poteva far presumere la sussistenza di irregolarita’ fiscali, si dovesse necessariamente “passare” dalla procedura tributaria amministrativa a quella penale, con le relative, diverse, garanzie; ne’ che cio’ si rendesse obbligatorio per l’attivita’, di poco successiva, di copia dei dati contabili informatici del contribuente verificato ovvero a causa della constatazione in data 25 giugno 2012 della “soppressione” della banca dati contabile preesistente.
Non vi e’ infatti coincidenza strutturale normativa piena tra gli illeciti fiscali amministrativi, dei quali certamente tali fatti costituivano elementi indiziari abbastanza precisi e gravi, e l’illecito penale, peraltro unico allo stato ipotizzato, di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 4, essendone il tratto differenziale principale quello, previsto nella norma incriminatrice penale, delle “soglie di punibilita’”, che appunto segnano il confine tra l’uno e l’altro tipo di illecito.
Anche nel caso di specie, per la complessita’ evidente dei relativi accertamenti, ben dimostrata in concreto dalla stessa durata delle attivita’ dii polizia tributaria, risulta operazione valutativa delicata e non affatto immediata appunto quella della determinazione del superamento di dette soglie e quindi la percezione, non meramente astratta, dello “sconfinamento” dall’area amministrativa a quella penale.
Ne’, come intende erroneamente il ricorrente, puo’ essere a questo fine valorizzata la richiesta in data 1 dicembre 2011 fatta dagli operanti al Comandante regionale GdF per l’autorizzazione alle indagini bancarie. Lo stesso tenore letterale della medesima, quale riportato nel ricorso, con tutta evidenza fa riferimento all’atto autorizzatorio che a detta Autorita’ gerarchicamente sovraordinata e’ attribuito dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33, comma 6, e dunque alle attivita’ di polizia tributaria amministrativa, non giudiziaria.
4. Il ricorso va dunque rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
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