Anche alla luce dell’articolo 31, primo comma, lettera d),l. 5 agosto 1978 n. 457, si ha “ristrutturazione” nel caso in cui gli interventi, poiché comportanti modifiche esclusivamente interne, abbiano lasciato inalterati i componenti essenziali dell’edificio, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura; e si ha “ricostruzione” quando tali componenti essenziali dell’edificio preesistente siano venuti meno per evento naturale o volontaria demolizione e l’intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria; ma nel caso in cui tali aumenti sussistano, trattasi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla normativa in tema di distanze vigente al momento dell’edificazione. Non è pertanto sostenibile, in quanto confliggente con il suddetto insegnamento – contro il quale, d’altronde, la corte territoriale non adduce alcuna valida argomentazione ermeneutica se in grado inficiarlo -, che nel caso di specie, nel quale è indiscutibile, per quanto emerge dalle consulenze, che sia stato effettuato un ampliamento volumetrico, l’edificio sia svincolato dalla normativa vigente sulle distanze, non potendosi qualificarlo né ristrutturazione né ricostruzione, bensì nuova costruzione. La ratio decidendi per cui quindi il giudice d’appello dichiara che “la sentenza gravata deve essere confermata” è erronea proprio per quanto denunciato nel motivo in esame.
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Suprema Corte di Cassazione
sezione III civile
sentenza 17 giugno 2016, n. 12527
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione del 27 settembre 2001 R.E. e R.M.F. , comproprietari di una casa situata in (…), convenivano davanti al Tribunale di Trento, sezione distaccata di Cavalese, Delict s.a.s. chiedendone – per quanto qui interessa – la condanna a risarcirli quanto alle spese necessarie per il ripristino del loro immobile, staticamente danneggiato da opere di scavo per lavori effettuati in una casa confinante di proprietà della convenuta, denominata Casa M. , nonché a risarcire loro i danni derivanti dalla indisponibilità del loro immobile; chiedevano altresì la condanna di controparte a demolire o ad arretrare la porzione del nuovo immobile costruito e collocato, rispetto alla proprietà attorea, a distanza inferiore a quella imposta dalla normativa vigente, con correlato risarcimento dei danni.
Si costituiva Delict s.a.s., resistendo alle domande attoree e proponendo domande riconvenzionali, tra le quali l’accertamento che essa era la proprietaria esclusiva della parte della casa Rossi realizzata sulla sua proprietà e, in subordine, che essa aveva acquistato per usucapione il diritto di mantenere il nuovo edificio ad una distanza dalla proprietà attorea inferiore a quella legale. La convenuta chiamava inoltre in causa la sua compagnia assicuratrice, Reale Mutua Assicurazioni S.p.A., nonché l’impresa edile Fratelli Debertol s.n.c. cui aveva commissionato i lavori.
Quest’ultima società a sua volta si costituiva, resistendo e chiamando in causa la stessa compagnia assicuratrice nonché il direttore dei lavori, G.D. . Ciascuno dei due si costituiva, resistendo; il G. chiamava in causa Sevis S.r.l., che aveva materialmente eseguito i lavori, e la sua compagnia assicuratrice, Nuova Tirrena S.p.A.; anche queste si costituivano, resistendo; Sevis S.r.l. chiamava le sue assicuratrici, Winterthur Assicurazioni S.p.A. – poi divenuta Aurora Assicurazioni S.p.A. – e Assicurazioni Internazionali S.p.A. – poi Helvetia Assicurazioni S.p.A., che pure si costituivano resistendo.
Svolta l’istruttoria con prove orali ed espletata una c.t.u., con sentenza del 16-18 gennaio 2007 il Tribunale definiva davanti a sé la causa, tra l’altro non accogliendo le domande riconvenzionali della Delict s.a.s., condannando questa a risarcire agli attori i danni alla casa di loro proprietà nella misura di Euro 18.878 oltre accessori, Sevis S.r.l. a pagare tale somma alla Delict s.a.s., e regolando le spese dei vari rapporti processuali.
Proponevano appello principale contro tale sentenza R.E. e Maria Federica Rossi, e appello incidentale rispettivamente Delict s.a.s., Fratelli Debertol s.n.c., Reale Mutua Assicurazioni, Sevis S.r.l. e Aurora Assicurazioni.
La Corte d’appello di Trento, dopo avere espletato un’ulteriore c.t.u., con sentenza dell’8 gennaio – 11 febbraio 2013, in parziale riforma, rideterminava in Euro 29.170,71, oltre Iva ed interessi legali, il risarcimento dovuto ai Rossi, respingeva una domanda riconvenzionale della Delict s.a.s. attinente a una servitù di passaggio qui non rilevante, regolava le spese dei vari rapporti e confermava la sentenza di primo grado nel resto.
2. Hanno presentato ricorso R.E. , R.M. e C.R. , avendo, nelle more del giudizio d’appello, Maria Federica Rossi ceduto la sua quota di proprietà a R.E. , che l’acquistava in comunione legale con la moglie C.R. , e avendo i due coniugi donato poi una quota della proprietà a R.M. . Il ricorso si è articolato in due motivi – il primo proposto come omesso esame di fatto decisivo e il secondo denunciante violazione e/o falsa applicazione delle norme sulle distanze legali tra edifici – che sono stati illustrati anche con memoria ex articolo 378 c.p.c..
Ha presentato controricorso includente pure ricorso incidentale la Fratelli Debertol s.n.c.,, il cui ricorso incidentale, in effetti, è duplice: sussiste un ricorso incidentale autonomo attinente al regolamento delle spese di lite e un ricorso incidentale subordinato all’accoglimento anche parziale del ricorso R. -C. .
Si è difesa con controricorso avverso il ricorso R. -C. la Delict s.a.s., che ha depositato un ulteriore controricorso per difendersi contro l’impugnazione incidentale della Fratelli Debertol s.n.c., e ha poi depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..
Si sono difesi ciascuno con controricorso Sevis S.r.l. e Unipol Assicurazioni (già Aurora) contro il ricorso R. -C. , anch’essi poi depositando memoria ex articolo 378 c.p.c..
Motivi della decisione
3. Il ricorso principale è parzialmente fondato.
3.1 Il primo motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo che sarebbe stato oggetto di discussione. Davanti ai giudici di merito, infatti, i ricorrenti avevano lamentato che i lavori commissionati dalla società Delict, e in particolare lo scavo di terreno a ridosso dall’immobile attoreo, avevano provocato una generale instabilità statica e strutturale di tutto il loro edificio, tanto che avevano quantificato l’importo dei conseguenti danni nell’elevata somma di Euro 431.372. Ma il giudice d’appello, osservano i ricorrenti, ha ritenuto che il dissesto provocato da quei lavori abbia riguardato esclusivamente la scala esterna di accesso al piano superiore di casa R. , il vano scale coperto della parte retrostante dell’immobile e il pianerottolo esterno, seguendo la valutazione dei suoi consulenti, che non avrebbero tenuto conto della presenza di puntelli di sostegno dell’immobile. Il consulente tecnico di parte dei ricorrenti avrebbe chiesto di asportarli per valutare l’effettiva situazione statica, che non sarebbe stata altrimenti accertabile, ma i consulenti della corte territoriale non l’avrebbero consentito. Il giudice d’appello non avrebbe poi chiesto ai suoi consulenti i necessari chiarimenti sull’incidenza dei puntelli sulla statica dell’immobile, e non avrebbe comunque esaminato questo profilo, neppure menzionandolo in motivazione. Eppure, secondo i ricorrenti, questo sarebbe fatto decisivo secondo la comune esperienza, come dimostrerebbe anche il divario tra i costi necessari al ripristino determinati dal consulente tecnico di parte dei R. (Euro 431.371) e quelli determinati dai consulenti della corte territoriale (Euro 38.382,51).
Deve anzitutto rilevarsi che la sentenza impugnata può essere censurata dal punto di vista motivazionale così come stabilito nel testo attualmente vigente dell’articolo 360, primo comma, n. 5 c.p.c., in quanto depositata nel 2013. Pertanto, il giudice di legittimità non può che verificare l’esistenza dell’esame del fatto decisivo e controverso, senza poter scendere nel contenuto dell’esame, qualora questo sussista. Nel caso di specie, quello che viene definito dai ricorrenti fatto decisivo e controverso non è – può fin d’ora rilevarsi – che uno degli elementi della situazione concreta in cui si trovava l’edificio di proprietà attorea quando è stato sottoposto all’accertamento tecnico sia del c.t.u. nominato dal Tribunale, sia, e proprio in forza delle doglianze degli attuali ricorrenti, all’accertamento tecnico disposto dalla corte territoriale per integrare e chiarire gli esiti della verifica tecnica effettuata in primo grado che, secondo la prospettazione degli allora appellanti R. , non erano sufficienti ed adeguati. È vero che nella motivazione il giudice d’appello non fa menzione espressa dei puntelli dell’edificio in questione; è altrettanto vero, però, che il giudice d’appello, dopo avere disposto una nuova consulenza tecnica d’ufficio in cui al consulente ingegnere (un altro ingegnere era stato il consulente del Tribunale) ha affiancato come ausiliario anche un geologo, ha seguito poi i risultati di una consulenza che si è svolta, come nota, in “tempi lunghi”, proprio per espletare “un controllo protratto nel tempo della staticità dell’immobile”, rilevando che essa aveva in sostanza raggiunto lo stesso esito della prima c.t.u., cui era stata aggiunta la valutazione della denunciata pericolosità della situazione geologica della zona, nel senso che “alla data corrente, i luoghi di causa non sono esposti al pericolo geologico generale” per le intervenute opere pubbliche (strutture paramassi atte a impedire lo smottamento di blocchi rocciosi fino all’abitato) che avevano rimosso un pericolo originariamente davvero sussistente.
È dunque evidente che la questione delle criticità statiche dell’immobile e delle loro cause sono state affrontate dalla corte aderendo agli esiti della consulenza tecnica da essa disposta – esiti, si ripete, che erano poi coincisi con quelli della c.t.u. di primo grado -; e, a ben guardare, proprio l’esistenza o meno di criticità statiche nell’immobile come causate dall’opera della controparte era il fatto decisivo e discusso, e non invece l’esistenza o meno di puntelli all’immobile stesso, la cui decisività è, in effetti, un mero asserto dei ricorrenti, ovvero un’argomentazione, che non può comunque anche da un punto di vista meramente logico essere decisiva, in quanto non attinente all’aspetto eziologico, imprescindibile per accertare la responsabilità della convenuta.
Non sussiste, in conclusione, il vizio motivazionale di omesso esame, non potendosi del resto identificare il fatto decisivo e controverso da esaminare espressamente in ognuna delle argomentazioni difensive di una parte, già sotto la vigenza della più estesa versione dell’articolo 360, primo comma, n. 5 c.p.c. antecedente alla novellazione del 2012 essendo stato riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte che il giudice di merito non è obbligato a esternare nell’ambito dell’apparato motivazionale ogni elemento probatorio sussistente agli atti per rendere conto dell’iter percorso per giungere al suo accertamento fattuale, non essendo invero tenuto ad un’esplicita confutazione di ogni argomento al riguardo addotto dalle parti (cfr. p. es. Cass. sez. 1, 23 maggio 2014 n. 11511, Cass. sez. 2, ord. 12 aprile 2011 n.8294, Cass. sez. 3, 28 ottobre 2009 n. 22801, Cass. sez. L, 15 luglio 2009 n. 16499, Cass. sez. L, 7 gennaio 2009 n. 42, Cass. sez. 3, 16 gennaio 2007 n. 828, Cass. sez. 3, 24 maggio 2006 n. 12362, Cass. sez. L, 1 settembre 2003 n. 12747 e Cass. sez. 3, 11 agosto 2000 n. 10719); e d’altronde un fatto decisivo, per essere tale, deve godere di una idoneità a mutare l’accertamento che risulti indubbia e non meramente probabile (Cass. sez. L, 14 novembre 2013 n. 25608).
Il primo motivo, dunque, risulta infondato.
3.2.1 Il secondo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione delle norme relative alle distanze legali tra edifici.
Come sopra si è visto nella sintesi dei tratti qui significativi della vicenda processuale, i proprietari della casa R. , quali attori, avevano tra l’altro chiesto al Tribunale di condannare la convenuta società a demolire o comunque ad arretrare la porzione della loro costruzione – la nuova casa M. – nella parte in cui risultava situata a distanza inferiore dalla casa attorea a quella imposta dalla normativa sulle distanze nel frattempo sopravvenuta, oltre al relativo risarcimento dei danni. Il Tribunale aveva respinto queste pretese perché la costruzione della convenuta era stata realizzata esattamente dove insisteva la vecchia casa (…), per cui non era subordinata alle nuove norme vigenti. Ma la giurisprudenza di legittimità ormai consolidata, osservano i ricorrenti, insegna che nel caso in cui sia stata edificata una nuova costruzione, anche per l’aumento della volumetria, non si sfugge alle nuove norme.
La questione aveva costituito motivo d’appello, e la corte territoriale al riguardo (nelle pagine 52 ss. della sua ampia motivazione) prende le mosse dal “precisare” che “in tale argomento rientra anche quanto richiesto dalla Delict s.a.s. in via incidentale”, ovvero l’”accertamento dell’avvenuto acquisto in forza di usucapione del diritto della società convenuta a mantenere il suo edificio alla distanza attuale, ancorché inferiore a quella legale”. Nonostante ciò sia stato ritenuto una “precisazione” da offrire “anzitutto”, la corte territoriale muta subito la direzione del suo ragionamento. Dato atto che gli appellanti avevano addotto che controparte aveva edificato una nuova costruzione, e non una ricostruzione dell’edificio precedente, il giudice d’appello richiama quello che “il nuovo Consulente tecnico d’ufficio, rispondendo al quesito postogli da questa Corte, ha osservato”, e cioè che “il progetto per la costruzione realizzata dalla società convenuta non era stato presentato con lo scopo di demolire e ricostruire integralmente il fabbricato preesistente, bensì con l’intento di realizzare un nuovo impianto edilizio con un diverso sviluppo e conformazione rispetto al precedente”; e, sempre secondo tale consulente, “nel caso concreto, dall’analisi dei progetti depositati la previsione del mantenimento di una parte prospiciente il vicino sarebbe stata prevista proprio per non perdere il diritto acquisito”, per cui “quanto realizzato potrebbe inquadrarsi come parziale ristrutturazione con mantenimento degli allineamenti preesistenti, di parziale ampliamento dell’immobile, di parziale nuova edificazione, sicché, pur essendo indiscutibile l’integrale rifacimento dell’intero immobile, con dimensioni volumi e conformazione diversi da quelli precedenti, dal solo ampliamento dalla parte opposta alla casa R. …non sarebbe derivata alcuna lesione ai diritti del confinante”.
Senza rilevare la singolarità di una siffatta valutazione del c.t.u., che inequivocamente ratifica quello che egli stesso descrive come un’evidente elusione (“la previsione del mantenimento di una parte prospiciente il vicino sarebbe stata prevista proprio per non perdere il diritto acquisito”, come se si trattasse di una pluralità di immobili autonomi, e non di un unico edificio), la corte si limita a rilevare che il consulente avrebbe “sposato la tesi del Tribunale”, e dà atto, poi, di quello che è attualmente il reale insegnamento della giurisprudenza di legittimità, per cui si ha mera ricostruzione, ovvero l’esonero dalle norme vigenti in punto di distanze, “solo se l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle strutture precedenti, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro”, altrimenti versandosi nell’ipotesi di nuova costruzione, assoggettata alla normativa vigente.
3.2.2 Ma questo inequivoco insegnamento non è la conclusione dell’iter argomentativo della Corte d’appello di Trento, che ritiene imprescindibile la “disamina della ragion d’essere dei limiti posti dal legislatore alla proprietà in tema di rispetto delle distanze legali”; e quindi asserisce che sarebbe indiscusso che la ratio dell’articolo 873 c.c. “debba esser individuata nell’esigenza non certo della tutela della riservatezza, bensì della salubrità e sicurezza”; ma “se è così” si deve “verificare se rispetto al passato vi sia stata una modifica della sagoma dell’edificio confinante in larghezza ed in altezza, non già alla costruzione confinante astrattamente considerata nella sua unitaria realizzazione, ma solo alla parte di essa che concretamente fronteggia il fabbricato vicino”. E dunque, se l’edificio è stato ricostruito “alla medesima distanza senza ampliamenti della sagoma o dell’altezza rispetto al fabbricato prospiciente del vicino, va ritenuto irrilevante l’eventuale ampliamento e rifacimento realizzato su diversi fronti” come si sarebbe espressa questa Suprema Corte in un risalente arresto (n. 14543/2004). E poiché sia nella c.t.u. di primo grado che in quella d’appello si è “accertato che rispetto al confine ed alla casa degli attori non vi è stato alcun ampliamento della sagoma dell’edificio”, “la sentenza gravata deve essere confermata”.
A parte che non è logicamente comprensibile come possa definirsi espletata “astrattamente” la considerazione dell’edificio nelle sue globali dimensioni, quel che rileva è, ovviamente, trattandosi di questioni di diritto, non il percorso motivazionale in sé (che suscita una certa perplessità anche laddove afferma di individuare la esclusiva ratio dell’articolo 873 c.c.), bensì il principio applicato. E la giurisprudenza di questa Suprema Corte, come già più sopra osservato, è ormai inequivoca nel senso che la ricostruzione dell’immobile non deve arrecare alcun novum esterno per consentirne l’edificazione ad una distanza difforme da quella stabilita dalla normativa vigente, avendo le stesse Sezioni Unite (nell’ordinanza n. 21578 del 19 ottobre 2011) affermato che, anche alla luce dell’articolo 31, primo comma, lettera d),l. 5 agosto 1978 n. 457, si ha “ristrutturazione” nel caso in cui gli interventi, poiché comportanti modifiche esclusivamente interne, abbiano lasciato inalterati i componenti essenziali dell’edificio, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura; e si ha “ricostruzione” quando tali componenti essenziali dell’edificio preesistente siano venuti meno per evento naturale o volontaria demolizione e l’intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria; ma nel caso in cui tali aumenti sussistano, trattasi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla normativa in tema di distanze vigente al momento dell’edificazione, così ribadendosi quanto insegnato da un ampio orientamento (Cass. sez.2, 26 ottobre 2000 n. 14128; Cass. sez.2, 6 ottobre 2005 n. 19469; Cass. sez.2, 27 aprile 2006 n. 9637; Cass. sez.2, 11 febbraio 2009 n. 3391; Cass. sez.2, 27 ottobre 2009 n. 22688) e anche da ultimo rimarcato (Cass. sez.2, 20 agosto 2015 n. 17043).
Non è pertanto sostenibile, in quanto confliggente con il suddetto insegnamento – contro il quale, d’altronde, la corte territoriale non adduce alcuna valida argomentazione ermeneutica se in grado inficiarlo -, che nel caso di specie, nel quale è indiscutibile, per quanto emerge dalle consulenze, che sia stato effettuato un ampliamento volumetrico, l’edificio sia svincolato dalla normativa vigente sulle distanze, non potendosi qualificarlo né ristrutturazione né ricostruzione, bensì nuova costruzione. La ratio decidendi per cui quindi il giudice d’appello dichiara che “la sentenza gravata deve essere confermata” è erronea proprio per quanto denunciato nel motivo in esame.
3.2.3 Deve ricordarsi, peraltro, che all’incipit dell’esame di questa doglianza la corte territoriale l’aveva dichiarata rientrante in quanto richiesto dalla Delict in via incidentale (come appello in relazione ad una domanda riconvenzionale proposta in primo grado), cioè l’accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione del suo diritto a mantenere l’edificio alla attuale distanza, benché inferiore a quella legale. Dopo avere valutato, allora, i presupposti dell’esonero dalla normativa vigente in tema di distanze – nelle modalità, appena appurato, che l’hanno condotta all’applicazione di un principio erroneo -, la corte d’improvviso richiama quell’appello incidentale, per affermare che la pretesa attorea è infondata sotto un altro autonomo e sufficiente profilo. Tale profilo, peraltro, subito dopo la corte lo identifica in un appello incidentale condizionato (“ed infatti la società convenuta aveva chiesto in via riconvenzionale, ed oggi sul punto ha proposto appello incidentale condizionato, che fosse riconosciuto il suo diritto a mantenere il nuovo edificio alla distanza attuale in forza di usucapione ultraventennale” la cui prova “non solo è pacifica in relazione alla vetustà delle due case confinanti, ma è deducibile anche dalle ammissioni rese in sede di interpello dallo stesso R. “: così a pagina 57 della motivazione).
Sulla base di questo passo motivazionale la controricorrente Delict ha eccepito l’inammissibilità del secondo motivo del ricorso R. -C. , richiamando il noto insegnamento giurisprudenziale per cui non si ha interesse a censurare una sola ratio decidendi – e il motivo in effetti censura solo quella attinente alla tipologia di costruzione finora vagliata – qualora la pronuncia impugnata sia sorretta da altra ratio decidendi autonoma e non censurata da chi, appunto, impugna (Cass. sez. 3, 7 novembre 2005 n. 21490; Cass. sez. 3, 11 gennaio 2007 n. 389; Cass. sez. 3, 5 giugno 2007 n. 13070; Cass. sez. lav., 11 febbraio 2011 n. 3386; Cass. sez. 3, 14 febbraio 2012 n. 2108; S.U. 29 marzo 2013 n. 7931).
Tuttavia, non può non osservarsi che la sussistenza effettiva o meno di un’ulteriore ratio decidendi, in quanto integrante il contenuto del vaglio dell’ammissibilità del motivo, deve essere accertata dal giudice di legittimità. Non è quindi sufficiente che la sentenza impugnata definisca un proprio argomento motivazionale ratio decidendi affinché questo assurga realmente tale ruolo, e quindi chi impugna sia costretto a censurarlo, giacché quel che rileva è la sostanza dell’argomento, non l’”etichetta” che il giudice di merito vi appone.
Nel caso di specie, la pretesa seconda ratio decidendi nel caso concreto non si colloca in un rapporto di autonomia rispetto alla ratio decidendi di cui sopra si è trattato, riconoscendola la stessa corte, a ben guardare, come accoglimento di un “appello incidentale condizionato”, e cioè evidentemente subordinato all’inesistenza della ratio decidendi cui la corte aveva in precedenza dedicato il suo ragionamento giudicandola esistente. Riconoscendolo come condizionato, logicamente quel che ne dice la corte diventa allora un rilievo relativo ad una situazione ipotetica che non si è verificata, per cui (si ripete, nel caso concreto, rispetto al quale l’interesse processuale deve essere individuato. cfr. da ultimo Cass. sez. 3, 10 novembre 2015 n. 22878) di per sé viene reso quale obiter dictum, vale a dire come un argomento inidoneo a sorreggere la sentenza impugnata (sulla natura dell’obiter dictum come argomento estraneo alla necessità logico-giuridica della decisione, cfr. p.es., seppur a proposito di altra tematica, Cass. sez. 2, 8 febbraio 2012 n. 1815).
Il secondo motivo del ricorso, in conclusione, non è inammissibile come conformato e nel merito deve essere accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso.
3.3 Il mancato accoglimento, invece, del primo motivo del ricorso principale conduce all’assorbimento del ricorso incidentale subordinato proposto dalla Fratelli Debertol s.n.c., poiché quest’ultimo soltanto ad esso attiene, riguardando l’asserita responsabilità della società nella causazione dei danni. L’accoglimento del secondo motivo, invero, non incide minimamente sulla posizione di tale società, per cui non ostacola l’assorbimento.
Rimane l’appello incidentale autonomo della Fratelli Debertol s.n.c., che presenta un unico motivo, rubricato come omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo in forza dell’articolo 360, primo comma, n. 5 c.p.c. nel testo antecedente alla novella del 2012, ritenuto applicabile, nonché “comunque” omesso esame di un fatto decisivo e discusso quanto alla condanna in primo grado della ricorrente a rifondere le spese legali al G. e alla compensazione delle spese nei confronti di Delict, Sevis e Mutua Assicurazioni.
Premesso che nel caso in esame è indubbiamente applicabile il testo vigente, essendo stata la sentenza depositata nel 2013, rimane soltanto il preteso omesso esame di un fatto decisivo e discusso, che consisterebbe poi nella valutazione del giudice in ordine alle spese. Ma l’articolo 360, primo comma, n. 5 c.p.c. riguarda un vizio motivazionale in punto di accertamento di fatto, e quindi non è pertinente ad esso la reale doglianza della ricorrente, che avrebbe dovuto essere addotta, semmai ve ne fossero stati i presupposti, sotto forma di violazione di norma processuale. Il motivo, pertanto, va disatteso.
In conclusione, del ricorso principale deve essere rigettato il primo motivo, come deve essere rigettato l’unico motivo del ricorso incidentale autonomo; assorbito quindi il ricorso incidentale subordinato, deve invece accogliersi il secondo motivo del ricorso principale, con conseguente cassazione in relazione ad esso della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese del grado, alla corte territoriale in diversa composizione.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo del ricorso principale e il motivo del ricorso incidentale autonomo; accoglie il secondo motivo del ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale subordinato; cassa in relazione e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Trento in diversa composizione.
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