La massima
Per l’esecuzione in forma specifica di un preliminare di vendita immobiliare non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i coniugi in comunione legale, ma è sufficiente il consenso dell’altro coniuge e la mancanza del suo consenso si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell’art. 184 c.c., (nel rispetto del principio generale di buona fede e dell’affidamento), per cui spetta al giudice del merito verificare la proposizione della domanda di annullamento, quantomeno sotto forma di eccezione in base all’art. 1442 c.c., ult. comma.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 30 gennaio 2013, n. 2202
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato in data 16 aprile 1993 la NAPAF di Martire Antonino & C. s.a.s. evocava, dinanzi al Tribunale di Larino, i coniugi G..R. e R..D. esponendo di avere stipulato il giorno 10.1.1992, con il R. , contratto preliminare di vendita di compendio immobiliare sito in (omissis) , pattuendo il prezzo complessivo di L. 50.000.000, corrisposta la somma di L. 10.000.000 a titolo di caparra confirmatoria, nonché la cifra di L. 30.000.000 il 20.8.1992. per cui residuava il solo saldo di L. 10.000.000 da versarsi entro il 20.8.1994, data entro la quale doveva essere stipulato il contratto definitivo e consegnato l’immobile alla promissaria acquirente, come previsto nel preliminare; aggiungeva che inviata lettera raccomandata il 20.3.1993, invitando il promittente venditore a comparire avanti al notaio mettendo a disposizione il residuo prezzo, non otteneva alcun riscontro; ciò precisato, chiedeva pronunciarsi sentenza produttiva degli effetti del contratto di vendita.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del R. , il quale eccepiva che il contratto preliminare, nel quale il prezzo del bene era stabilito in L. 60,000.000 (e non in L. 50.000.000), aveva il solo scopo di garantire un prestito di denaro promesso dal M. al R. per la complessiva somma di L. 40.000.000, precisando di non avere mai immesso il M. nel possesso dell’immobile, bene del quale era comproprietaria anche la moglie, D.R. , che non aveva firmato il contratto, costituita anche la D. che dichiarava di essere venuta a conoscenza del preliminare solo a seguito della notifica dell’atto di citazione, eccepito il suo difetto di legittimazione passiva, il giudice adito, espletata istruttoria, dichiarava risolto per inadempimento il contratto preliminare di compravendita del 10.1.1992 intervenuta fra il M. ed il R. e per l’effetto dichiarava che l’immobile oggetto del contratto era di proprietà del M. quale titolare della NAPAF per averlo acquistato dal R. in regime di comunione legale con la D. , rigettate le domanda di risarcimento dei danni. In virtù di rituale appello interposto dalla D. , con il quale insisteva per il rigetto della domanda attorea con declaratoria di nullità o comunque di inefficacia del preliminare, impugnazione proposta anche dal R. con separato atto, la Corte di appello di Campobasso, riuniti i giudizi, nella resistenza dell’appellata, costituita in entrambe le cause, accoglieva il gravame e in riforma della sentenza impugnata, respingeva la domanda proposta dalla impresa edile.
A sostegno della adottata decisione la corte distrettuale evidenziava che l’azione volta a conseguire l’esecuzione specifica del preliminare non poteva riguardare il coniuge non contraente, neppure litisconsorte necessario nel procedimento instaurato a tale scopo, essendo estraneo al rapporto; tuttavia affermava che l’eccezione di carenza di legittimazione passiva, non riproposta dall’appellante in appello, implicitamente rigettata dal Tribunale, doveva considerarsi oggetto di giudicato interno.
Aggiungeva che il giudice di primo grado avrebbe dovuto limitare l’accertamento alla esistenza delle condizioni necessarie affinché il preliminare fosse trasfuso in atto pubblico, condizioni che nella specie non si erano verificate non avendo il promittente venditore ottenuto il consenso anche del coniuge comproprietario a vendere il compendio de quo. Né poteva estendere l’indagine alla verifica dell’ipotesi di inadempimento o di possibilità di risoluzione del contratto, poiché non richiesto da nessuna delle parti.
Concludeva che non poteva essere invocata la disciplina dell’art. 177 c.c., come dedotto dall’appellato, in quanto il R. non aveva esperito alcun atto di disposizione del bene comune, essendosi solo obbligato personalmente a compierlo nel futuro.
Avverso la indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione la NAPAF & C. s.a.s., articolato su quattro motivi, al quale hanno resistito con separati controricorsi, sia la D. sia il R. .
Motivi della decisione
Con il primo motivo l’impresa ricorrente denuncia la falsa ed erronea applicazione dell’art. 112 c.p.c., anche per vizio di motivazione, per avere la corte territoriale omesso ogni pronuncia relativamente al vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado. A conclusione del motivo viene formulato il seguente quesito: “Deve la Corte di appello pronunciarsi sul vizio di ultra petizione presente nella sentenza pronunciata dal giudice di primo grado?”. Il motivo non merita accoglimento ed è frutto di una non attenta e non corretta lettura della sentenza impugnata, come complessivamente argomentata.
Va in primo luogo rilevato che il quesito prospettato non corrisponde a quanto ritenuto dalla sentenza, che – diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente – si è pronunciata sulla risoluzione, giacché oltre ad avere evidenziato l’incompatibilità tra la declaratoria di risoluzione del contratto preliminare e quella di esecuzione in forma specifica dello stesso, quest’ultima richiesta dall’originaria attrice, ha sottolineato che nessuna delle parti aveva chiesto una pronuncia di risoluzione del contratto e quindi il giudice di primo grado non avrebbe potuto “estendere l’indagine alla verifica dell’ipotesi di inadempimento o di possibilità di risoluzione del contratto” (v. pag. 11 della sent. impugnata).
Il quesito (e conseguentemente tutto il motivo) è quindi inappropriato, perché ipotizza che la sentenza abbia regolato la fattispecie in modo diverso da quello rilevabile dall’atto impugnato, senza tenere conto delle considerazioni sopra esposte ai fini dell’accertamento della domanda attorea e delle difese rispettivamente formulate dalle controparti, per cui la corte distrettuale ha ritenuto non possibile pronunciare la risoluzione del contratto preliminare in contesa. Detto passaggio logico non è fatto segno di critica, non risultando il vizio denunciato pertinente a tale articolato e puntualmente motivato passaggio argomentativo, rispetto al quale il quesito di diritto, peraltro astratto, risulta eccentrico e non pertinente.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la falsa ed erronea applicazione dell’art. 346 c.p.c., anche quale vizio di motivazione, per avere la corte di merito omesso ogni statuizione relativamente alla restituzione in favore del M. delle somme di denaro dallo stesso corrisposte dal R. in esecuzione del contratto preliminare in questione. Prosegue la ricorrente che nel giudizio di primo grado l’originaria attrice aveva richiesto che in ipotesi di rigetto della domanda principale, venisse disposta, in subordine, la restituzione delle somme di denaro corrisposte in favore del R. ed essendo stata l’impresa pienamente vittoriosa in primo grado, non era necessario proporre un apposito appello incidentale sul punto.
In ragione di ciò, la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “La Corte di appello nella ipotesi di riforma della sentenza emessa dal giudice di primo grado deve pronunciarsi su una domanda ritenuta assorbente nella decisione impugnata?”.
Anche il secondo motivo del ricorso non è accoglibile.
Come si è detto, la sentenza della corte distrettuale ha escluso che potesse essere pronunciata la risoluzione del preliminare e quindi non poteva farsi luogo alla restituzione del prezzo pagato. In ogni caso il collegio intende, al riguardo, ribadire l’orientamento già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, alla stregua del quale, in materia di procedimento civile, in mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse. Tuttavia, pur se libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice (v. Cass. 25 novembre 2010 n. 23925; Cass. 11 maggio 2009 n. 10796; Cass. 3 febbraio 2006 n. 2439; Cass. 18 gennaio 2006 n. 830; Cass. 11 maggio 2005 n. 9878; Cass. 30 dicembre 2004 n. 24182; Cass. 20 agosto 2004 n. 16360; Cass. 27 gennaio 2003 n. 1161).
Non controverso quanto precede, è di palmare evidenza che correttamente i giudici del merito hanno escluso che la società odierna ricorrente abbia reiterato, in grado di appello, la domanda subordinata di restituzione di quanto versato al R. (in ipotesi di mancato accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c.), e d’altro canto la stessa non poteva essere disposta di ufficio, rientrando nell’autonomia delle parti disporre delle conseguenze della risoluzione (si ribadisce, non richiesta da alcuna delle parti del giudizio) e, quindi, chiedere o non la restituzione della prestazione eseguita in base al contratto risolto e rimasta senza causa (così Cass. 3 febbraio 2006 n. 2439).
Con il terzo motivo viene denunciata la falsa applicazione dell’art. 177 c.c. per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto applicabile detta disposizione ai soli acquisti di beni immobili effettuati dai coniugi che comportano l’effettivo trasferimento o costituzione di diritti reali in capo ai medesimi. Di converso, essendo la comunione legale tra coniugi una comunione senza quote ed essendo il consenso dell’altro coniuge solo ed esclusivamente un negozio unilaterale autorizzativo, la cui mancanza non rende invalido o nullo il contratto stipulato dall’altro, la stessa doveva essere ritenuta obbligata ex lege nei confronti della ricorrente.
Il motivo culmina nel seguente quesito di diritto: “Le disposizioni di cui all’art. 177 c.c. possono applicarsi anche ai rapporti obbligatori di credito di natura relativi e personali o trovano applicazione con riferimento esclusivo agli acquisti di beni comportanti la costituzione o il trasferimento di diritti reali?”.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la falsa ed erronea applicazione dell’art. 184 c.c. per avere la corte territoriale ritenuto nullo nei confronti della D. il preliminare di compravendita del 10.1.1992 pur non avendo la medesima proposto l’azione di annullamento prevista ex lege. Infatti gli atti di disposizione dei beni immobili appartenenti alla comunione compiuti da un coniuge, senza il consenso dell’altro, sono pienamente validi ed efficaci, solo sottoponibili all’azione di annullamento, da esperire entro un anno dalla data in cui questi ha avuto conoscenza dell’atto stipulato dall’altro, per cui la D. avrebbe dovuto proporre l’azione di annullamento entro e non oltre l’11.2.1994.
La ricorrente conclude formulando il seguente quesito di diritto: “il contratto preliminare di compravendita ha efficacia nei confronti del coniuge che non lo abbia sottoscritto pur non avendo quest’ultimo esperito l’azione di annullamento ex art. 184 c.c.?”
I motivi – che per la loro stretta connessione, involgendo entrambi la questione della legittimazione del coniuge che non abbia partecipato al contratto concluso dell’altro coniuge in ipotesi di comunione legale, vanno esaminati congiuntamente – appaiono fondati e quindi meritevoli di accoglimento.
La corte di merito ha affermato che l’art. 177 c.c. non trovava applicazione quanto ai contratti obbligatori, i quali, non comportando l’effettivo trasferimento di un bene, ma ponendosi come momento originario di una serie obbligatoria consequenziale e successiva, in cui il solo esito conclusivo necessitato è il trasferimento della proprietà del bene, determinano solo un obbligo di natura relativa e personale per il coniuge che ha concluso l’accordo, con la conseguenza che la domanda di annullamento della D. , prevista dall’art. 184 c.c. ed accordata al coniuge non stipulante e dissenziente, risultava prematuramente formulata. Sulla base di detti presupposti i giudici di appello hanno ritenuto che dovesse trovare accoglimento l’eccezione del R. di impossibilità di trasferimento del bene ex art. 2932 c.c. senza il consenso dell’altro coniuge.
L’argomentazione è erronea, considerato che l’assenza del consenso del coniuge non impedisce il trasferimento del bene, ma io rende solo annullabile.
Infatti occorre premettere che le sezioni unite, risolvendo un contrasto insorto tra le sezioni semplici – diversamente da quanto asserito del giudice del gravame – hanno affermato che in caso di contratto preliminare stipulato senza il consenso dell’altro coniuge, quest’ultimo deve considerarsi litisconsorte necessario del giudizio per l’esecuzione specifica del contratto (Cass. SS.UU. 24 agosto 2007 n. 17952), proprio perché detto coniuge è ancora titolare di una situazione giuridica inscindibile che lo rende litisconsorte necessario nel giudizio di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre e l’eventuale decisione in assenza di contraddicono sarebbe inidonea a spiegare i propri effetti, cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura plurisoggettiva e concettualmente unica ed inscindibile del rapporto. Ciò posto, si deve rilevare che la domanda (reiterata con le difese formulate dalla società appellata in sede di gravame) di esecuzione in forma specifica del contratto è stata respinta dalla corte distrettuale senza che venisse effettuato alcun accertamento sulle eccezioni sollevate dalla D. circa la nullità ovvero inefficacia del contratto preliminare per mancanza del consenso del coniuge (v. in tal senso pag. 7 della sentenza di appello laddove viene dato atto di una richiesta della stessa D. di “declaratoria di nullità e comunque di inefficacia del preliminare di vendita”), ma semplicemente sulla base dell’affermazione per la quale la D. “non aveva alcun interesse, né del resto avrebbe avuto il diritto, di veder annullare il contratto preliminare di compravendita, che ha creato obbligazioni personali in capo al promittente venditore R. , ma che a lei terza estranea non è opponibile”, proseguendo che doveva essere semplicemente accertato se esistessero o meno le condizioni perché il preliminare di compravendita fosse trasfuso in atto pubblico, nella specie non realizzate per non avere il promittente venditore ottenuto il consenso da parte del coniuge comproprietario a vendere il fondo in questione.
Nella sentenza si sostiene, in sostanza, che per il trasferimento del bene occorrerebbe il formarsi di un’unica volontà negoziale in capo ai due coniugi in comunione dei beni, data l’unicità e la inscindibilità del bene in comunione e che, quindi, il coniuge stipulante avrebbe potuto cedere la propria quota, ma non cedere anche quella del coniuge non stipulante.
Risulta pertanto evidente la violazione dei principi di cui agli artt. 180 e 184 c.c., e, in generale, dei principi relativi agli atti di disposizione di beni della comunione legale perché la corte territoriale ha applicato alla comunione legale i diversi principi che regolano la comunione ordinaria e che non si applicano nell’ipotesi di comunione legale tra coniugi. Il giudice distrettuale non ha considerato che la comunione legale tra coniugi costituisce una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei; ne consegue che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge, mentre non può disporre della propria quota, ben può disporre dell’intero bene comune (contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata), mentre il consenso dell’altro coniuge si configura come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell’art. 184 c.c., nel termine di un anno decorrente dalla conoscenza dell’atto o dalla data di trascrizione (v., di recente, Cass. 21 maggio 2008 n. 12849; Cass. 11 giungo 2010 n. 14093; Cass. 24 luglio 2012 n. 12923).
In particolare, come ha avuto occasione di chiarire questa corte (decisione a SS.UU. n. 17952 del 2007 cit.), il consenso del coniuge pretermesso non è atto autorizzativo nel senso di atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso di atto che rimuove un limite all’esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio: l’ipotesi regolata dall’art. 184 c.c., comma 1, dunque, si riferisce non ad un caso di acquisto inefficace perché a non domino, bensì ad un caso di acquisto a domino in base ad un titolo viziato.
Ne discende che la mera mancanza di sottoscrizione del contratto da parte del coniuge non era sufficiente per il rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare, dovendosi esaminare il profilo del consenso e della rilevanza della conoscenza dell’atto da parte dell’altro coniuge.
L’art. 184 c.c., infatti, per l’esigenza di tutelare la rapidità e la certezza della circolazione dei beni in regime di comunione legale, disciplina il conflitto tra il terzo ed il coniuge pretermesso in modo più favorevole (rispetto alla comunione ordinaria) al primo, con il regime degli effetti tendente alla conservazione del negozio; di conseguenza il contratto, in assenza del consenso del coniuge pretermesso non è inefficace né nei confronti dei terzi, né nei confronti della comunione, ma è solo soggetto alla disciplina dell’art. 184 c.c., comma 1, ed è solamente esposto all’azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l’esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell’atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione (in tal senso, v. Cass. 21 dicembre 2001 n. 16177; Cass. 31 gennaio 2012 n. 1385).
In conclusione si deve annullare tale decisione affermandosi il principio che per l’esecuzione in forma specifica di un preliminare di vendita immobiliare non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i coniugi in comunione legale, ma è sufficiente il consenso dell’altro coniuge e la mancanza del suo consenso si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell’art. 184 c.c., (nel rispetto del principio generale di buona fede e dell’affidamento), per cui spetta al giudice del merito verificare la proposizione della domanda di annullamento da parte della D. , quantomeno sotto forma di eccezione in base all’art. 1442 c.c., ult. comma (v. in tal senso Cass. 27 ottobre 2003).
Entro questi limiti devono essere accolti i motivi tre e quattro del ricorso, con cassazione della sentenza e rinvio alla Corte di Appello di Napoli che si uniformerà al principio di diritto sopra enunciato, provvedendo anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte, rigetta i primi due motivi di ricorso ed accoglie il terzo ed il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Napoli.
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