Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 27 giugno 2014, n. 14687

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 1-3-1994 P.L. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Rieti i fratelli P.G. e P.F. ed il nipote P.O. , figlio del fratello premorto P.A. , chiedendo l’accertamento del diritto di abitazione sulla casa paterna di (…), costituito in suo favore dal padre P.O. , deceduto il 27-4-1956, con testamento olografo del 20-2-1950 pubblicato dal notaio Gianfelice il 21-7-1956, e la condanna dei fratelli al rilascio dell’immobile ed al risarcimento dei danni.
Nella contumacia di P.O. , si costituivano in giudizio P.G. e P.F. assumendo di avere anch’essi un diritto di abitazione sulla casa paterna, o di averlo usucapito; pertanto in via riconvenzionale chiedevano il relativo accertamento.
Il Tribunale di Rieti con sentenza del 1-6-2001 accertava il diritto di abitazione dell’attrice sulla casa paterna, condannava i convenuti al rilascio del suddetto immobile e rigettava sia la domanda di risarcimento danni proposta da P.L. sia le domande riconvenzionali.
Proposta impugnazione da parte di P.F. cui resisteva P.L. mentre P.G. ed P.O. restavano contumaci la Corte di Appello di Roma con sentenza del 9-10-2007 ha rigettato il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza P.F. ha proposto un ricorso articolato in tre motivi cui P.L. ha resistito con controricorso; P.G. ed P.O. non hanno svolto attività difensiva in questa sede; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Il Collegio rileva preliminarmente che nella fattispecie, in presenza di una sentenza impugnata depositata il 9-10-2007, trova applicazione “ratione temporis” l’art. 366 “bis” c.p.c., che prescrive a pena di inammissibilità per ciascun motivo, nei casi previsti dall’art. 360 primo comma numeri 1-2-3 e 4, la formulazione di un quesito di diritto che costituisca una sintesi logico – giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una “regola juris” suscettibile di trovare applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata; inoltre detto articolo prescrive, sempre a pena di inammissibilità per ciascun motivo, nel caso previsto dall’art. 360 primo comma numero 5 c.p.c, una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione; orbene tutti i motivi di ricorso rispondono sufficientemente a tali requisiti, cosicché sotto tale profilo essi sono ammissibili.
Procedendo quindi all’esame del ricorso, si rileva che con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1022 c.c. ed omessa ed insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che la norma ora richiamata, lungi dal limitare in senso quantitativo l’entità del diritto di abitazione del titolare, intende invece individuare il contenuto del diritto definendolo, in positivo, proprio nell’abitare la casa da parte del titolare e della sua famiglia e, in negativo, implicitamente, attraverso l’esclusione di un uso diverso, quale quello di concederla a qualunque titolo, o quello di trame una utilità difforme da quella abitativa; in realtà, premesso che tale interpretazione della norma in esame tende ad attribuirle delle finalità già previste dagli artt. 1024 e 981 c.c., P.F. rileva che invece l’art. 1022 c.c. ha inteso limitare il diritto di abitazione soltanto ai bisogni del titolare e della sua famiglia; pertanto nella fattispecie è evidente che il diritto di abitazione di P.L. – la quale, rimasta nubile ed abitante a (…) da oltre 50 anni, utilizza la casa sita in (omissis) solo una volta all’anno nella stagione estiva – deve considerarsi limitato, in relazione agli effettivi bisogni abitativi della stessa quale persona singola, ad una sola parte della suddetta casa, che per essere costituita da 12 vani distribuiti su 3 piani, eccede largamente detti bisogni.
Il ricorrente aggiunge che, qualora la “ratto” della norma fosse quella di limitare un uso o una destinazione diversi da quella abitativa, come sostenuto dalla Corte territoriale, il legislatore non avrebbe avuto motivo di prevedere l’art. 1023 c.c. nel quale si precisa quale sia l’ambito della famiglia dell’”habitator”, con riferimento a tutte quelle persone, parenti e non, alle quali il diritto deve considerarsi esteso.
Il motivo è infondato.
Il giudice di appello ha ritenuto che l’art. 1022 c.c., lungi dal limitare in senso quantitativo o spaziale l’entità dei bisogni abitativi del titolare, individua il contenuto del diritto distinguendolo da quello di altri diritti reali, come l’usufrutto e l’uso, definendolo in positivo, ed espressamente, proprio nell’abitare la casa da parte del titolare e della sua famiglia, e, in negativo, implicitamente, attraverso l’esclusione di un uso diverso, quale il concederla a terzi a qualunque titolo, o trame una utilità difforme da quella abitativa.
La Corte territoriale ha quindi aggiunto che nella fattispecie era indiscutibile che il testatore, riferendosi alla casa paterna, si era riferito all’intero immobile di (…), costituente l’abitazione della famiglia P. , cosicché qualsiasi limitazione del diritto riconosciuto a P.L. doveva essere escluso per legge e per volontà del testatore, la cui volontà, pertanto, era quella di costituire il diritto di abitazione sulla casa nella sua interezza; infine la sentenza impugnata ha comunque rilevato che la suddetta casa, seppure articolata in tre piani, era caratterizzata da una unicità di destinazione e d’uso, tale da escludere l’autonomia e l’uso separato di essa; infatti l’immobile, secondo la descrizione dell’appellata non contestata dall’appellante e sostanzialmente confermata dai testimoni, munita di un unico accesso, si sviluppava in un piano terra in cui erano sistemati i locali di servizio, quali cantine e rimesse, in un primo piano destinato alla cucina, alla sala da pranzo ed agli accessori di tali ambienti, ed in un secondo piano con le camere da letto ed il bagno; quindi tali caratteristiche strutturali non consentivano una utilizzazione distinta di una porzione, ma semmai una coabitazione, il cui relativo diritto, peraltro, faceva difetto all’appellante.
IL convincimento espresso dal giudice di appello è del tutto condivisibile in quanto conforme alla natura del diritto di abitazione come disciplinato dagli artt. 1022 e seguenti c.c..
In particolare l’art. 1022 c.c. prevede che “Chi ha il diritto di abitazione di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”; orbene deve anzitutto rilevarsi che il contenuto del diritto è più ampio di quello contemplato dall’art. 524 c.c. abrogato, che limitava il diritto di abitazione “a ciò che è necessario all’abitazione di quello a cui fu concesso e della sua famiglia, secondo la condizione del medesimo”, posto che secondo la nuova formulazione della norma i bisogni del titolare del diritto non sono limitati a ciò che è necessario, e neppure sono limitati dalla sua condizione sociale.
Occorre poi evidenziare che il divieto di cessione del diritto di abitazione o di concederlo in locazione a terzi sancito dall’art. 1024 c.c. comporta che il titolare di tale diritto può utilizzare l’immobile che ne costituisce l’oggetto soltanto abitandovi personalmente con la propria famiglia (limitazione che differenzia tale diritto da quello d’uso, il cui titolare può utilizzare la cosa che ne costituisce oggetto anche per finalità diverse da quelle dell’abitazione, come ad esempio per deposito o per uso ad ufficio riguardante la sua attività imprenditoriale), con il divieto quindi di destinare l’immobile a forme di godimento indirette, cosicché tale diritto non può avere attuazione diversa da quella dell’abitazione personale dell’immobile da parte del relativo titolare (Cass. 6-7-1984 n. 3974); pertanto l’”habitator” non può destinare la casa oggetto del diritto di abitazione a esigenze diverse da quelle abitative sue e della propria famiglia; a tale ultimo proposito l’art. 1023 c.c. delinea l’ambito della famiglia, includendo in essa, tra l’altro, anche i figli nati dopo che è cominciato il diritto di abitazione e le persone che convivono con il titolare del diritto di abitazione per prestare a lui o alla sua famiglia i loro servizi; tale disposizione ha quindi inteso fare anche riferimento da un lato alla possibile variazione nel tempo del numero dei componenti della famiglia dell’”habitator”, e dall’altro alle mutevoli esigenze di quest’ultimo e/o dei suoi familiari, sotto il profilo della possibile insorgenza del bisogno di avvalersi delle prestazioni di collaborazione di natura domestica ed anche assistenziale da parte di terzi conviventi nella casa oggetto del diritto di abitazione in un periodo successivo a quello in cui ha avuto inizio l’esercizio di tale diritto.
È quindi evidente che l’espressa tutela anche di eventuali bisogni crescenti ed aggiuntivi del titolare del diritto di abitazione rispetto a quelli sussistenti nel tempo in cui che egli ha iniziato ad abitare la casa oggetto del diritto in questione, si rivela incompatibile con una configurazione di tale diritto limitato quantitativamente ai concreti bisogni dell’”habitator” come verificabili al momento iniziale dell’esercizio del diritto, posto che una tale cristallizzazione è in contrasto con il concetto dell’ambito familiare come delineato dall’art. 1023 c.c., suscettibile di variazioni nel corso del tempo.
Pertanto la limitazione dell’abitazione da parte del titolare di tale diritto “ai bisogni suoi e della sua famiglia”, lungi dal poter essere intesa in senso quantitativo (opzione che, oltretutto, porrebbe ardui problemi nella determinazione concreta in senso spaziale della parte della casa oggetto del diritto di abitazione necessaria al soddisfacimento delle esigenze abitative dell’”habitator”), interpretata anche alla luce delle altre disposizioni sopra richiamate, fa riferimento esclusivamente al divieto di destinare la casa oggetto del diritto in esame ad utilizzazioni diverse da quelle consistenti nell’abitazione diretta da parte dell’”habitator” e dei suoi familiari; una tale interpretazione, del resto, è suffragata anche dal rilievo, già espresso da questa stessa Corte, secondo cui il diritto di abitazione previsto dall’art. 1022 c.c. si estende sia a tutto ciò che concorre ad integrare la casa che ne è oggetto, sotto forma di accessorio o pertinenza (balconi, verande, giardino, rimessa, ecc), giacché l’abitazione non è costituita soltanto dai vani abitabili, ma anche da tutto quanto ne rappresenta la parte accessoria, sia, in virtù del combinato disposto degli artt. 983 e 1026 c.c., alle accessioni (Cass. 17-4-1981 n. 2335).
Con il secondo motivo P.F. , deducendo violazione delle regole di ermeneutica contrattuale applicabili per analogia anche al testamento nonché omessa ed insufficiente motivazione, rileva che erroneamente il giudice di appello ha ritenuto che la scheda testamentaria suddetta prevedesse un diritto di abitazione dell’immobile di (…) in favore di P.L. ; in senso contrario il ricorrente afferma che la disposizione del seguente tenore: “… e avrà anche il diritto di abitazione gratuito nella mia casa paterna sita in (omissis) ” si risolveva in una specificazione della precedente attribuzione, sempre in favore della controparte, dell’usufrutto parziale sui beni ereditari, di valore pari a quello degli eredi universali, il tutto fino a quando P.L. fosse rimasta nubile, come confermato dall’utilizzo del termine “anche”.
Il ricorrente sostiene che una simile interpretazione della volontà del testatore trovava fondamento nella stessa scheda testamentaria, laddove P.O. aveva nominato quali eredi universali i soli tre figli maschi A. , F. e G. , congiuntamente e con pari diritti tra di loro, ed aveva lasciato alla figlia L. soltanto la quota a lei spettante per legge; la volontà del “de cuius” era quindi quella di attribuire ai figli maschi una maggiore consistenza patrimoniale, secondo le consuetudini di quel tempo e di un piccolo paese come (omissis) , ed in tale ottica era stata lasciata alla figlia Laura una quota del diritto di usufrutto sui suoi beni pari a quella degli altri figli; il fatto poi che nel successivo paragrafo del testamento fosse stato attribuito alla figlia Laura anche il diritto di abitazione gratuito nella casa paterna doveva quindi essere inteso come una mera specificazione, al solo fine di precisare che nella quota del diritto di usufrutto che le era stato concesso doveva essere ricompresa anche la gratuità del diritto di abitazione nella casa paterna; specificazione dettata dalla preoccupazione del “de cuius” che la figlia, all’epoca undicenne, nel caso fosse rimasta nubile, avesse comunque la possibilità di abitare la casa paterna in pari misura rispetto agli eredi universali.
P.F. quindi rileva che la Corte territoriale, rimasta erroneamente legata al dato letterale, non ha interpretato il testamento con riferimento al periodo storico, alle tradizioni, alle usanze della piccola località montana in cui era stata redatta la scheda testamentaria, né alle specifiche condizioni soggettive del testatore e dei suoi congiunti, quali il livello d’istruzione ed anche la loro età; in particolare vi è stata violazione dell’art. 1362 c.c., laddove tale norma prevede che nell’interpretare un atto di ultima volontà, quale il testamento, di deve indagare l’intenzione del “de cuius”, senza limitarsi al senso letterale delle parole; sussiste anche la violazione dell’art. 1363 c.c., atteso che non vi è stato l’esame globale della scheda testamentaria né la sua valutazione in maniera adeguata e congiunta con il senso logico dell’atto; inoltre il ricorrente deduce violazione altresì dell’art. 1366 c.c. per non essere stato il testamento interpretato secondo il principio di correttezza e di buona fede, e dell’art. 1368 c.c., per avere il giudice di appello interpretato l’ambigua e contestata disposizione del diritto di abitazione gratuito in favore di P.L. senza valutare quale fosse la pratica generalmente applicata nel luogo di provenienza del testatore.
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha premesso che con il testamento olografo del 20-2-1950 P.O. aveva nominato suoi eredi universali i figli maschi A. , F. e G. “congiuntamente e con diritto eguale tra loro”, disponendo poi che “A mia figlia L. voglio sia data soltanto la quota che le potrà spettare per legge. Inoltre dispongo che essa mia figlia L. fino a che resterà nubile avrà sui miei beni ereditari un diritto di usufrutto di valore pari a quello dei miei eredi universali, e avrà anche il diritto di abitazione gratuito nella mia casa paterna sita in (omissis) “; ha quindi disatteso l’interpretazione della scheda testamentaria propugnata dall’appellante, ritenuta contrastante con il dato letterale, dal quale emergeva l’attribuzione a P.L. di due diritti, uno di usufrutto parziale e l’altro di abitazione sulla casa familiare; ciascuna di tali disposizioni, nella loro specificazione, avevano l’effetto e la portata che le erano proprie, non potendo sfuggire ad un testatore così consapevole l’ultroneità della seconda disposizione, laddove fosse stata giustificata dal solo fine di individuare l’oggetto del diritto.
Inoltre il giudice di appello ha ritenuto determinante, nella interpretazione del testamento, l’uso dell’espressione “anche”, cui è necessariamente connesso il significato di aggiunta, di addizione, e non quello di semplice specificazione.
La sentenza impugnata ha quindi affermato che la lettura del testo della scheda testamentaria rivelava con assoluta chiarezza il pensiero del testatore, ovvero per un verso la preoccupazione che alla figlia, sostanzialmente svantaggiata dalla disposizione principale che, istituendo eredi i maschi, le attribuiva solo la legittima, potessero mancare, permanendo la condizione di nubilato (mai a venuta a cessare), i mezzi di un adeguato sostentamento ed il luogo in cui vivere, e per altro verso la sua volontà di rispondere adeguatamente ad entrambe le esigenze attraverso la costituzione dei corrispondenti diritti; del resto, ha evidenziato la Corte territoriale, qualora il “de cuius” avesse voluto estendere, o anche solo riconoscere il diritto sulla casa di (…) anche agli altri figli, lo avrebbe manifestato espressamente.
Il Collegio osserva che il giudice di appello, nell’interpretare il testamento in oggetto nei termini sopra enunciati, ha posto in essere un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione, come tale insindacabile in questa sede, dove il ricorrente con la censura in esame tende sostanzialmente a prospettare una interpretazione della scheda testamentaria suddetta a sé più favorevole, trascurando i poteri al riguardo devoluti al giudice di merito ed i limiti di sindacabilità di tale apprezzamento in sede di legittimità.
Nella fattispecie è evidente che la sentenza impugnata ha valorizzato essenzialmente, sotto il profilo dei canoni ermeneutici applicabili, quello letterale, ritenuto del tutto esauriente nella sua chiarezza e specificazione nel prevedere espressamente l’attribuzione a P.L. del diritto di abitazione in oggetto, in proposito ricorrendo anche alla ritenuta piena consapevolezza del testatore degli effetti di tale disposizione, da configurare come ulteriore rispetto a quella relativa all’attribuzione del diritto di usufrutto parziale sui beni ereditari; pertanto, una volta accertato che la volontà del testatore emergeva in modo certo ed immediato dalle espressione usate nel testamento, l’applicazione di ogni altra regola di interpretazione è divenuta superflua.
Nondimeno la sentenza impugnata si è data carico di rilevare che la ritenuta autonomia della disposizione relativa alla attribuzione a P.L. del diritto di abitazione nella casa di (…) rispetto alla attribuzione alla medesima di una quota di usufrutto sui beni ereditari in genere rifletteva puntualmente l’intenzione di P.O. di assicurare alla figlia, non nominata erede universale come invece i figli maschi, sia sufficienti mezzi di sostentamento sia una abitazione in cui vivere; pertanto il giudice di appello nella interpretazione della volontà del testatore ha fatto riferimento anche ad elementi estrinseci alla scheda, quali la mentalità e l’ambiente di vita del “de cuius”.
Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ed omessa ed insufficiente motivazione, afferma che la Corte territoriale ha erroneamente valutato le risultanze istruttorie in relazione alla richiesta di accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto di coabitazione della casa paterna avanzata dall’esponente; al riguardo evidenzia che la stessa P.L. in sede di risposta all’interrogatorio formale deferitole aveva ammesso che la casa paterna era stata goduta ininterrottamente da tutti i coeredi fino al 1964, e che successivamente nel periodo estivo, e saltuariamente durante il fine settimana per la parte residua dell’anno, era stata utilizzata sempre da tutti i coeredi; del resto anche le deposizioni dei testi escussi avevano confermato il godimento da parte di costoro della casa paterna in modo continuo, pacifico e pubblico.
Infine P.F. rileva che la sentenza impugnata ha immotivatamente ignorato l’esistenza e l’efficacia probatoria della sentenza del Tribunale di Rieti n. 1/1965 con la quale, nove anni dopo la morte del testatore, era stata riconosciuta l’intervenuta usucapione in favore di tutti i coeredi della piena proprietà della quota di alcuni immobili, tra cui la casa la lasciata dal “de cuius”, dovendosi così ritenere dimostrato che sussisteva il diritto di coabitazione, perché compreso in quello di comproprietà, di tutti i coeredi nella medesima casa, e non vi era quindi un pari diritto esclusivo di abitazione su di essa in favore di P.L. .
La censura è in parte infondata ed in parte inammissibile.
Sotto un primo profilo si osserva che la Corte territoriale ha affermato che il riesame della prova testimoniale non consentiva di pervenire ad una soluzione diversa da quella adottata dal giudice di primo grado, che non aveva riconosciuto alla attività dei fratelli di P.L. l’esercizio di fatto del diritto di abitazione, essendo emerso al più un uso occasionale e transitorio di essa, e soprattutto non risultando dimostrato che esso fosse determinato da causa diversa dalla ospitalità e dalla tolleranza da parte della sorella.
Il giudice di appello ha poi aggiunto che, anche a voler trascurare le deposizioni dei testi che avevano riferito della presenza nella casa, dell’uso di essa, della cura e della attività di manutenzione di ogni genere esclusivamente da parte di P.L. e della madre fino a quando costei era vissuta, le altre testimonianze avevano confermato che i fratelli P. , allontanatisi gradualmente dopo la morte del padre, avvenuta nel 1965, dalla casa paterna, l’avevano utilizzata saltuariamente e prevalentemente durante le vacanze estive; infine la sentenza impugnata ha rilevato che anche i testi favorevoli all’assunto dell’appellante avevano affermato l’uso “indifferente” della casa da parte di tutti i fratelli P. , senza peraltro offrire elementi utili ad evidenziare soprattutto l’aspetto soggettivo, ovvero la convinzione, in particolare da parte di P.F. , di esercitare il diritto di abitazione, convinzione desumibile da una serie di comportamenti che non potevano risolversi in una presenza breve e saltuaria, come quella confermata dai testi.
Orbene, avendo la Corte territoriale puntualmente indicato le fonti del proprio convincimento, si è in presenza di una accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione, come tale immune dai rilievi critici del ricorrente, considerato che un uso saltuario della casa di (…) da parte sua soprattutto nei mesi estivi oltre che nei fine settimana, dopo il suo trasferimento a Roma nel 1964, costituisce elemento di per sé insufficiente a configurare l’”animus possidendi” in ordine alla coabitazione della suddetta casa, avuto riguardo ai rapporti di stretta parentela esistenti con la titolare esclusiva del diritto di coabitazione su detto immobile, e dunque alla conseguente conclusione che tale godimento occasionale di esso dovesse essere ricondotto a ragioni di ospitalità e di tolleranza da parte di P.L. .
Deve poi rilevarsi l’inammissibilità dell’ulteriore profilo di censura sollevato con il motivo in esame, riguardante l’asserita incidenza su tale aspetto della controversia della sentenza del Tribunale di Rieti n. 1/1965, posto che di questo documento (in ordine al quale oltretutto non è stato dedotto in quale fase del giudizio di merito sia stato prodotto) non è stato trascritto neppure parzialmente il contenuto, precludendo così a questa Corte di potere apprezzare la rilevanza e la decisività di tale risultanza che il ricorrente asserisce decisiva ed immotivatamente non valutata.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per spese e di Euro 5.000,00 per compensi oltre spese forfettarie.

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