Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 23 maggio 2014, n. 11532
Svolgimento del processo
1. Il (omissis) il sig. D.B.F. , di anni 21, morì per annegamento mentre faceva il bagno, intorno alle ore 19.00, nel tratto di mare antistante il lido del Comune di Campomarino (CB).
Nel 2001 i genitori del defunto (sigg.ri D.B.V. e M.A. ) ed il fratello (sig. D.B.S. ) convennero dinanzi al Tribunale di Larino l’amministrazione comunale di Campomarino, allegando che essa fosse responsabile del tragico evento, e chiedendone la condanna al risarcimento dei danni rispettivamente patiti.
Deducevano che la colpa del Comune di Campomarino era consistita nel non avere adempiuto l’ordinanza emessa dalla Capitaneria di Porto di Termoli sin dal 1995, con la quale gli si imponeva di predisporre di un servizio di assistenza alla balneazione e salvataggio ovvero, in mancanza, di installare nel luogo dell’accaduto segnalazioni che rendessero avvertiti i bagnanti della pericolosità di quel tratto di mare, a causa delle forti correnti.
2. Il Tribunale di Larino con sentenza 17.5.2006 accolse la domanda.
La sentenza venne appellata in via principale dalle parti vittoriose, le quali chiedevano una più cospicua liquidazione del danno; ed in via incidentale dal Comune di Campomarino, il quale chiedeva il rigetto integrale delle pretese attoree.
3. Con sentenza 6.5.2011, n. 66, la Corte d’appello di Campobasso rigettò l’appello incidentale ed accolse quello principale, rideterminando il quantum sia del danno non patrimoniale, sia del danno da mora.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dal Comune di Campomarino, in base a cinque motivi.
I sigg.ri D.B.V. , M.A. e D.B.S. hanno resistito con controricorso, e proposto ricorso incidentale basato su due motivi.
Motivi della decisione
1. Ordine delle questioni.
1.1. Le questioni poste dal Comune di Campomarino vanno esaminate nell’ordine logico di cui all’art. 276, comma 2, c.p.c. Si dovrà quindi stabilire, nell’ordine:
(1) se sia stata corretta la decisione d’appello nella parte in cui ha fatto applicazione al caso di specie dell’art. 2051 c.c. (questione posta col secondo motivo del ricorso principale), poiché in caso di risposta affermativa diverrebbe superfluo esaminare la correttezza della decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistere una colpa in concreto del Comune, ex art. 2043 c.c.;
(2) in caso di risposta negativa alla prima questione, occorrerà stabilire se sia stata corretta la decisione d’appello nella parte in cui ha ritenuto sussistere una condotta colposa del Comune di Campomarino, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per non avere adempiuto l’ordine impartitogli dalla Capitaneria di Porto (questione posta col primo motivo del ricorso principale); se, infatti, a tale quesito si desse risposta negativa, sarebbe superfluo indagare il tema del nesso di causa tra la condotta dell’amministrazione ed il danno;
(3) infine, in caso di risposta affermativa alla domanda che precede, occorrerà stabilire se sia stata correttamente motivata la decisione d’appello nella parte in cui ha ritenuto sussistere un valido nesso causale tra la condotta del Comune e la morte del sig. D.B.F. (questione posta col terzo motivo di ricorso), poiché in caso di risposta negativa diviene superfluo accertare se la sentenza impugnata abbia correttamente ritenuto sussistere l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano ascritto al Comune di Campomarino.
2. Il secondo motivo del ricorso principale.
2.1. Col secondo motivo del ricorso principale il Comune di Campomarino lamenta che la sentenza impugnata sia incorsa nel vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c..
Espone, al riguardo, che la Corte d’appello l’ha ritenuto responsabile della morte del giovane ai sensi dell’art. 2051 c.c. Soggiunge tuttavia che la presunzione di cui all’art. 2051 c.c. non sarebbe stata applicabile nel caso di specie, perché ne difettavano i due elementi essenziali, e cioè: (a) l’esistenza d’un rapporto di custodia tra il Comune e la “cosa” dannosa; (b) l’esistenza del nesso di causa tra la cosa custodita ed il danno. Spiega l’amministrazione ricorrente che nel caso di specie difettava il primo elemento (custodia) perché l’amministrazione comunale non aveva alcun potere di controllo e gestione né sulla spiaggia, né sul mare, ambedue appartenenti al demanio marittimo e soggetti alla gestione ed al controllo della Regione ovvero degli enti da questa delegati, tra i quali all’epoca dei fatti non rientrava il Comune.
Difettava, altresì, il secondo elemento (nesso di causa tra cosa e danno) perché il danno non era stato causato dalla spiaggia, ma dal mare: e quest’ultimo ovviamente non può formare oggetto di alcun controllo da parte del Comune.
2.1.1. Di tale motivo i controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilità, sul presupposto che il Comune di Campomarino non solo non avrebbe mai contestato in precedenza l’invocabilità nei suoi confronti dell’art. 2051 c.c. (così il controricorso, p. 21), ma anzi avrebbe addirittura ammesso sia di essere custode del lido e del mare, sia di essere responsabile dell’accaduto (così il controricorso, p. 25).
L’eccezione di inammissibilità del ricorso, prima ancora che infondata, appare temeraria, in quanto basata sull’inammissibile estrapolazione dal contesto degli atti processuali di singoli periodi o parti di essi, dai quali i controricorrenti pretendo di trarre un senso ben lontano da quello reale.
2.1.2. Per quanto attiene, infatti, l’affermazione secondo cui il Comune di Campomarino non avrebbe tempestivamente contestato l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. nei suoi confronti, deve replicarsi che la questione dell’invocabilità della suddetta presunzione nei confronti del Comune costituisce una quaestio iuris, e non un fatto: rispetto ad essa, pertanto, non sono invocabili gli effetti della non contestazione, concepibili solo rispetto alle allegazioni in fatto di una delle parti.
2.1.3. Per quanto attiene, poi, all’affermazione secondo cui in primo grado il Comune avrebbe ammesso la propria responsabilità, essa appare frutto di una fantasia interpretativa in verità non comune – e non commendevole – da parte dei controricorrenti.
Gli atti processuali vanno infatti interpretati nel loro complesso, e le parti di cui si compongono vanno lette le une alla luce delle altre, non certo estrapolando qua e là membra disiecta del testo, per trame significati molto distanti dall’effettivo senso del testo. Sensus est efferendus, non inferendus, e nel caso di specie dall’esame degli atti (consentito dalla natura dell’eccezione di inammissibilità, e condotto alla luce del criterio testé enunciato) si rileva che il Comune di Campomarino, costituendosi nel giudizio di primo grado, aveva eccepito:
(a) l’insussistenza d’una propria condotta colposa;
(b) l’inesistenza d’un valido nesso di causa tra la propria condotta e l’annegamento del sig. D.B.F. ;
(c) l’impossibilità di una effettiva “custodia”, ai sensi dell’art. 2051 c.c., su beni di vaste estensioni quali il mare o il lido marino.
Nell’illustrare l’eccezione di difetto di nesso di causa l’amministrazione comunale ha fatto riferimento ad una “astratta responsabilità del Comune”, e su tale passaggio fanno leva gli odierni ricorrenti per sostenere che l’amministrazione avrebbe confessato la propria responsabilità.
Ma se è pur vero che struttura e sintassi della comparsa di risposta in primo grado non brillano certo per esaustività e nitóre, è altresì vero che il senso delle difese dell’amministrazione è chiaro ed inequivoco: e cioè che anche ad ammettere una condotta colposa del Comune, essa non fu la causa del danno. Una mera proposizione concessiva, dunque, e non una confessione.
2.2. Nel merito, il motivo è fondato in ambedue i profili in cui si articola, perché nel caso di specie mancava sia la custodia, sia il nesso tra cosa e danno.
2.3. Sotto il primo profilo, la Corte d’appello era chiamata a stabilire se l’amministrazione comunale dovesse rispondere, ai sensi dell’art. 2051 c.c., del danno derivante dall’annegamento di una persona, avvenuto nel tratto di mare antistante una spiaggia ricompresa nel territorio comunale.
A tale quesito la Corte d’appello ha risposto in modo affermativo, ritenendo che il Comune fosse “custode” tanto della spiaggia, quanto del tratto di mare antistante (pag. 25 e 31 della sentenza impugnata).
Questa affermazione è erronea in iure sia nella parte in cui ha ritenuto che il mare possa costituire un cosa “in custodia”; sia nella parte in cui ha ritenuto che possa costituirla la spiaggia.
2.4. Dire che il mare antistante il territorio di un Comune sia un bene “in custodia” di quest’ultimo è affermazione in verità singolare, per due ragioni.
La prima ragione è che il mare non è un bene demaniale. Il mare è una res communis, insuscettibile di proprietà pubblica o privata. Lo si desume dagli artt. 822 c.c. e 29 cod. nav., i quali non comprendono il mare tra i beni demaniali; dalla prassi del diritto internazionale (risalente al XVII sec); dall’art. 14, p. 1 e 2, della “Convenzione sul mare territoriale”, adottata a Ginevra il 29 aprile 1958 e ratificata e resa esecutiva con L. 8/12/1961, n.1658, il quale impone a tutti gli Stati aderenti di riconoscere il c.d. “passaggio inoffensivo” a qualsiasi imbarcazione.
È vero che numerose disposizioni interne ed internazionali assoggettano il mare territoriale alla sovranità degli Stati per fini amministrativi, di polizia, doganali, ambientali. Ma è altresì vero che le norme di diritto interno od internazionale le quali distinguono il “mare libero” (non soggetto alla sovranità territoriale degli Stati rivieraschi); il “mare territoriale” (ovvero la fascia di mare soggetta alla sovranità dello Stato); e la “zona economica esclusiva” (ovvero la fascia adiacente le coste e sulla quale il diritto internazionale riconosce agli Stati rivieraschi la facoltà di sfruttamento economico) sono norme di diritto pubblico, non di diritto privato: esse stabiliscono quali attività siano consentite o vietate agli Stati sulle aree marine, ma non attribuiscono a questi ultimi alcun diritto di proprietà sul mare.
Non essendo dunque concepibile in iure un “demanio comunale” sul mare, nemmeno è concepibile un rapporto di “custodia” di esso da parte del Comune che sul mare si affacci.
2.4.1. La seconda ragione per la quale è erronea l’affermazione della Corte d’appello secondo cui il mare costituirebbe oggetto di “custodia” ex art. 2051 c.c. da parte del Comune è che un rapporto di custodia è concepibile solo con riferimento a beni che siano suscettibili di un effettivo potere di controllo da parte del custode.
Ciò sia per l’interpretazione letterale, sia per quella storica, sia per quella sistematica.
Sul piano dell’interpretazione letterale, va ricordato che il lemma “custodia” è un puro etimo latino, derivato da custos, ovvero “colui che sorveglia, che detiene presso di sé”. Si tratta di un concetto che implica un controllo corpore corpori, inconcepibile rispetto ad un bene, quale il mare, di dimensioni sconfinate e di stato mutevole.
Sul piano dell’interpretazione storica, va ricordato che nel progetto di codice civile del 1934 la norma corrispondente all’attuale art. 2051 c.c. prevedeva la responsabilità per il danno causato dalle cose in “detenzione”. Questo lemma, nella versione definitiva, venne sostituito con quello attuale di “custodia”. Il secondo lemma indica un concetto più ristretto del primo, posto che si può detenere corpore od anche solo animo, ma non si può certamente custodire solo con l’intenzione: di qui la conclusione che il legislatore, sostituendo il lemma “detenzione” con quello di “custodia”, abbia inteso limitare la responsabilità ex art. 2051 c.c. alle sole ipotesi di effettiva possibilità di controllo e vigilanza.
Infine, sul piano dell’interpretazione sistematica, va ricordato che il codice civile usa i lemmi “custode”, “custodia” e “custodire” per designare sempre un potere di controllo e di disposizione o di beni mobili, o comunque di beni suscettibili di un effettivo potere di fatto, quali ad esempio:
– la custodia di titoli, denaro e preziosi del minore (art. 369, 373 c.c.);
– la custodia di atti da parte di pubblici ufficiali (450 c.c., 2664, 2840);
– la custodia di cose mobili cadute in successione (655 c.c.);
– la custodia di animali (843, 2052);
– la custodia della cosa da parte dell’usufruttuario (1004);
– la custodia di una cosa determinata da consegnare o data in pegno – e quindi necessariamente bene mobile – (1177, 1207, 1211, 1263, 2352, 2786, 2790);
– la custodia delle cose affidate al vettore, al mandatario, al depositario, al sequestratario, al comodatario, al mezzadro, al colono, al soccidario (1686, 1718, 1766, 1768, 1770, 1783, 1784, 1798, 1800, 1804, 2148, 2155, 2167, 2174);
– la custodia di titoli e valori da parte della banca (1838, 1839, 1848);
– la custodia dell’immobile ipotecato rilasciato al creditore (2861).
Appare dunque contrario al canone logico della coerenza sistematica ritenere che il legislatore abbia sempre usato il lemma “custodia” per indicare un potere di fatto su cose di estensione determinata e circoscritta, tranne che nell’art. 2051 c.c., la quale costituirebbe pertanto la sola norma dell’intero codice civile nella quale il medesimo lemma “custodia” sarebbe stato usato per indicare la mera proprietà di cose di sconfinata latitudine, e non oggettivamente sorvegliabili come monti, mari, fiumi, laghi, strade (in tal senso si veda già Cass. 26.9.2006 n. 20827 e Cass., sez. Ili, 04-12-1998, n. 12314; nonché, per la giurisprudenza costituzionale, Corte costit. [ord.], 06-03-1995, n. 82).
2.4.2. Il Collegio non ignora che, in precedenti occasioni, questa Corte ha affermato l’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione per i danni causati da beni demaniali, ed in particolare dall’uso di strade aperte al pubblico in transito. Tuttavia in merito a tale orientamento due considerazioni si impongono:
– in primo luogo, nessuna delle decisioni ad esso aderenti aveva ad oggetto una ipotesi di responsabilità per danni causati dal mare, il quale non è un bene di grande estensione, come le strade, ma un bene di sconfinata estensione;
– in secondo luogo, anche le decisioni che aderiscono all’interpretazione più liberale dell’art. 2051 c.c., si fondano comunque sul presupposto che tale norma si applichi alla p.a. quando quest’ultima abbia una possibilità concreta di controllo sul bene demaniale (salvo ravvisare tale possibilità anche con riferimento alle strade od a beni analoghi di grandi dimensioni), possibilità che con riferimento al mare, invece, manca del tutto. Il mare, a distanza di una strada, di un bosco, di una diga, che per quanto vasti sono beni che hanno comune dei limiti, non ha limiti né confini. Sicché, a seguire l’irrazionale affermazione della Corte d’appello, non si saprebbe dove collocare il confine del dovere di “custodia del mare” asseritamente gravante sul Comune: se sul limite delle acque territoriali, oppure sul limite della piattaforma continentale, ovvero sul limite tradizionale della vis armorum. Eppure un limite dovrebbe pur esserci per potere affermare la responsabilità del custode, posto che costituirebbe una contradictio in adiecto predicare da un lato che un bene è suscettibile di custodia, e dall’altro non potere delimitare spazialmente l’oggetto della custodia.
2.5. Come accennato, la Corte d’appello di Campobasso ha poi ritenuto che il Comune di Campomarino fosse “custode”, ex art. 2051 c.c., della spiaggia muovendo dalla quale lo sventurato sig. D.B.F. si tuffò nel mare dove perse la vita, e quindi si presumesse responsabile – ai sensi della norma appena indicata – della morte di questi. Anche questa affermazione è erronea.
Il danno può ritenersi arrecato “da” una cosa, ai sensi dell’art. 2051 c.c., quando quest’ultima abbia avuto un ruolo causale determinate nella produzione dell’evento. E dunque nel caso di cose seagenti (una bombola di gas); ovvero pericolose (un motore); ovvero innocue ma nelle quali il fatto dell’uomo abbia suscitato un fattore pericoloso o dannoso (un fondo attraversato dal fuoco). Non può ritenersi invece arrecato “dalla cosa”, ai sensi dell’art. 2051 c.c., il danno nella cui produzione la cosa in custodia abbia giocato il ruolo di mera occasione. Così, non è un danno causato “dalla cosa”, ai sensi dell’art. 2051 e.e, quello patito da chi afferri a mani nude un ferro rovente, pur potendosi avvedere dell’incandescenza.
Nel presente giudizio, secondo la prospettazione degli stessi attori, il sig. D.B.F. sarebbe deceduto a causa delle correnti marine che gli impedirono, una volta in acqua, di riguadagnare la battigia. È dunque evidente che, anche ad aderire alla più benevola delle interpretazioni dell’art. 2051 c.c., un valido nesso di causa si sarebbe potuto riscontrare comunque tra lo specchio d’acqua e il danno, non certo tra la spiaggia ed il danno, per l’ovvia ragione che una spiaggia non può costituire “causa” in senso giuridico di un annegamento.
Vero è che la Corte d’appello ha ascritto al Comune di Campomarino di non avere munito la spiaggia suddetta di avvisi di pericolo: ma anche a ritenere colposa tale condotta, la causa del danno ai sensi dell’art. 40 c.p. andrebbe ravvisata nella omissione di segnaletica da parte dell’amministrazione, non certo nella “cosa” in custodia, ovvero nella spiaggia. Infatti anche a volere seguire questa ricostruzione, non una “cosa” avrebbe arrecato il danno, ma una condotta umana omissiva da parte della pubblica amministrazione.
2.6. Il secondo motivo del ricorso principale deve pertanto accogliersi sulla base dei due seguenti principi di diritto:
(a) il mare territoriale è cosa distinta e separata dal lido marino, il quale soltanto può formare oggetto di proprietà e rientra nel demanio marittimo. Ne consegue che il mare di per sé non può costituire una cosa suscettibile di “custodia” ai sensi dell’art. 2051 c.c., e non è invocabile pertanto la presunzione prevista da quest’ultima norma nei confronti della pubblica amministrazione cui a legge affidi la gestione del lido marino;
(b) un danno può ritenersi causato “dalla cosa”, ai sensi dell’art. 2051 c.c., soltanto quando quest’ultima abbia avuto un ruolo determinante nella causazione dell’evento, e non già quando abbia costituito la mera occasione di esso. Ne consegue che nel caso di morte per annegamento di un bagnante in nessun caso può ritenersi che il conseguente danno sia stato causato dalla spiaggia di provenienza della vittima, ai fini dell’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 oc. nei confronti dell’ente gestore del lido marino.
3. Il primo motivo del ricorso principale.
3.1. Col primo motivo del ricorso principale il Comune di Campomarino lamenta che la sentenza impugnata sia viziata da violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c..
Articola, al riguardo, il seguente sillogismo:
(a) la Corte d’appello ha ritenuto il Comune responsabile della morte di D.B.F. per avere violato l’ordine, impartitogli dalla Capitaneria di Porto, di segnalare con appositi cartelli la pericolosità del tratto di mare antistante il luogo dell’evento;
(b) all’epoca dei fatti, tuttavia (1997), la competenza a provvedere sulla gestione delle spiagge per finalità turistiche spettava alle Regioni;
(c) ergo, la Capitaneria di Porto, nell’impartire il suddetto ordine all’amministrazione comunale, aveva addossato a quest’ultima compiti che non le spettavano: di qui l’illegittimità dell’ordinanza dell’autorità amministrativa marittima: vuoi perché emessa in carenza di potere (sul presupposto che la Capitaneria di Porto non potesse ordinare alcunché al Comune, in quanto quest’ultimo non era titolare di alcuna potestà sui beni del demanio marittimo); vuoi perché viziata da eccesso di potere (i cui vizi sintomatici sarebbero rappresentati dalla irragionevole scelta del Comune quale soggetto onerato dall’affissione degli avvisi di pericolo).
La sentenza impugnata, pertanto, secondo l’amministrazione ricorrente avrebbe violato le norme del codice civile, del codice della navigazione e delle leggi speciali che stabiliscono e ripartiscono le competenze a provvedere nella materia della gestione dei beni del demanio marittimo, ed avrebbe omesso di disapplicare, perché illegittima, l’ordinanza della Capitaneria di Porto con la quale si impose all’amministrazione comunale l’infissione di cartelli di pericolo sulla spiaggia teatro della sciagura.
3.2. I controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilità del motivo, sul rilievo che la questione della legittimità del provvedimento amministrativo emanato dalla Capitaneria di Porto non ha mai formato oggetto di discussione nei precedenti gradi di giudizio.
Il Comune di Campomarino ha replicato a tale eccezione invocando il principio jura novit curia, ed asserendo che stabilire quali siano le competenze degli enti locali in tema di demanio marittimo sia una questione di diritto, come tale sempre liberamente deducibile in sede di legittimità.
3.3. Il motivo è inammissibile.
Nel giudizio di cassazione non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti (giurisprudenza pacifica: in tal senso si vedano, ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 4787 del 26/03/2012, Rv. 621718; Sez. 1, Sentenza n. 13470 del 16/09/2002, Rv. 557391; Sez. L, Sentenza n. 10437 del 08/05/2006, Rv. 589015; Sez. L, Sentenza n. 10319 del 05/05/2006, Rv. 589839; Sez. 3, Sentenza n. 5375 del 05/04/2003, Rv. 561928; Sez. 3, Sentenza n. 16331 del 20/11/2002, Rv. 558604; Sez. 5, Sentenza n. 9097 del 21/06/2002, Rv. 555260; Sez. 3, Sentenza n. 5149 del 06/04/2001, Rv. 545686; Sez. 2, Sentenza n. 1500 del 15/06/1962, Rv. 252393).
3.4. Nel caso di specie risulta dagli atti – il cui esame è consentito dalla natura del vizio denunciato – che nel costituirsi in primo grado il Comune di Campomarino nulla osservò in merito alla validità ed all’efficacia dell’ordinanza n. 10 del 1995 della Capitaneria di Porto di Termoli, con la quale gli fu imposto di segnalare il pericolo della balneazione nel tratto di mare sopra ricordato. E nulla osservò il Comune, sul punto, nemmeno nell’atto di appello.
La questione della validità o meno dell’ordinanza della Capitaneria di Porto di Termoli n. 10 del 1995 è dunque una questione mai affrontata in precedenza, e non proponibile per la prima volta in questa sede.
3.5. Secondo il Comune di Campomarino, tuttavia, stabilire se un atto amministrativo sia valido od invalido è questione di diritto, e pertanto può essere rilevata d’ufficio o prospettata dalle parti in qualunque stato e grado del giudizio, in virtù del principio jura novit curia.
L’affermazione è vera in principio, ma non calza nel presente giudizio.
Se è infatti vero che spetta al giudice individuare le norme applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame anche a prescindere da qualsiasi indicazione in tal senso delle parti, è altresì vero che tale potere-dovere può esercitarsi soltanto nell’ambito delle domande ritualmente proposte, e del thema decidendum così delimitato.
Nel presente giudizio, per contro, la questione della validità del provvedimento amministrativo e della sua disapplicazione mai fu ritualmente introdotta, e dunque è inammissibile in questa sede: non perché non si applichi il principio jura novit curia, ma perché la relativa eccezione non venne formulata a tempo debito.
3.4. Il primo motivo di ricorso va dunque dichiarato inammissibile in base al seguente principio di diritto:
il convenuto nel giudizio di risarcimento del danno da fatto illecito, al quale si addebiti quale condotta colposa l’inosservanza d’un provvedimento amministrativo, non può contestare per la prima volta in sede di legittimità la validità del suddetto provvedimento.
4. Il terzo motivo del ricorso principale.
4.1. Col terzo motivo del ricorso principale il Comune di Campomarino
lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Espone, al riguardo, che la sentenza d’appello ha contraddittoriamente motivato in merito all’esistenza d’un valido nesso di causa tra la condotta del Comune e il danno lamentato dagli attori.
Essa infatti avrebbe, da un lato, accertato in facto che la vittima non sapesse nuotare e che al momento del fatto il mare era mosso; e dall’altro avrebbe escluso in iure la sussistenza di una cooperazione colposa della vittima nella produzione del danno, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c..
4.2. Anche di questo motivo i controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilità, perché prospettante una questione nuova.
L’eccezione di inammissibilità del terzo motivo del ricorso principale è manifestamente infondata.
Si rileva infatti dagli atti di causa che nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado il Comune di Campomarino aveva:
(a) allegato che la vittima “doveva essere ben consapevole dell’ipotetica situazione di pericolo”;
(b) negato la sussistenza del nesso causale tra la propria condotta ed il danno, deducendo che l’annegamento era “riconducibile esclusivamente ad un caso fortuito”.
Nell’atto d’appello, poi, il Comune di Campomarino aveva invocato l’erroneità della sentenza per non avere questa tenuto in considerazione la responsabilità della vittima nella causazione dell’evento, consistita nell’avere “incautamente oltrepassato la linea delle scogliere pur non sapendo nuotare”.
Queste essendo le deduzioni in facto compiute dal Comune di Campomarino nei propri atti difensivi, ne segue che devono ritenersi ritualmente dedotti in giudizio sia il fatto materiale della condotta colposa della vittima, sia l’eccezione di difetto di nesso di causa.
Nulla rileva, per contro, che l’amministrazione non abbia formalmente invocato l’art. 1227 c.c.. Il concorso di colpa della vittima d’un fatto illecito, disciplinato dal primo comma dell’art. 1227 c.c., costituisce infatti l’oggetto d’una eccezione in senso lato, come tale rilevabile anche d’ufficio quando sia stato comunque dedotto in giudizio il fatto materiale costitutivo di essa (ex multis, in tal senso, Sez. L, Sentenza n. 23372 del 15/10/2013, Rv. 629190; Sez. 3, Sentenza n. 23734 del 10/11/2009, Rv. 610120; Sez. 3, Sentenza n. 18544 del 20/08/2009, Rv. 609161, e soprattutto Sez. 3, Sentenza n. 6529 del 22/03/2011, Rv. 617423, secondo cui “l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227, primo comma, cod. civ. (…) non concretando un’eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, dev’essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza della colpa del danneggiato e sulla quantificazione dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte; pertanto, anche il giudice d’appello può valutare d’ufficio tale concorso di colpa nel caso in cui il danneggiante si limiti a contestare in toto la propria responsabilità”).
4.3. Nel merito, anche il terzo motivo del ricorso principale è fondato.
La Corte d’appello di Campobasso ha accertato in fatto che:
(a) la vittima non sapesse nuotare (così la sentenza, p. 23);
(b) al momento del fatto, il mare era mosso ed agitato da correnti (ibidem);
(c) non era dimostrato che la spinta delle correnti marine fosse irresistibile per i bagnanti (ibidem);
(d) se la vittima avesse saputo nuotare, non sarebbe annegata (ivi, p. 24). Dopo avere accertato questi elementi di fatto, la Corte d’appello ha tuttavia affermato che “il fatto di non saper nuotare non significa che non si possa fare il bagno”; che le correnti marine costituivano per i bagnanti “un pericolo occulto” (così la sentenza d’appello, pp. 32-33); e che comunque il Comune dovesse rispondere dell’accaduto per non avere informato i bagnanti della pericolosità della balneazione dell’assenza d’un servizio di salvataggio. Quella appena riassunta è una motivazione lacunosa ed incoerente.
4.4. È lacunosa, perché si diffonde sulla natura colposa della condotta tenuta dal Comune (consistita, in tesi, nel non avere affisso avvisi sulla pericolosità del luogo), senza avere previamente affrontato e risolto il nodo centrale della questione ad essa sottoposta, rappresentato dalla causa efficiente della morte del giovane: e cioè senza accertare se questi sia annegato per malore, per incapacità di natazione, per la furia del mare o per la propria imprudenza.
La motivazione appena riassunta è, in ogni caso, incoerente: perché da un lato ha accertato in fatto che la vittima non sapeva nuotare e che si tuffò ugualmente in un mare agitato; e dall’altro ha addossato la responsabilità dell’accaduto al Comune, trascurando del tutto di spiegare come la condotta di chi si tuffi in un mare agitato senza saper nuotare si concilii col generale principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ciascuno deve sopportare le prevedibili conseguenze dannose delle proprie condotte incaute.
5. La decisione nel merito.
5.1. Gli errori commessi dalla Corte d’appello tanto in punto di diritto (avere applicato l’art. 2051 c.c. al di fuori dei casi in esso previsti), quanto in punto di motivazione (avere contraddittoriamente accertato in fatto una condotta oggettivamente colposa, e non averne tenuto conto nella decisione) nel presente giudizio possono essere emendati attraverso la decisione della causa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
Per stabilire se l’amministrazione comunale di Campomarino possa essere chiamata a rispondere della morte del sig. D.B.F. occorre infatti stabilire, prima di ogni altra cosa, se sussiste un valido nesso causale tra la condotta ad esso ascritta dai ricorrenti (omessa affissione di cartelli di pericolo) e il danno: e stabilire se esiste un nesso causale tra due fenomeni “costituisce sempre il frutto di un’attività di giudizio e valutazione, e non già di semplice percezione di un fatto concreto” (così, testualmente, Sez. 3, Sentenza n. 13693 del 31/07/2012, Rv. 623587).
È dunque possibile a questa Corte esaminare, sulla base degli elementi di fatto già accertati nelle fasi di merito, se quel nesso sussista: e la risposta deve essere negativa.
5.2. In tema di illecito aquiliano, perché possa dirsi esistente un nesso di causalità tra la condotta colposa e l’evento lesivo devono sussistere due condizioni:
(a) la condotta tenuta del preteso responsabile deve essere un antecedente necessario dell’evento di danno, nel senso che senza di essa il pregiudizio non si sarebbe verificato (principio della condicio sine qua non);
(b) la condotta del responsabile non deve essere neutralizzata dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso (giurisprudenza pacifica: ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 23915 del 22/10/2013, Rv. 629115).
Tra le cause sopravvenute di per sé idonee ad interrompere il nesso di causa può rientrare anche la condotta della vittima del fatto che si assume illecito: ciò si verifica quando tale condotta, pur inserendosi nella serie causale già avviata da altri, ponga in essere un’altra serie causale eccezionale ed atipica rispetto alla prima, idonea da sola a produrre l’evento dannoso, che sul piano giuridico assorbe ogni diversa serie causale e la riduce al ruolo di semplice occasione (così, testualmente, Sez. 3, Sentenza n. 8096 del 06/04/2006, Rv. 588863). In questa ipotesi, la condotta della vittima costituisce la c.d. “causa prossima di rilievo”, che esclude l’ipotizzabilità del concorso di altre cause, ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. pen. (Sez. 3, Sentenza n. 26997 del 07/12/2005, Rv. 587959; Sez. 3, Sentenza n. 18094 del 12/09/2005, Rv. 584455; Sez. 3, Sentenza n. 15704 del 08/11/2002, Rv. 558345; Sez. 3, Sentenza n. 6640 del 08/07/1998, Rv. 517032).
Ed infatti qualsiasi ipotesi di responsabilità (concreta, presunta, oggettiva, del custode, ecc.) resta esclusa e superata se il danneggiato, pur avvedendosi o potendosi avvedere con l’uso dell’ordinaria diligenza della situazione di pericolo, vi si esponga volontariamente (c.d. rischio elettivo, che in quanto causa umana cosciente e volontaria spezza il nesso di causa rispetto alla condotta del custode e di qualunque altro responsabile: cfr., in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 13681 del 31/07/2012, Rv. 623597).
5.3. La condotta della vittima, a sua volta, può ritenersi “causa prossima di rilievo”, idonea ad escludere la responsabilità altrui:
(a) o quando sia stata assolutamente eccezionale, imprevista ed imprevedibile;
(b) oppure quando sia consistita in una negligenza od imprudenza così gravi ed inescusabili da rendere irrilevanti le precedenti condotte colpose di terzi: ciò sul presupposto che queste ultime sarebbero rimaste inoffensive, se la vittima avesse osservato un minimo di diligenza (così la Sez. 3, Sentenza n. 11386 del 17/11/1997, Rv. 510010, che ha affermato la responsabilità esclusiva d’un motociclista il quale aveva urtato – riportandone lesioni – un mezzo parcheggiato sì in modo irregolare e vietato, ma perfettamente visibile; così anche la Sez. 3, Sentenza n. 3061 del 10/05/1980, Rv. 406825, che ha affermato la responsabilità esclusiva d’un operaio precipitato da un ponteggio, dopo essersi appoggiato ad un paraschegge che era stato sì malamente saldato, ma che non aveva funzione di parapetto ed al quale non era consentito appoggiasi).
Tale conclusione poggia su due principi:
(-) a livello di legge ordinaria, sull’art. 1227, comma 1, c.c., il quale esclude il diritto al risarcimento per i danni che la vittima avrebbe potuto evitare con la comune prudenza, ovvero quella del bonus paterfamilias;
(-) a livello costituzionale, sull’art. 2, ultimo periodo, cost., alla stregua del quale “la Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Tra i doveri di “solidarietà sociale” di cui è menzione nella norma rientra anche quello di tenere condotte responsabili, meditate e mature, al fine di prevenire danni a sé ed agli altri.
5.4. È alla luce di questi criteri che devono ora valutarsi gli elementi di fatto acquisiti nel corso delle fasi di merito.
Come accennato, la Corte d’appello con accertamento non censurato in questa sede ha stabilito che:
(a) la vittima non sapesse nuotare (così la sentenza d’appello, p. 23);
(b) al momento del fatto il mare era mosso ed agitato da correnti (ibidem);
(c) non era dimostrato che la spinta delle correnti marine fosse irresistibile per i bagnanti (ibidem);
(d) se la vittima avesse saputo nuotare, non sarebbe annegata (ivi, p. 24);
(e) la vittima non era del luogo e non si era recata mai in precedenza su quella spiaggia (ivi, p. 11).
È, infine, incontroverso che la vittima avesse 21 anni.
5.5. Questi essendo i fatti rilevanti ai fini del decidere, deve trarsene la conclusione che la causa della morte del sig. D.B.F. deve essere ravvisata esclusivamente nella condotta di quest’ultimo.
Costituisce infatti una condotta gravemente colposa decidere di bagnarsi, pur non sapendo nuotare, in un tratto di mare mai in precedenza frequentato e tempestoso. Che, poi, un mare agitato sia percorso da correnti è nozione non solo rientrante nella comune esperienza, ma certamente esigibile da un uomo di 21 anni.
Gli odierni controricorrenti, anche nelle fasi di merito, hanno in vari punti dei lori scritti insistito sul fatto che la vittima “fosse solo un ragazzo”, ma è qui doveroso ricordare loro – a tacer d’altro – che a quell’età l’ordinamento giuridico attribuisce ai cittadini l’elettorato attivo e passivo, sì che è logico e coerente esigere da un ventenne una piena maturità, prudenza ed avvedutezza.
Alla luce di tale condotta della vittima è, per contro, eziologicamente irrilevante la condotta omissiva ascritta dalla Corte d’appello al Comune di Campomarino: vuoi perché non è possibile in alcun modo stabilire quale sarebbe stata la condotta del sig. D.B.F. in presenza di cartelli di pericolo (ed infatti è lecito dubitare del fatto che una persona, la quale sia così imprudente da tuffarsi in un mare agitato pur non sapendo nuotare, sarebbe stata tenuta a freno da un semplice cartello); vuoi soprattutto perché la condotta della vittima è consistita in una colpa così grave ed inescusabile da costituire la “causa prossima rilevante” del tragico evento. Vale la pena in ogni caso aggiungere, per completezza, che la soluzione non sarebbe stata diversa quand’anche il sig. D.B.F. fosse stato un eccellente nuotatore: chi si tuffa tra i marosi ne accetta infatti il rischio, e tale accettazione esclude la responsabilità di qualsiasi terzo, in virtù del principio volenti non fit iniuria.
5.6. Le conclusioni appena raggiunte sono indirettamente confermate da vari precedenti di questa Corte, ed in particolare:
(a) da Sez. 3, Sentenza n. 4279 del 19/02/2008, Rv. 601912, la quale ha confermato la sentenza di merito che, in relazione ad un infortunio occorso a persona feritasi nel tuffarsi in un lago da un pontile di attracco per imbarcazioni, aveva escluso il nesso di causalità tra il pontile e l’incidente in questione e ascritto l’evento lesivo esclusivamente al comportamento della vittima; in quella sentenza si affermò che “il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso della cosa si arresta di fronte ad un’ipotesi di utilizzazione impropria la cui pericolosità é talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da renderla del tutto imprevedibile, sicché l’imprudenza del danneggiato che abbia riportato un danno a seguito di siffatta impropria utilizzazione, integra un caso fortuito”;
(b) da Sez. 3, Sentenza n. 5839 del 13/03/2007, Rv. 598207, la quale ha confermato la sentenza di merito che avevano ritenuto causa esclusiva dell’evento dannoso il comportamento dell’utente di un parco acquatico il quale, anziché lasciarsi scivolare in piscina planandovi in posizione prona sull’apposito materassino, vi si era tuffato di testa; nella sentenza si afferma che tale condotta della vittima è talmente imprudente da escludere la responsabilità del gestore del parco “anche nell’ipotesi in cui non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”;
(c) da Sez. 3, Sentenza n. 20334 del 15/10/2004, Rv. 577728, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva attribuito la responsabilità per i danni alla persona subiti da persona che, nel corso di una festa all’aperto ed al buio, decideva di tuffarsi in piscina, ferendosi nell’urto contro le lampade galleggianti che per coreografia vi erano state adagiate.
5.7. La domanda dei sigg.ri D.B. – M. deve pertanto essere rigettata, in base al seguente principio di diritto:
la persona che, pur capace di intendere e di volere, si esponga volontariamente ad un rischio grave e percepibile con l’uso della ordinaria diligenza, tiene una condotta che costituisce causa esclusiva dei danni da essa eventualmente derivati, e rende irrilevante la condotta di chi, essendo obbligato a segnalare il pericolo, non vi abbia provveduto.
6. I motivi quarto e quinto del ricorso principale, così come il ricorso incidentale, restano assorbiti dal rigetto della domanda attorea nel merito.
7. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei soccombenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., e si liquidano come in dispositivo. Le spese del primo e del secondo grado di giudizio possono essere compensate ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), in considerazione della novità della fattispecie.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso principale;
-) cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dai sigg.ri D.B.V. , M.A. e D.B.S. nei confronti del Comune di Campomarino;
-) condanna i sigg.ri D.B.V. , M.A. e D.B.S. alla rifusione in favore del Comune di Campomarino delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 4.200, di cui 200 per spese vive.
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