cassazione 7

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 22 ottobre 2015, n. 21533

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso del 30.4.2010, proposto ai sensi degli artt. 28-29 della legge 13 giugno 1942 n. 794, M.G. – avvocato esercente la professione legale – convenne in giudizio, innanzi alla Corte di Appello di Milano, la società “Logikal s.r.l.”, quale società cessionaria di un ramo di azienda della società “Essevi s.c. a r.l.”, chiedendo la liquidazione dei compensi a lei spettanti per il patrocinio svolto in favore della detta società “Essevi”, nel giudizio pendente tra quest’ultima e la società “Errebi S.pA.”, definito con sentenza della Corte di Appello di Milano del 19.2.2008.
La convenuta società Logikal, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, resistette alla domanda, eccependo il difetto di procura del difensore che aveva sottoscritto il ricorso introduttivo e, comunque, assumendo il proprio difetto di legittimazione passiva relativamente al rapporto professionale dedotto in giudizio.
Con ordinanza del 13.7.2010, la Corte di Appello di Milano accolse la domanda e liquidò in favore della ricorrente la somma di Euro 4.214,53, oltre alle spese del giudizio.
2. – Per la cassazione di tale ordinanza ricorre la società Logikal sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso M.G. , eccependo l’inammissibilità del ricorso per cassazione.

Considerato in diritto

1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso l’ordinanza della Corte di Appello di Milano. Secondo la resistente, tale ordinanza, pur emessa a conclusione di un procedimento iniziato ai sensi degli artt. 28 e segg. della legge n. 794 del 1942, non essendosi limitata a decidere sulla determinazione della misura degli onorari, ma avendo deciso anche sui presupposti del diritto al compenso (relativi all’esistenza del rapporto obbligatorio), rivestirebbe natura sostanziale di sentenza, con la conseguenza che essa sarebbe soggetta al rimedio dell’appello e non potrebbe essere impugnata immediatamente con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
L’eccezione non è fondata.
La resistente invoca l’applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, il provvedimento con cui il giudice adito, a conclusione di un processo iniziato ai sensi degli artt. 28 e seguenti della legge 13 giugno 1942, n. 794, non si limiti a decidere sulla controversia tra l’avvocato ed il cliente circa la determinazione della misura degli onorari, ma pronunci anche sui presupposti del diritto al compenso, relativi all’esistenza e alla persistenza del rapporto obbligatorio, pur se qualificato come ordinanza, riveste natura sostanziale di sentenza con la conseguenza che esso può essere impugnato con il solo mezzo dell’appello e non invece con il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., trattandosi di questioni di merito, la cui cognizione non può essere sottratta al doppio grado di giurisdizione. (Sez. 2, Sentenza n. 1666 del 03/02/2012, Rv. 621690; nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 21554 del 13/10/2014, Rv. 632672; Sez. 3, Ordinanza n. 960 del 16/01/2009, Rv. 606335).
Ritiene tuttavia il Collegio che il richiamato principio di diritto non possa avere applicazione nel caso di specie, in cui l’ordinanza, ex artt. 28 e ss. legge n. 794 del 1942, è stata emessa non dal Tribunale, ma dalla Corte di Appello, ciò che impedisce la proponibilità del gravame dinanzi alla medesima Corte; deve invece – nella specie – prevalere il principio della apparenza.
E invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte suprema, condivisa dal Collegio, l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un dato provvedimento giurisdizionale va fatta in base al principio dell’apparenza, con riguardo esclusivo alla qualificazione dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice, indipendentemente dalla sua esattezza (Sez. U, Sentenza n. 3599 del 12/03/2003, Rv. 561083; Sez. 3, Sentenza n. 682 del 14/01/2005, Rv. 579880; Sez. 3, Sentenza n. 4120 del 01/03/2004, Rv. 570687).
In applicazione del detto principio, si è così statuito che, nel caso di sentenza emessa in sede di esecuzione forzata, la stessa è impugnabile con l’appello se l’azione è stata qualificata come opposizione all’esecuzione, mentre è esperibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione qualora l’azione sia stata definita come opposizione agli atti esecutivi (Sez. 3, Sentenza n. 3288 del 15/02/2006, Rv. 586842; Sez. 3, Sentenza n. 16379 del 04/08/2005, Rv. 585524).
Le Sezioni Unite di questa Corte, poi, in una fattispecie specularmente analoga alla presente, hanno statuito che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari ed altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento – sentenza oppure ordinanza ex art. 30 della legge 13 giugno 1942, n. 794 – che ha deciso la controversia, assume rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento. (Nella specie, le S.U. hanno cassato la sentenza della Corte territoriale che aveva dichiarato inammissibile il gravame avverso la sentenza emessa dal giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, per somme relative a prestazioni giudiziali civili, reputando che si trattasse, nella sostanza, di ordinanza inappellabile ai sensi dell’art. 30 della legge n. 794 del 1942, nonostante detta sentenza fosse stata emanata all’esito di un procedimento svoltosi – completamente nelle forme di un ordinario procedimento civile contenzioso) (Sez. U, Sentenza n. 390 del 11/01/2011, Rv. 615406).
Alla luce di quanto sopra, deve perciò ritenersi che, poiché il provvedimento impugnato ha la forma di una ordinanza emessa ex artt. 28 e ss. della legge n. 794 del 1942 e poiché avverso il medesimo (a prescindere dal suo contenuto) non è proponibile il rimedio dell’appello in quanto emesso da una Corte di Appello, avverso il detto provvedimento è proponibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
2. – Passando all’esame dei motivi di ricorso, che possono essere trattati unitariamente, con essi si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 83-86-125 cod. proc. civ. e 2558 cod. civ., nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata al riguardo.
I due motivi si articolano in due censure:
a) In primo luogo, si deduce l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non aver rilevato la nullità del procedimento per l’inesistenza della procura alle liti in favore dell’avvocato Rosa Garofano, firmataria del ricorso introduttivo; si deduce sul punto l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte di Milano nel ritenere che l’inesistenza della detta procura fosse sanata per il fatto che la ricorrente, in quanto avvocato, poteva difendersi da sé, non avendo la suddetta Corte considerato che la M. non aveva affatto sottoscritto il ricorso né si era presentata all’udienza di trattazione del medesimo o aveva in qualche modo manifestato l’intenzione di volersi difendere da sé;
b) In secondo luogo, si lamenta l’erronea applicazione dell’art. 2558 cod. civ. (per il quale – se non è pattuito diversamente – l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale): sia perché, nella specie, l’art. 12 del contratto di cessione di azienda – non considerato affatto dalla Corte territoriale – stabiliva, in deroga a quanto previsto dall’art. 2558 cod. civ., che la parte acquirente non subentrava in tutti i rapporti contrattuali esistenti, ma solo nei contratti relativi all’attività di facchinaggio e di gestione di magazzini e depositi, nonché in un contratto di locazione finanziaria specificamente individuato; sia perché, in ogni caso, il rapporto professionale instaurato dalla società Essevi con l’avv. M. sarebbe escluso dall’ambito di applicazione dell’art. 2558 cod. civ., trattandosi, non di contratto afferente l’esercizio dell’attività di impresa, ma di contratto di natura personale, intuitu personae, per il quale espressamente l’art. 2558 cod. civ. escludeva la successione dell’acquirente l’azienda.
2.1. La prima censura è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, il mancato rilascio di procura alle liti determina l’inesistenza soltanto di tale atto, ma non anche dell’atto di citazione, non costituendone requisito essenziale, atteso che, come si evince anche dall’art. 163, secondo comma, n. 6, cod. proc. civ., sulla necessità di indicare il nome ed il cognome del procuratore e la procura, se già rilasciata, il difetto non è ricompreso tra quelli elencati nel successivo art. 164 cod. proc. civ., che ne producono la nullità. L’atto di citazione privo della procura della parte è, quindi, idoneo ad introdurre il processo e ad attivare il potere dovere del giudice di decidere, con la conseguenza che la sentenza emessa a conclusione del processo introdotto con un atto di citazione viziato per difetto di procura alle liti è nulla, per carenza di un presupposto processuale necessario ai fini della valida costituzione del giudizio, ma non inesistente, sicché detta sentenza, pur viziata “come sentenza contenuto”, per effetto del principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, di cui all’art. 161, primo comma, cod. proc. civ., è suscettibile di passare in cosa giudicata in caso di mancata tempestiva impugnazione nell’ambito dello stesso processo nel quale è stata pronunciata, non essendo esperibili i rimedi dell’actio o dell’exceptio nullitatis, consentiti solo nel caso di inesistenza della sentenza (Sez. U, Sentenza n. 20934 del 12/10/2011, Rv. 619010; Sez. 3, Sentenza n. 4020 del 23/02/2006, Rv. 587939).
Nella specie, è pacifico che il ricorso introduttivo è stato sottoscritto dall’avv. Rosa Garofano, alla quale tuttavia M.G. non ha rilasciato alcuna procura alle liti. È pacifico anche che la M. (la quale – essendo esercente la professione legale – è esentata dall’obbligo di ministero del difensore: v. anche art. 29, comma 3, legge n. 794 del 1942) non ha apposto la propria sottoscrizione sul ricorso e neppure si è presentata all’udienza camerale all’uopo fissata. Non può dirsi, pertanto, che alcuna delle attività processuali siano state compiute personalmente dalla M. , quale esercente la professione legale.
Deve pertanto ritenersi la nullità dell’ordinanza impugnata e va disposto il rinvio della causa ad altra sezione della Corte di Appello di Milano, perché provveda ai sensi dell’art. 182 comma 2 cod. proc. civ., dovendosi ritenere doveroso per il giudice promuovere – mediante l’assegnazione di un termine perentorio alla parte – la sanatoria, con effetti ex tunc, del difetto di procura alle liti, senza il limite delle preclusioni processuali (cfr. Sez. U, Sentenza n. 9217 del 19/04/2010, Rv. 612563; Sez. 3, Sentenza n. 19169 del 11/09/2014, Rv. 633003).
2.2. – La seconda censura – di cui sub b) – rimane assorbita.
3. – In definitiva, in accoglimento della censura sub a), va cassata l’ordinanza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano, perché provveda ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. proc. civ..
Il giudice di rinvio provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *