Suprema CORTE DI CASSAZIONE
sezione III
SENTENZA 22 luglio 2014, n. 32355
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 18 ottobre 2012 la Corte d’appello di Bologna ha accolto l’appello proposto dal Procuratore Generale e dalla parte civile avverso sentenza del 21 giugno 2007 con cui il Tribunale di Bologna aveva assolto perché il fatto non sussiste V.A. dal reato di cui agli articoli 61 n. 11, 81 cpv., 609 quater, ultimo comma, in relazione all’articolo 609 bis c.p. (l’avere compiuto, con più azioni esecutive dei medesimo disegno criminoso e in tempi diversi, in occasione di lavaggi effettuati alla figlia A.V., all’epoca di età inferiore agli anni 10, atti sessuali sulla figlia stessa consistiti nel toccarle le parti intime, in particolare inserendole reiteratamente le dita nella vagina, con l’aggravante dell’abuso di relazioni domestiche), riformando la sentenza impugnata e condannando l’imputato per il suddetto reato alla pena di tre anni e 10 mesi di reclusione.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di tre motivi. Il primo motivo denuncia manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova in relazione alle dichiarazioni sul dato temporale degli abusi di una teste, la psicologa M.. Il secondo motivo lamenta violazione dell’articolo 609 quater c.p. e correlato vizio motivazionale non essendo adeguata la motivazione sul dolo. Il terzo motivo denuncia omessa motivazione sull’erroneo diniego dell’attenuante di cui all’articolo 609 quater, comma 4, c.p.
In data 16 aprile 2014 il difensore ha depositato motivi nuovi, denunciando la violazione del principio di ragionevole dubbio di cui all’articolo 533, comma 1, c.p.p. e la mancanza di una motivazione adeguata a fronte di sentenza assolutoria di primo grado.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è infondato.
3.1 Il primo motivo, che denuncia vizio motivazionale di manifesta illogicità per travisamento della prova in atti, adduce che il percorso motivazionale dei giudice d’appello si fonderebbe principalmente su un preteso errore del primo giudice nella valutazione della tempistica delle rivelazioni della minore sulla condotta del padre. Secondo la corte territoriale la minore non avrebbe rivelato ‘la vera natura di lavaggi’ per prima ‘alla madre che l’aveva messa alle strette’, bensì alla psicologa M.. Su questo errore la corte avrebbe ritenuto che il giudice di primo grado avrebbe ‘fondato la tesi per cui le pressioni della madre avevano contribuito a formare un falso ricordo’ nella figlia: e ciò sarebbe stato dirimente nello scardinare l’impianto argomentativo del Tribunale, che aveva assolto l’imputato sull’ipotesi che le dichiarazioni della pretesa vittima fossero state influenzate dalla di lei madre. Ad avviso del ricorrente, vi sarebbe un travisamento, poiché la circostanza ‘dirimente’ secondo la corte territoriale non emergerebbe dalle dichiarazioni della teste M. all’udienza dei 18 maggio 2006. Negando allora erroneamente che la bambina abbia parlato per prima alla madre, il giudice d’appello avrebbe negato ‘sostanzialmente che quest’ultima l’abbia involontariamente condizionata’. L’errore travolgerebbe ‘tutti i passaggi logici successivi della motivazione’ tanto più che nella testimonianza di un bambino ‘le primissime dichiarazioni spontanee sono quelle maggiormente attendibili’ perché non influenzate da elementi esterni (‘il bambino infatti asseconda chi gli pone le domande, racconta quello che lo stesso si attende’ e può dei condizionamenti esterni fare ‘un falso ricordo autobiografico’).
Quello che viene censurato nel motivo in questione, a ben guardare, non è tanto la linearità logica della motivazione di secondo grado, quanto piuttosto l’attendibilità della parte offesa, per la sua età infantile che consentirebbe un ‘inquinamento’ esterno, anche involontario, da parte degli adulti. La ragione per cui il Tribunale aveva assolto, infatti, era consistita proprio nel disvelamento progressivo da parte della minore che, ad avviso dei primo giudice, ‘potrebbe essere stato il risultato di delicati meccanismi psicologici, in forza dei quali la bambina, alla ricerca di approvazione da parte della figura genitoriale di riferimento (la madre) inconsciamente può avere sviluppato una modalità di percezione della passata esperienza dei tutto soggettiva’ così da non consentire di raggiungere una prova ragionevolmente certa.
È precluso al giudice di legittimità operare una valutazione alternativa degli esiti del compendio probatorio, per cui non gli compete analizzare tali dati per determinare se sussiste o meno l’attendibilità della parte offesa e se sussiste o meno una prova ragionevolmente certa della responsabilità di un imputato per i reati a lui ascritti. E non può ovviamente il giudice di legittimità operare una simile valutazione attraverso il vaglio della struttura motivazionale, che deve limitarsi all’accertamento della sua logicità e completezza (e, prima ancora, della sua esistenza/non apparenza), la valutazione fattuale rimanendo circoscritta all’ipotesi dei travisamento qualora questo abbia per oggetto un elemento decisivo.
Integra infatti il travisamento di prova una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obbiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito medesimo ne abbia inopinatamente tratto (così ex multis Cass. sez. III, 7 luglio 2011 n. 37756), sia quando il risultato probatorio sia diverso da quello reale in termini di ‘evidente incontestabilità’, sia quando il giudice si fonda su una prova in realtà inesistente (ancora ex multis Cass. sez. I, 17 novembre 2011 n. 47252). Il che significa che non può identificarsi in una mera versione alternativa degli esiti probatori: occorre invece una versione dei fatti univoca, e solo così idonea a sradicare quella posta a base della decisione in punto di fatto (da ultimo Cass. sez. II, 3 ottobre 2013 n. 47035 e Cass. sez. VI, 8 marzo 2012 n. 11189); una versione fattuale configurabile solo come opzione alternativa trascende invece i limiti della cognizione di legittimità che, quanto alla valutazione degli elementi probatori, ne circoscrivono il controllo alla verifica della rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza di adeguata integrità motivazionale (sempre ex multis, Cass. sez. VI, 4 aprile 2012 n. 181.90).
Nel caso di specie, sostiene il ricorrente che sia prova decisiva travisata quella relativa alla persona cui per prima la minore raccontò in modo completo la condotta del padre. È vero che la corte territoriale ha definito ‘elemento principale’ su cui il Tribunale ha fondato la tesi del ‘falso ricordo’ della minore il fatto che le prime rivelazioni siano state rese alla madre, laddove invece il giudice d’appello ha ritenuto che siano avvenute invece alla M.. Non è peraltro vero che questo dato possa considerarsi decisivo nella valutazione dell’attendibilità della parte offesa così come ritenuta sussistente dalla corte territoriale. Tale decisività viene espressamente attribuita dalla corte territoriale alla valutazione operata dal primo giudice, che è ovviamente cosa diversa da quella di un giudice d’appello che, anziché realizzare una c.d. doppia conforme, prende una posizione differente. È il caso infatti di rammentare che, secondo l’orientamento ormai tradizionale (ratificato e consolidato da S.U. 12 luglio 2005 n. 33748) il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, così dando conto delle ragioni d’incompletezza o incoerenza che ne giustificano la riforma. Dinanzi a un precedente difforme, quindi, il giudice d’appello, che pure ha il potere di pervenire ad una ricostruzione del fatto totalmente diversa da quella effettuata dal primo giudice (Cass. sez. IV, 7 luglio 2008 n. 37094), non può sorreggere la nuova versione fattuale rapportandosi esclusivamente alle argomentazioni delle parti né tanto meno avvalendosi dello strumento (applicabile invece agli atti difensivi e alle risultanze probatorie, peraltro se non decisive: Cass. sez. IV, 13 maggio 2011 n. 26660 e Cass. sez. VI, 4 maggio 2011 n. 20092) della motivazione implicita, occorrendo che comunque si confronti tramite modalità specifiche e complete con la struttura accertatoria impiantata dal giudice di primo grado (Cass. sez. VI, 29 aprile 2009 n. 22120), dimostrandone l’insostenibilità sul piano logico e giuridico quantomeno sugli argomenti più rilevanti e comunque stendendo una motivazione completa e convincente che si sovrapponga a tutto campo su quella del primo giudice (Cass. sez. V, 5 maggio 2008 n. 35762) per giustificare la sostituzione dell’accertamento, ovvero per collocare il proprio ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ (sulla questione che scaturisce dall’articolo 533, comma 1, c.p.p., v. poi specificamente infra, a proposito dei motivi aggiunti). E a tali regole, come ora si desumerà dall’analisi del suo iter accertatorio, il giudice d’appello si è nel caso in esame attenuto.
La corte territoriale, infatti, ha ‘smontato’ la ben percepita ricostruzione del giudice di prime cure strutturando la propria valutazione fattuale, invece, non sull’epoca delle prime dichiarazioni rivelatrici e sul destinatario di queste, bensì proprio sulla qualità specifica dal punto di vista contenutistico delle dichiarazioni della parte offesa come raccolte nell’incidente probatorio, in un ‘esame protetto … condotto con estrema correttezza, senza domande suggestive, senza pressioni esplicite od implicite’, così da non incorrere, nota la corte, ‘in quel ‘ve rificazionismo’ che tante volte ha afflitto… gli accertamenti tecnici psico-diagnostici’ sulle testimonianze dei minori. In tal modo, implicitamente ma inequivocamente, la corte territoriale manifesta di aver ritenuto (ed è anche questa una sua valutazione di merito) che una bambina di 10 anni o poco meno all’epoca dei fatti fosse già ben in grado di acquisire ricordi non trasformabili da elementi esterni. E la motivazione, dunque, trova l’elemento decisivo nelle dichiarazioni rese dalla minore in tale incidente probatorio, che la corte territoriale espressamente qualifica come determinanti (‘a fronte della nitidezza della testimonianza della minore…,ogni altra considerazione perde pregio difensivo’ afferma il giudice d’appello concludendo il loro vaglio, a pagina 13 della motivazione). Il primo motivo non risulta, pertanto, fondato.
3.2 Il secondo motivo lamenta che, a proposito del dolo generico, il giudice d’appello avrebbe fornito un ragionamento meramente assertivo, con cui ‘sostanzialmente afferma che per il solo fatto di aver praticato bidè alla figlia minore, l’imputato avesse la consapevolezza di ledere la sua sfera sessuale’. Non tenendo conto di quanto evidenziato dal primo giudice sulla pratica dei bidet (e cioè che questa, pur censurabile ed educativamente inadeguata, ‘si inseriva in una consuetudine familiare che risaliva nel tempo’ e ‘poteva ascriversi anche forme ossessive del padre per la pulizia’), il giudice d’appello avrebbe violato il principio del ragionevole dubbio. Anche in questo caso la doglianza non corrisponde all’effettivo contenuto della sentenza impugnata, perché questa, al momento di determinare l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato, non prende le mosse dall’accertamento di un elemento oggettivo consistente meramente in lavaggi nel bidet, bensì di un elemento oggettivo identificabile – come risalta fin dalla formulazione del capo d’imputazione – nel toccamento delle parti intime alla minore, e in particolare nella reiterata introduzione di dita nella vagina, per cui i suddetti lavaggi costituivano soltanto un contesto di ‘schermo’: motiva infatti la corte territoriale che ‘lavaggi del tipo di quelli effettuati… sono caratterizzati da un’invasività non richiesta né giustificata da ragioni igieniche e la loro mera messa in atto integra quella lesione al bene giuridico protetto’ cui deve essere diretto il dolo per integrare il reato in esame. Anche questo motivo risulta quindi infondato.
3.3 Il terzo motivo lamenta la mancata concessione dell’ipotesi attenuante di cui al quarto comma dell’articolo 609 quater c.p., che non sarebbe stata supportata da motivazione adeguata. In particolare non sarebbe stato ‘valorizzato, ai fini del riconoscimento dell’attenuante de qua, il contesto in cui sarebbero stati posti in essere i presunti ‘atti sessuali’, nell’ambito di una consuetudine familiare diuturna, in cui la pratica igienica era stata delegata al padre, con il consenso della madre, fin dalla nascita delle figlie’. In realtà, la motivazione offerta dalla corte territoriale è adeguata, poiché il passaggio citato come sintetico del motivo in esame (la corte territoriale avrebbe fondato la sua valutazione soltanto su un sintetico richiamo alla ‘natura degli atti, la loro reiterazione, l’età della vittima’, il che sarebbe ‘mera formula stereotipa’) non può essere estrapolato dal contesto in modo artificioso, essendo invece da innestare sul complessivo tessuto motivazionale: il richiamo effettuato dalla corte d’appello è un evidente riferimento a quanto più sopra appena descritto – o richiamato dalla sentenza di primo grado – in ordine alle caratteristiche della condotta criminosa, che intrinsecamente spiega perché questa sia stata ritenuta di intensità incompatibile con la concessione dell’attenuante. D’altronde, le argomentazioni che lo stesso ricorrente offre per dare specificità alla doglianza riversano elementi fattuali che peraltro sono manifestamente orientati in senso contrario ad una diminuzione della gravità della condotta (come il fatto che a commettere gli atti sessuali sia stato proprio il padre nell’ambito di una consuetudine familiare) oppure sono anche non corrispondenti a quanto accertato (come l’ulteriore elemento della delega al padre, con il consenso della madre, di tale pratica igienica, che confligge con quanto raccontato dalla madre alla teste M. – ‘la bimba si è lamentata, si vergogna molto del fatto che il papà le fa il bidè; io gli dico di non farlo, vado poi io, ma lui prende e va e le fa il bidè’ – e confermato dalla minore alla stessa teste – ‘questo successivamente me lo ha raccontato anche A.’ -, in un contesto in cui, per quanto emerge sempre dalla deposizione M., il ruolo di marito e padre svolto dall’imputato poteva conformarsi in modo violentemente impositivo, giungendo a picchiare sia la moglie che la figlia – per esempio, sempre dalla deposizione M. emerge che la moglie si rivolse alla Casa delle Donne dopo avere dovuto ricorrere al pronto soccorso per un colpo in testa infertole dal marito). Anche il terzo motivo risulta pertanto meritevole di rigetto.
3.4 Il ricorrente ha depositato tempestivamente anche motivi aggiunti. In primo luogo, censura giudice d’appello per avere violato il principio di cui all’articolo 533, comma 1, c.p.p., limitandosi ad una diversa lettura del compendio probatorio già vagliato nella sentenza di primo grado. In quanto giudice di merito, peraltro, è fisiologico che la Corte d’appello valuti il compendio probatorio ed eventualmente ne deduca un esito diverso da quello che ne abbia tratto il primo giudice, ciò non potendosi identificare nella violazione del principio sopra indicato, in quanto la difformità delle valutazioni del primo giudice non è sufficiente a integrare automaticamente un ragionevole dubbio. Sussiste la violazione soltanto se, estrinsecandosi il vizio sul piano motivativo, il secondo giudice non è in grado di supportare la propria valutazione difforme con una motivazione adeguata, che sia tale da renderla persuasiva nel confronto con quella precedente (oltre a quanto più sopra si è citato a proposito delle conseguenze originate dalla mancanza di una c.d. doppia conforme, si vedano specificamente su questo profilo, da ultimo, Cass. sez. VI, 22 ottobre 2013 n. 45203; Cass. sez. II, 8 novembre 2012-14 marzo 2013 n. 11883; Cass. sez. VI, 21 novembre 2012 n. 49755; Cass. sez.VI, 3 novembre 2011 n. 40159). Il che, naturalmente, non può intendersi nel senso che sia stato introdotto nell’ordinamento un terzo grado di fatto, ovvero non può comportare da parte dei giudice di legittimità una cognizione di fatto attraverso il confronto tra le motivazioni, ma si concretizza in un vaglio superiore della conformazione di quella del giudice d’appello in termini di logicità e di completezza, realizzandosi così, in sostanza, una fattispecie antipodale rispetto a quella della c.d. doppia conforme. E nel caso di specie la motivazione, come sopra si è visto, non ha appalesato difetti costruttivi del suo tessuto nel discostarsi dall’avviso dei primo giudice sull’attendibilità della parte offesa, la quale, in realtà, costituisce il profilo su cui divergono le due sentenze di merito (cfr. motivazione d’appello, pagina 13). D’altronde, la correlata censura dei ricorrente di mancanza di una motivazione adeguata per supportare la difformità con il primo giudice non può che qualificarsi del tutto generica. Attraverso i suddetti motivi nuovi, a ben guardare, il ricorrente persegue una ulteriore valutazione del compendio probatorio ad opera del giudice di legittimità, il quale, come già evidenziato a proposito dei primo motivo del ricorso, non può attingere al livello della cognizione di merito.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute dalla parte civile nel grado che si liquidano in € 2000 oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute dalla parte civile nel grado che liquida in € 2000 oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art.52 d.lgs. 196/03 in quanto disposto dalla legge.
Leave a Reply