Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

S.U.P.

sentenza 24 luglio 2014, n. 32923

Ritenuto in fatto

1. S.G. era originariamente imputato del delitto di cui all’art. 9, comma secondo, della legge 27 dicembre 1956, n.1423, nella formulazione risultante dalle varie e successive modifiche (e da ultimo quella di cui al decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito dalla legge 31 luglio 2005, n.155) perché, essendo sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, imposta con provvedimento del 24 marzo 2004 del Tribunale di Bari, contravveniva all’obbligo di portare con sé la c.d. “carta precettiva” (in realtà, carta di permanenza). Accertato in Molfetta, in data 4 ottobre 2007.
Il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta, con sentenza 11 giugno 2013, previa riqualificazione del fatto ascritto al S. come contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen., lo ha dichiarato colpevole e lo ha condannato, avuto riguardo all’aumento per la recidiva, alla pena di trecento Euro di multa.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bari, chiedendone l’annullamento.
Viene articolato un primo motivo, qualificato come erronea applicazione della legge penale (ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.), in considerazione della avvenuta riqualificazione giuridica del fatto.
Sostiene infatti il ricorrente, citando giurisprudenza di legittimità, che se l’imputato – come nel caso in esame – è persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, sussiste il delitto previsto dall’art. 9, comma secondo, legge n. 1423 del 1956 (oggi riprodotto testualmente nell’art. 75, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), anche nel caso di violazione del solo obbligo di portare la carta di permanenza (o “precettiva”), di cui al comma settimo dell’art. 5 della legge del 1956 (ora comma 7 dell’art. 8 del decreto legislativo del 2011).
2.1. L’impugnante rileva al proposito: a) che l’obbligo in questione grava solo su dette “qualificate persone” (coloro nei confronti dei quali, vale a dire, è stato imposto obbligo di soggiorno), come si desume dal raffronto dei commi quinto e sesto dell’art. 5 della legge n. 1423 del 1956, b) che il precetto è funzionalmente ordinato a consentire alle forze di polizia il controllo del rispetto delle prescrizioni, c) che la disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 5 contempla un obbligo di assoluta cogenza per il sorvegliato, imposto direttamente dalla legge e sottratto ad ogni potere dispositivo del giudice, il quale non può nemmeno modularne l’ambito di azione.
Di conseguenza, per il Procuratore ricorrente, l’inosservanza dell’obbligo di portare il predetto documento comporta “ineluttabilmente” la commissione del delitto in questione. La fattispecie incriminatrice infatti – egli osserva – punisce, non soltanto la sottrazione alle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale, prescrizioni determinate dal tribunale al momento dell’applicazione della misura di prevenzione, ma anche la semplice inosservanza degli obblighi inerenti alla misura predetta. Tra tali obblighi si deve annoverare certamente – si sostiene nel ricorso – quello, normativamente previsto, di portare al seguito la carta di permanenza.
2.2. Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bari censura inoltre, in subordine, la sentenza impugnata (deducendo, ancora una volta, inosservanza della legge penale), per avere il giudice determinato la pena, calcolando erroneamente l’aumento per la recidiva, aumento cui, viceversa, non si doveva far luogo poiché contestabile, come stabilito dall’art. 99 cod. pen., solo con riferimento ai delitti non colposi.
3. La Seconda Sezione penale, investita del ricorso, ha rilevato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla qualificazione della violazione dell’obbligo gravante sul sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno di portare con sé la carta di permanenza (sai. la violazione dell’art. 5, comma settimo, della legge n. 1423 del 1956, attualmente art. 8, comma 7, d. lgs. n. 159 del 2011) e, conseguentemente, in ordine alla sanzione da applicare.
Si osserva infatti che effettivamente l’opzione ermeneutica del ricorrente trova riscontro in sentenze, anche recenti, della Corte di cassazione, tra le quali vengono segnalate: le sentenze della Prima Sezione n. 1366 del 2012, Nicolosi e n. 35567 del 2013, Sangiorgio, pronunzie che, nella condotta sopra descritta, hanno ravvisato, appunto, il delitto di cui all’art. 9, comma secondo, legge 27 dicembre 1956, n.1423. Si aggiunge, tuttavia, che altre pronunzie hanno ravvisato la ipotesi contravvenzionale di cui al primo comma del medesimo articolo (sentenze della Prima Sezione n. 45508 del 2009, Giovinazzo; n. 42874 del 2009, Abate; n. 8771 del 2008, Arena); altre ancora – si conclude – hanno ritenuto sussistente la fattispecie di cui all’art. 650 cod. pen. (sentenze Sez. 6, n. 36787 del 2003, Combierati e Sez. 1, n. 2648 del 2012, Labonia, nonché, in motivazione, Sez. 1, n. 10714 del 2010, Mastrangelo).
Per tale ragione la Seconda Sezione, con ordinanza del 20 febbraio 2014, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.
4. Il Primo Presidente, con decreto in data 11 marzo 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione la odierna pubblica udienza.

Considerato in diritto

1. La questione della quale sono state investite le Sezioni unite è così riassumibile: “Se il sorvegliato speciale, con obbligo o divieto di soggiorno, che non porti con sé e non esibisca a richiesta di ufficiali e di agenti di pubblica sicurezza la carta precettiva (rectius: carta di permanenza), risponda del reato di cui al comma primo dell’art. 9 della legge n. 1423 del 1956 (attualmente comma 1 dell’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011) o di quello previsto dal comma secondo del medesimo articolo (attualmente comma 2 dell’art. 75 d.lgs. cit.) o, infine, della contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen.”.
2. La stratificazione normativa che ha largamente caratterizzato il settore delle misure di prevenzione e delle sanzioni penali collegate alla loro violazione impone, innanzitutto, di individuare con precisione il tempus delicti, in quanto, ovviamente, non è indifferente accertare, preliminarmente – per il rilievo che deriva dal dettato dell’art. 2 cod. pen. – quale fosse la normativa penale vigente al momento del fatto.
Invero le “risposte repressive” conseguenti alla mancata osservanza degli obblighi attinenti alla applicazione delle predette misure sono state diversamente modellate e graduate nel corso degli anni, di talché la medesima condotta risulta passibile di differente trattamento sanzionatorio a seconda del momento storico in cui è stata posta in essere.
2.1. Ebbene: dall’esame della sentenza e del ricorso emerge che: a) il decreto di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno è stato emanato il 24 agosto 2004, b) il verbale di sottoposizione agli obblighi è stato redatto il 18 novembre 2006, c) la prescrizione n. 10 del predetto verbale imponeva al S. di portare con se la “carta precettiva”, d) la violazione (mancato possesso e conseguente mancata esibizione del predetto documento) è stata accertata il 4 ottobre 2007.
È dunque evidente che la normativa applicabile era quella in vigore in tale ultima data, vale a dire quella di cui alla legge n. 1423 del 1956 come, da ultimo, modificata dal decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (“Misure urgenti contro il terrorismo internazionale”).
2.2. La materia, come è noto, riceve la sua prima sistematizzazione con la ricordata legge 27 dicembre 1956, n. 1423, successivamente modificata nel 1974 (legge 14 ottobre 1974, n. 497, “Nuove norme contro la criminalità”), nel 1982 (legge 13 settembre 1982, n. 646, “Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale e integrazione alle leggi 27 dicembre 1956 n. 1423, 10 febbraio 1962 n. 57, 31 maggio 1965 n. 575”), nel 1992 (decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti contro la criminalità mafiosa”) e, dopo l’intervento della appena ricordata legge n. 155 del 2005, giunge alla sua attuale configurazione, con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (il c.d. “codice antimafia”), il cui articolo 73 riproduce, alla lettera, l’art. 9 del testo legislativo rielaborato nel 2005 e il cui articolo 8 riproduce, nella sostanza, l’art. 5 del predetto corpus normativo.
3. Non appare indispensabile – ai fini della decisione che si deve assumere – seguire, nel dettaglio, lo sviluppo dell’evoluzione normativa sopra sintetizzata; basterà far presente che, fino alla entrata in vigore della legge n. 646 del 1982, la inosservanza del divieto o dell’obbligo di soggiorno costituiva contravvenzione.
A seguito dell’appena ricordato intervento legislativo, vennero diversamente sanzionate le violazioni degli obblighi, qualificate delitto, e le violazioni delle prescrizioni inerenti agli obblighi, qualificate contravvenzioni. La distinzione strutturale (e sanzionatoria) venne ribadita con il decreto-legge n. 306 (poi legge n. 356) del 1992, ma cadde con il decreto-legge n. 144 (poi legge n. 155) del 2005.
Invero l’art. 9, al comma primo (che rimane invariato), prevede l’arresto da tre mesi a un anno per il contravventore che sia sorvegliato speciale, ma senza obbligo o divieto di soggiorno; al comma secondo, viceversa, viene unificata, sul piano sanzionatorio, la violazione degli obblighi e quella delle prescrizioni, quando riferibili a sorvegliati speciali con obbligo o divieto di soggiorno. Invero “se l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni”. Si tratta, pertanto, sempre di delitto.
4. I termini della questione sono lucidamente percepiti dalla giurisprudenza di legittimità, che, con la sentenza Sez. 1, n. 8412 del 27/01/2009, Iuorio, Rv. 242975, chiarisce che “in materia di misure di prevenzione, a seguito della modifica di cui al decreto-legge, n. 144 del 2005, l’art. 9, comma secondo, legge n. 1423 del 1956 punisce come delitto qualunque tipo di inosservanza, sia degli obblighi, che delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, distinguendo tale ipotesi da quella, meno grave, di cui al primo comma, relativa alla violazione degli obblighi inerenti alla sola sorveglianza speciale” (scil. le violazioni degli obblighi connessi alla sola sorveglianza speciale c.d. “semplice”).
Nel caso allora in esame, la condotta risultava posta in essere in data 30 giugno 2004, pertanto, in epoca antecedente l’entrata in vigore della legge n. 155 del 2005. Dunque, essa era stata consumata sotto l’imperio del testo previgente alla novella del 2005. Conseguentemente, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2, comma quarto, cod. pen., la disposizione più favorevole all’imputato veniva individuata in quella di cui all’art. 9, comma primo, atteso che, secondo la disposizione in vigore al momento del giudizio, l’imputato avrebbe dovuto rispondere del delitto di cui all’art. 9, comma secondo, e non della contravvenzione dei cui al comma primo del medesimo articolo della legge n. 1423 del 1956, inapplicabile al caso di specie – dopo la novella – in quanto risultava ormai configurabile, come si è detto, esclusivamente nel caso in cui l’agente fosse un sorvegliato speciale “semplice”.
4.1. La sentenza Iuorio, relativa alla violazione della prescrizione di “vivere onestamente, rispettando le leggi”, trova puntuale conferma in una successiva pronuncia della medesima Sezione 1, n. 45833 del 21 dicembre 2010, S.D.N., non massimata, relativa proprio alla ipotesi della omessa esibizione della “carta precettiva” da parte di soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. Anche in questo caso, rilevando che la condotta era stata posta in essere prima dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dal decreto-legge n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, si concludeva nel senso che la violazione della prescrizione (appunto: di portare seco la carta di permanenza) doveva comportare l’addebito contravvenzionale previsto dall’art. 9, comma primo, legge n. 1423 del 1956, nella versione antecedente alle modifiche introdotte nel 2005, le quali sanzionano, invece, (ormai) a titolo di delitto tale comportamento, “laddove posto in essere dal soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno”.
4.2. Entrambe le pronunce sopra ricordate; pertanto, nel fare applicazione, ratione temporis, della normativa più favorevole, muovono dal presupposto che il criterio distintivo – nel caso di specie – tra delitto e contravvenzione, non trova (più), a far tempo dal 2005, fondamento nella condotta (violazione degli obblighi, ovvero delle prescrizioni inerenti agli obblighi), ma nella qualifica soggettiva dell’agente (sorvegliato con obbligo o divieto di soggiorno, ovvero sorvegliato “semplice”), di talché, se appartenente alla prima categoria, il sorvegliato commetterà sempre delitto (e mai contravvenzione) sia che violi l’obbligo, sia che violi una (semplice) prescrizione che all’obbligo inerisce.
5. La radicale equiparazione di condotte oggettivamente distinguibili (almeno sul piano teorico) non ha, per altro, mancato di suscitare dubbi di conformità costituzionale, dubbi tuttavia fugati dal Giudice delle leggi, che, con la sentenza n. 161 del 2009, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge 1423 del 1956, come novellata (da ultimo) dalla legge 155 del 2005, affermando che “il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, deve avere ad oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione”. Tale omogeneità, tuttavia, nel caso sottoposto alla attenzione della Corte, fu ritenuta insussistente, in quanto l’inasprimento sanzionatolo derivante dalla equiparazione delle condotte riguardava “soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee”. Poiché dunque il legislatore, nel rimodulare fattispecie criminose, ha esercitato la sua discrezionalità in modo non manifestamente irragionevole, né arbitrario, né radicalmente ingiustificato, tale scelta non è (stata ritenuta) censurabile in sede di verifica di costituzionalità. La Corte invero individua la ratio della norma nella necessità di facilitare l’esercizio da parte dell’autorità di pubblica sicurezza di adeguati controlli dei comportamenti di soggetti ritenuti portatori di particolare pericolosità criminale, predisponendo per i violatori un trattamento sanzionatorio indubbiamente severo, ma coerente con il proposito di un riordino del settore delle misure di prevenzione, anche nel quadro del contrasto al terrorismo internazionale, ripristinando, tra l’altro, l’arresto fuori flagranza, nel caso di violazioni agli obblighi ed alle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.
5.1. Tanto premesso, la Corte costituzionale esclude la violazione sia dell’art. 3, che dell’art. 27 Cost. Essa, infatti, ritiene non sia rimasto vulnerato né il principio di ragionevolezza, né quello di parità di trattamento (con casi ritenuti assimilabili dal giudice rimettente, quali quello di cui agli articoli 385, comma terzo, cod. pen., evasione dagli arresti domiciliari, e 47- ter, comma ottavo, Ord. Pen., evasione dalla detenzione domiciliare) e neanche quello di proporzionalità della risposta repressiva. Sotto il primo profilo, si assume che “le fattispecie poste a confronto […] sono palesemente diverse” poiché il delitto previsto dalla norma censurata si colloca “nell’ambito delle misure di prevenzione, finalizzate alla tutela della sicurezza pubblica e postulanti la sussistenza di determinati presupposti soggettivi […] nonché della pericolosità, che le suddette misure mirano a controllare, svolgendo, quindi, una funzione cautelativa”; sotto il secondo profilo, viene posto in rilievo il consistente divario tra il minimo ed il massimo edittale della pena prevista dalla norma impugnata, divario che “rende il trattamento punitivo molto flessibile in rapporto alle esigenze di adeguamento al diverso disvalore delle singole violazioni rientranti nel campo applicativo della norma censurata”. Il giudice, conseguentemente – ritiene la Corte – è posto nella condizione di graduare in concreto la pena in relazione alla gravità del fatto.
5.2. La pronuncia del Giudice delle leggi, dunque, riconosce conformità costituzionale al nuovo assetto sanzionatorio posto a presidio della violazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno e al “diritto vivente” nella interpretazione che, sin dalla entrata in vigore della legge di (parziale) riforma, il Giudice di legittimità aveva fornito del novum normativo.
6. Invero, partendo dal presupposto che il reato di violazione degli obblighi imposti al sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno era stato (ad opera del decreto-legge 25 luglio 2005, n. 144, convertito dalla legge 31 luglio 2005, n. 155) diversamente qualificato, la giurisprudenza della Corte di cassazione, sin dal 2006, aveva affermato che la violazione di un qualunque obbligo, anche diverso dal divieto di recarsi fuori dal comune del soggiorno, integra l’ipotesi delittuosa e non già – come previsto in precedenza – quella contravvenzionale. In tal senso numerose sentenze, tutte della Prima Sezione, vale a dire: n. 1485 del 21/12/2005, dep. 2006, Manno, Rv. 233436; n. 2217 del 13/12/2006, dep. 2007, Laurendino, Rv. 235899; n. 47766 del 06/11/2008, Lungari, Rv. 242748; n. 42874 del 21/10/2009, Abate, Rv. 245302; n. 35567 del 18/06/2013, Sangiorgio, Rv. 257014; n. 1366 del 05/12/2011, dep. 2012, Nicolosi, Rv. 251673; cui si aggiunge la già ricordata n. 21210 del 07/04/2011, C.G.N., non massimata.
Da notare che le sentenze Nicolosi, Sangiorgio, Abate sono ricordate, come premesso, nell’ordinanza di rimessione della Seconda Sezione, che tuttavia colloca erroneamente – probabilmente a seguito di una non corretta massimazione del principio di diritto estratto dalla pronuncia – la sentenza Abate tra la giurisprudenza (apparentemente, come si vedrà) minoritaria.
6.1. In realtà, proprio le sentenze Abate, Manno, Sangiorgio e Nicolosi rivestono particolare rilievo ai fini della decisione da assumere in questa sede in quanto relative alla omessa esibizione da parte del sorvegliato della “carta precettiva”, come unica inadempienza contestata (Sangiorgio) o comunque ritenuta in sentenza (Nicolosi), ovvero come violazione che si andava a sommare ad altre condotte contra legem (Abate e Manno). Ebbene, nella sentenza Manno, accertato che la violazione risultava commessa dopo l’entrata in vigore della modifica legislativa, si afferma che “non sussiste alcun dubbio sulla applicabilità della nuova normativa”. La sentenza Abate, per parte sua, afferma che l’omessa esibizione della carta di permanenza – da parte della persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno – integra il delitto di cui all’art. 9, comma secondo, legge n. 1423 del 1956, e non la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen., smentendo la qualificazione attribuita dal giudice di appello e aggiungendo a titolo di obiter che sussiste, viceversa, l’ipotesi di cui all’art. 9, comma primo, medesima legge nel caso di sorveglianza c.d. semplice. Per la sentenza Sangiorgio “integra il reato previsto dall’art. 9, comma secondo, legge n. 1423 del 1956, la violazione, da parte della persona sottoposta a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, della prescrizione di portare con sé la carta precettiva consegnatagli all’atto della sua sottoposizione alla misura di prevenzione personale”, carta che “deve essere esibita ad ogni richiesta da parte della polizia giudiziaria, affinché quest’ultima possa verificare il rispetto, da parte del sorvegliato, delle prescrizioni alle quali il medesimo è tenuto”. La Prima Sezione, nella sentenza da ultimo citata, rispondendo a una specifica doglianza del ricorrente, ritiene di chiarire che “la violazione di tale obbligo, fra l’altro espressamente indicato fra le prescrizioni in concreto imposte al ricorrente e preordinato a garantire la sicurezza pubblica, integra certamente il reato ascrittogli, pur se il prevenuto fosse stato personalmente conosciuto dagli agenti operanti”. Nei medesimi termini si esprime la sentenza Nicolosi che giudica “priva di consistenza la censura mossa in ricorso, essendo emerso che, a richiesta del verbalizzante”, l’imputato non aveva esibito la carta “che pur aveva l’obbligo di portare seco, fuori della propria abitazione”. La carta di permanenza, d’altra parte, è prevista per il solo sorvegliato “qualificato”, né potrebbe essere imposta al sorvegliato “semplice”, perché – altrimenti – sarebbe violato il principio di tassatività (cfr. sent. Sez. 1, n. 10714 del 07/01/2010, Mastrangelo, Rv. 246513); al sorvegliato senza obbligo o divieto di soggiorno, viceversa, possono essere imposte altre prescrizioni “atipiche” (ai sensi del comma quinto dell’art. 9), ma mai prescrizioni in forma diversa da quella espressamente prevista (v. sentenze della Prima Sezione n. 36123 del 30/06/2004, Larizzi, Rv. 229838; n. 41712 del 19/10/2005, La Neve, Rv. 232875; n. 46915 del 10/11/2009, Linaris, Rv. 245687; n. 43858 del 01/10/2013, Valentino, Rv. 257806).
Si assume insomma che il legislatore, ricomprendendo in un unica figura delittuosa (quella disciplinata dall’art. 9, comma secondo) la violazione, oltre che degli obblighi, anche delle prescrizioni, inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, ha operato una scelta coerente, in quanto ha sottoposto a un trattamento sanzionatorio più rigoroso ogni (qualsiasi) infrazione commessa da un soggetto nei confronti del quale – in ragione della sua concreta pericolosità – sia stata ravvisata l’esigenza di una misura di prevenzione più severa e costrittiva rispetto alla mera sorveglianza speciale.
6.2. Dunque: a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 155 del 2005, la violazione di un qualunque obbligo inerente alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno – anche, pertanto, se diverso dal divieto di recarsi fuori del comune di soggiorno – integra, secondo tale giurisprudenza, l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 9, comma secondo, della legge n. 1423 del 1956 e mai, come pure già precedentemente previsto, la figura contravvenzionale di cui al medesimo art. 9, comma primo.
In sintesi, la giurisprudenza citata prende atto di una progressione repressiva nell’approntamento della risposta sanzionatoria per le fattispecie di reato poste a tutela delle misure di prevenzione personali, risposta che fa perno sulla netta distinzione tra la figura del sorvegliato “semplice”, rispetto a quella del sorvegliato “qualificato”. Lo scopo è, evidentemente, quello di rendere effettivo, con la minaccia di una pena adeguata, il controllo – capillare e penetrante – su soggetti particolarmente pericolosi, controllo, nel caso di specie, volto a rendere cogente l’obbligo di soggiorno ed a neutralizzare “sul nascere” le condotte devianti, anche ripristinando la possibilità dell’arresto facoltativo fuori flagranza. Emerge quindi (cfr. sentenza Laurendino, cit.) la volontà “manifesta […] del legislatore di sottoporre ad un trattamento sanzionatorio più rigoroso tutte le infrazioni commesse da colui al quale sia stata imposta la misura di prevenzione più grave”, dal momento che il soggetto in questione “è stato ritenuto portatore di una maggiore pericolosità rispetto a chi venga sottoposto alla mera sorveglianza speciale […] le cui violazioni […] sono di contro sanzionate con l’arresto”.
7. A fronte di tale dominante filone giurisprudenziale, l’ordinanza di rimessione individua, tuttavia, altri due indirizzi ermeneutici che segnala come difformi.
Quanto al primo, cita le (già ricordate) sentenze – tutte della Prima Sezione – Giovinazzo (n. 45508 del 2009, Rv. 245500), Abate (n. 42874 del 2009, Rv. 245302), Messina (n. 22202 del 2005, Rv. 231768), le quali inquadrerebbero la mancata esibizione della carta di permanenza nella ipotesi contravvenzionale di cui al comma primo del più volte ricordato art. 9; quanto al secondo, fa menzione delle sentenze Sez. 6, n. 36787 del 07/07/2003, Combierati, Rv. 226337 e Sez. 1, n. 2648 del 18/10/2011, dep. 2012, Labonia, Rv. 251822, le quali ritengono debba trovare applicazione l’art. 650 cod. pen..
8. Va subito chiarito, tuttavia, che il contrasto tra l’orientamento maggioritario e quello rappresentato dalle sentenze che sopra si sono elencate per prime (Giovinazzo, Abate, Messina) è apparente e non reale, in quanto si tratta di sentenze rese, certamente, dopo la modifica normativa del 2005 e tuttavia relative a fatti commessi senza dubbio, ovvero – per quanto è dato comprendere – con ogni probabilità, anteriormente al novum legislativo (a quelle citate nell’ordinanza di rimessione possono aggiungersi altre sette sentenze, tutte della Prima Sezione: n. 33338 del 05/07/2005, Garofano, Rv. 232078; n. 5640 del 17/01/2006, Scardamaglia, Rv. 233691; n. 14526 del 13/01/2006, Vulcano, Rv. 233936; n. 23891 del 09/05/2007, Mole, non massimata; n. 31424 del 10/07/2008, Schiavone, non massimata; n. 8771 del 12/02/2008, Arena, Rv. 239236; n. 46223 del 12/11/2008, Muscogiuri, Rv. 247102).
D’altra parte, la lettera della legge, come risultante a far tempo, appunto, dal 2005, è inequivoca e la equiparazione della violazione delle prescrizioni alla violazione degli obblighi è indiscutibile.
9. Contrasto effettivo, viceversa, è quello con il dictum delle sentenze Combierati e Labonia, atteso che esse non negano certo la suddetta equiparazione (normativamente sancita), ma negano che la mancata esibizione (e quindi l’omesso porto) della “carta precettiva” integri il delitto di cui all’art. 9, comma secondo (e abbia mai integrato la contravvenzione di cui al comma primo del medesimo articolo), sostenendo che, viceversa, la condotta in questione sia riconducibile allo schema di cui all’art. 650 cod. pen..
La sentenza Combierati, tra l’altro, ritiene che quella proposta sia l’unica interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto non violativa del principio di proporzionalità tra incidenza dell’illecito e gravità della sanzione.
Ovviamente irrilevante è il fatto che la sentenza de qua sia anteriore alla modifica legislativa del 2005, in quanto, come appena anticipato, con tale pronuncia, la Sesta Sezione ritiene del tutto inapplicabile al caso in esame la legge 1423 del 1956, rilevando che “mentre l’inosservanza delle generiche prescrizioni dettate in tema di sorveglianza speciale dall’art. 5 citato ricade nell’ambito della previsione contravvenzionale di cui al primo comma dello stesso art. 9, deve invece escludersi che la violazione della prescrizione dell’ultima parte dell’art. 5, distinta da tutte le altre e non espressamente sanzionata, ricada nell’ambito della legge in esame, cosicché la sua inosservanza integra – al massimo – il reato previsto dall’art. 650 cod. pen.”.
9.1. La sentenza in discorso, premesso che, nell’ambito della sorveglianza speciale, alla persona assoggetta alle più rigorose limitazioni della libertà di movimento (scil. sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno) deve essere consegnata una carta di permanenza da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza, e premesso ancora che “con l’art. 9, la stessa legge prevede poi, al primo comma, che il contravventore agli obblighi inerenti la sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno, e, al secondo comma, che, se la (in)osservanza riguarda la sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni”, conclude, tuttavia, assumendo che la violazione della prescrizione dell’ultima parte dell’art. 5, è, come si è visto, “distinta da tutte le altre e non espressamente sanzionata”; esclude quindi che tale condotta ricada nell’ambito della legge in esame.
Il principio viene consapevolmente ripreso, a distanza di ben otto anni (e dunque dopo la modifica legislativa del 2005), dalla già ricordata sentenza Labonia (Sez. 1, n. 2648 del 2011, dep. 2012), che, prendendo atto che il giudice del merito, richiamando la sentenza Combierati, aveva autonomamente riqualificato ai sensi dell’art. 650 cod. pen. la condotta dell’imputato (il quale non aveva esibito la carta di permanenza), rileva, in assenza di impugnazione della parte pubblica, che il giudice a quo a tale pronuncia si era attenuto. La sentenza Labonia afferma (conseguentemente, ma non si comprende quanto adesivamente) che “integra la contravvenzione prevista dall’art. 650 cod. pen. la violazione dell’obbligo, da parte della persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, di portare con sé la carta di permanenza” e nega quindi che la predetta violazione integri “il reato di cui all’art. 9 della legge n. 1423 del 1956”, non mancando di osservare – tuttavia – che la sussistenza di tale reato (scil. quello di cui al comma secondo dell’art. 9 della legge 1423 del 1956) “sia [stata] ritenuta configurabile dalla giurisprudenza più recente di questa Corte”; e ciò anche se non può essere posto in dubbio che “l’obbligo di portare con sé la carta di permanenza per esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, abbia quale finalità precipua quella di garantire la sicurezza pubblica, attraverso la possibilità per gli organismi istituzionalmente a ciò preposti di controllare e di avere contezza dell’osservanza delle prescrizioni imposte da parte dei soggetti in capo ai quali è stata riconosciuta una qualificata pericolosità sociale”.
9.2. Il fatto è che, evidentemente, si è ritenuto – almeno da parte di un settore della giurisprudenza di questa Corte – che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche previste dall’art. 5 della legge n. 1423 del 1956 siano idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell’art. 9 della stessa legge, ma solo quelle che si risolvano “nella vanificazione sostanziale della misura imposta”. In questi termini si era espressa, molti anni prima e sia pure in sede di obiter, proprio la Prima Sezione, con la sentenza n. 793 del 20/03/1985, De Silva, Rv. 170592).
10. Tanto premesso, ritengono le Sezioni Unite che per giungere a una soddisfacente soluzione della questione posta con l’ordinanza di rimessione sia necessario, innanzitutto, chiarire cosa debba intendersi per obbligo e cosa debba intendersi per prescrizione, ai sensi dell’art. 9 della legge 1423 del 1956 (e succ. mod.). È pur vero, infatti, che, come si è ampiamente premesso, il decreto-legge n. 144 del 2005, convcetito in legge n. 155 del medesimo anno, ha equiparato quoad poenam, e con riferimento ai sorvegliati speciali con obbligo o divieto di soggiorno, la violazione degli uni alla violazione delle altre; nondimeno, la distinzione concettuale permane e può esser rilevante allo scopo di accertare se la mancata esibizione della carta precettiva rientri in una delle due categorie, ovvero in nessuna di esse, venendo a configurarsi come appartenente a quel tertium genus, cui, anni addietro, faceva riferimento la sentenza De Silva appena citata.
Ebbene, sembra corretto affermare che, con l’obbligo, si impone al destinatario un aliquid facere (o non facere), laddove, con la prescrizione, si prevede un quomodo facere. La prescrizione, vale a dire, presuppone un obbligo e ne precisa le modalità di adempimento.
10.1. Tanto chiarito in astratto, è da dire che non sempre il legislatore ha utilizzato con precisione i due termini, di talché, al di là del nomen juris adottato, non è sempre chiaro se ci si trovi al cospetto di un obbligo o di una prescrizione. Più utile allora appare esaminare la struttura della norma che elenca tanto obblighi, quanto prescrizioni per verificare se – come ritengono le sentenze Combierati e Labonia – la esibizione della carta di permanenza sia condotta estranea tanto agli uni, quanto alle altre.
10.2. Se si analizza allora l’art. 9 della legge, quale risulta a seguito delle successive modifiche (oggi art. 75 d.lgs. 6 settembre 2001, n. 159, c.d. “codice antimafia”), ci si rende agevolmente conto che, al primo comma, si prevede la ipotesi del sorvegliato “semplice” che contravvenga agli obblighi (arresto da tre mesi a un anno): non vi è traccia di sanzione collegata al mancato rispetto di prescrizioni; al secondo comma, il legislatore ha previsto la condotta del sorvegliato con obbligo o divieto di soggiorno che sia inosservante degli obblighi e/o delle prescrizioni che a tali obblighi ineriscono (reclusione da uno a cinque anni e possibilità di arresto fuori flagranza, opzione, per vero, quest’ultima ribadita anche nel comma successivo).
L’art. 5 della predetta legge (oggi articolo 8 del ricordato decreto legislativo), per parte sua, ai commi secondo, terzo e quarto, elenca gli obblighi che possono essere imposti tanto al sorvegliato “semplice”, quanto al sorvegliato “qualificato” (oltre all’impegno generico a vivere onestamente, rispettando le leggi: darsi alla ricerca di un lavoro, fissare la dimora, rendendone edotta l’autorità di pubblica sicurezza, non allontanarsene senza preventivo avviso alla medesima autorità, non associarsi abitualmente a pregiudicati e/o a persone, a loro volta, sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, rispettare determinati orari per uscire di casa e per farvi rientro, non partecipare a pubbliche riunioni, non portare armi); al comma quinto è previsto che ai soggetti sopra indicati, oltre agli obblighi sopra elencati, possano essere imposte “prescrizioni” ritenute eventualmente necessarie per soddisfare esigenze di difesa sociale.
Il comma sesto, viceversa, si rivolge esclusivamente a coloro ai quali sia stato applicato l’obbligo o il divieto di soggiorno (sorveglianza “qualificata”). Ai predetti possono essere imposte (in aggiunta) alcune condotte, esplicitamente qualificate “prescrizioni”: non andare lontano dalla abitazione scelta, senza preventivo avviso all’autorità incaricata della sorveglianza, presentarsi alla predetta autorità, quando convocati e, comunque, nei giorni programmati.
10.3. L’elencazione degli obblighi e delle prescrizioni si chiude dunque – da un punto di vista formale – con il comma sesto, atteso che il comma settimo recita: “alle persone di cui al comma 6 [i sorvegliati “qualificati”] è consegnata una carta di permanenza, da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza”.
Si tratta, ad evidenza, di una disposizione che, a differenza di quelle di cui ai commi precedenti, ha quale destinatario principale, non il sorvegliato, ma l’autorità competente, la quale è tenuta a rilasciare la “carta precettiva”. Anche la forma impersonale (“è consegnata una carta di permanenza”) sta ad indicare il ruolo passivo del sorvegliato, tenuto innanzitutto, ad un pati, e solo successivamente ad un facere. Si tratta in sintesi, innanzitutto, di una norma organizzativa, con la quale viene indicata una modalità esecutiva; una modalità, peraltro, diretta (a differenza delle “prescrizioni” di cui ai commi precedenti), in primis, non al sorvegliato, ma all’ufficio, che deve confezionare e consegnare il documento. Consegue (per il sorvegliato) l’obbligo di portarlo con sé e di mostrarlo, quando richiestone, da chi ne ha titolo.
10.4. Ebbene: la sanzione di cui al comma secondo dell’art. 9 (ovvero comma 2 dell’art. 75, che dir si voglia) non appare collegata (né potrebbe esserlo) ad un facere dell’ufficio (dal cui adempimento, come si è visto, discende – come obbligo “derivato” – la doverosa condotta imposta al sorvegliato), ma unicamente alle condotte direttamente ascrivibili al soggetto, vale a dire quelle di cui ai commi precedenti rispetto a quello che prevede la consegna della carta di permanenza.
Va da sé, tuttavia, che traducendosi necessariamente in un provvedimento della competente autorità, il vincolo comportamentale che viene (indubbiamente per ragioni di sicurezza ed ordine pubblici) imposto al soggetto sottoposto a sorveglianza non può non essere presidiato dalla sanzione contravvenzionale di cui all’art. 650 cod. pen..
Già sotto tale angolazione, dunque, l’analisi fornita dalla sentenza Combierati (e, “di riflesso”, Labonia) appare corretta.
11. Non è tuttavia il solo esame testuale della norma condotto nella sentenza della Sesta Sezione (per altro esplicitamente contestato nella citata sentenza Muscogiuri del 2008) ciò che convince della correttezza della soluzione cui è approdata la giurisprudenza minoritaria.
Si è già detto della sentenza della Corte costituzionale n. 161 del 2009, che ha ritenuto costituzionalmente compatibile l’equiparazione quoad poenam della violazione degli obblighi e della violazione delle prescrizioni. Sotto questo aspetto viene dunque in rilievo la condotta del sorvegliato, che non si conformi alle direttive impartitegli dalla competente autorità. Deve tuttavia trattarsi di condotte “eloquenti” in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle (significative) misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano e connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella “sostanziale vanificazione” di cui fa parola la sentenza De Silva.
Il rispetto del principio di offensività non consente altra “lettura”, attesi i severi presidi costituzionali costituiti dagli articoli 13 e 25 della nostra Carta fondamentale. D’altronde, la sentenza n. 282 del 2010 della Corte costituzionale ha chiarito che le prescrizioni imposte al sorvegliato hanno la funzione di garantire la effettività della tutela preventiva, allo scopo di scongiurare (o, almeno, limitare) la commissione di futuri reati. In tal senso le significative limitazioni della libertà di circolazione del sorvegliato, la imposizione di ben modulabili “strettoie temporali” o vincoli spaziali – unitamente alla imposizione di uno stile ordinato di vita (ricercare un lavoro, fissare una dimora ecc.) – rendono, se non agevole, almeno possibile il controllo del suo operato. E va da sé che le varie (e cumulabili) prescrizioni non devono essere apprezzate atomisticamente, ma come componenti integrate di un sottosistema di sicurezza calibrato ad personam, nell’ambito del quale assumono il loro pieno significato ed espletano la loro completa efficacia.
11.1. In tale ottica, il porto e la eventuale esibizione della carta di permanenza, benché condotte doverose, non costituiscono un obbligo nel senso dell’art. 9, comma secondo, della legge 1423 del 1956 come successivamente modificata (l’obbligo è quello di soggiornare o non soggiornare in un determinato luogo), ma neanche integrano una prescrizione, perché non si traducono né in una restrizione (spaziale o temporale) della libertà di circolazione, né nell’impegno di assumere l’habitus del bonus civis, con una stabile dimora e un onesto lavoro. Si tratta semplicemente di una disposizione volta a rendere più agevole l’operato delle forze di polizia, di una sorta di cooperazione forzosa del controllato con i suoi controllori, i quali, per altro, in considerazione della diffusione – ormai massiccia – delle moderne tecnologie informatiche di comunicazione, hanno ben altri mezzi per verificare “in tempo reale” identità, precedenti penali e giudiziari del soggetto che intendono controllare, nonché la esistenza di eventuali prescrizioni e vincoli sullo stesso gravanti.
11.2. Ora, è indubbio che sia ravvisabile nelle recenti iniziative del legislatore lo schema di un diritto penale modellato con più attenzione sulla figura dell’agente, il quale si sia già “illustrato” per condotte devianti (cfr. le nuove disposizioni sulla recidiva, che ratione personae, influisce addirittura sulla prescrizione).
Da questo punto di vista, è conseguente che la normativa individui categorie di persone meritevoli di particolare controllo e di una più attenta sorveglianza in ragione delle loro precedenti condotte, variamente accertate. A costoro non si richiede, ovviamente, un supplemento di legalità (vivere onestamente e rispettare le leggi è dovere di tutti), ma nei loro confronti ci può essere un surplus di controllo e una maggiore severità repressiva in quanto la violazione dei precetti del vivere onestamente, non meno della deliberata infrazione dei limiti e dei vincoli legittimamente imposti dalla competente autorità, costituiscono comportamenti sintomatici della persistenza di un animus pravus e – quindi – di una prevedibile, futura condotta delittuosa. E tuttavia il rispetto (anche) del principio di proporzionalità non consente, in sede ermeneutica, di equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto “qualificatamente” pericoloso. In tal senso l’insegnamento della più volte ricordata (benché risalente) sentenza De Silva non può essere trascurato, così come non può essere trascurata la giurisprudenza Europea (cfr., tra le altre, ad es. Corte EDU, Grande Camera, rie. 26772/95 del 6 aprile 2000, Labita c. Italia), la quale pone e ribadisce con forza la necessità di una stretta correlazione e proporzione tra misura restrittiva – repressiva e scopo perseguito.
11.3. L’esame delle sentenze espressive della giurisprudenza maggioritaria conferma, per altro, a contrario, attraverso l’analisi dei casi concreti, la correttezza delle conclusioni sopra sintetizzate.
Invero, non raramente i giudici di merito sono giunti ad affermare la responsabilità del sorvegliato che non aveva portato seco la carta di permanenza sulla base della semplice condotta, senza adeguata valutazione dell’elemento psicologico. Così, ad esempio, nel caso che poi ha trovato composizione nella già citata sentenza Scardamaglia (Sez. 1, n. 5640 del 2006), l’imputato si era recato spontaneamente presso l’ufficio di polizia per adempiere a una delle prescrizione impostegli e, in quella sede, era stato accertato il mancato possesso della carta di permanenza (benché dedotta “la buona fede” dell’imputato e quindi la mancanza di dolo, la Prima Sezione ha affrontato, dichiarandola inammissibile, la questione sotto il profilo dell’errore sul fatto e dell’errore di diritto). La vicenda rende evidente che è ben possibile (ed è probabile che sia frequente) che la mancata esibizione del documento de quo sia frutto di mera dimenticanza o trascuratezza, vale a dire di atteggiamento psicologico squisitamente colposo.
Il che comporta due considerazioni: da un lato, che, se l’omesso porto (e la mancata esibizione) della carta di permanenza fosse delitto, di delitto doloso dovrebbe trattarsi (non essendo espressamente prevista l’ipotesi colposa), con la conseguenza che dovrebbe essere puntualmente provata la specifica intenzione di contravvenire al disposto del comma settimo dell’art. 9 della legge 1423 del 1956 (oggi comma 7 dell’art. 75 del “codice antimafia”); dall’altro, che trattandosi di una condotta omissiva certamente “bagattellare” e non assimilabile – per le finalità ravvisabili e per l’incidenza sulla tenuta del sottosistema di sicurezza ad personam – sarebbe del tutto sproporzionato punire detta omissione con una pena detentiva, (anche se nella misura minima di un anno di reclusione), sia pure connotata da un ampio margine tra il detto minimo ed il massimo (cinque anni).
12. Per tutte le ragioni sopra esposte, si deve giungere alla seguente conclusione: “il sorvegliato speciale, sottoposto all’obbligo o al divieto di soggiorno che non porti con sé e non esibisca a richiesta di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria la carta di permanenza risponde della contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen.”.
13. Ne consegue che il ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bari non ha fondamento; ne consegue ulteriormente che, essendo stato il reato consumato in data 4 ottobre 2007, esso si è prescritto, tenuto conto della contestata recidiva, in data 4 ottobre 2013.
La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio in ragione della intervenuta causa estintiva.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.

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