Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 10 luglio 2014, n. 15842

Ritenuto in fatto

1. – Con sentenza depositata in data 3 ottobre 2002, il Tribunale di Roma, definendo il giudizio instaurato dall’Avv. M.S. nei confronti di R.R. per il pagamento del pattuito compenso omnicomprensivo per l’attività professionale svolta in esecuzione di un incarico relativo all’affitto di un locale commerciale in Roma di proprietà del convenuto, in accoglimento della domanda condannò il R. al pagamento della somma di Euro 15.493,71 (pari al 10% del canone convenuto dal R. con la locataria BNL per il primo anno) oltre accessori e rimborso dei 3/5 delle spese di lite.
2. – La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 10 luglio 2008, in riforma della impugnata pronuncia, ha rigettato la domanda proposta dall’Avv. M. , condannandolo alla restituzione della somma ricevuta (Euro 25.659,16) in ottemperanza dell’ordinanza ingiuntiva ex art. 186-ter cod. proc. civ. e della sentenza di primo grado, oltre interessi legali, compensando integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.
2.1. – La Corte d’appello, dopo avere respinto l’eccezione preliminare in rito di inammissibilità o nullità dell’atto di gravame, ha rilevato che il primo giudice ha ritenuto la netta prevalenza dell’incarico di mediazione rispetto all’attività legale ad essa affiancata, tanto da ritenere che il compenso pattuito per la prima (peraltro con l’esplicita condizione, caratteristica della mediazione e non del mandato, che le trattative andassero a buon fine) inglobasse anche quello per la seconda; ed ha dichiarato di prescindere dalla verifica in ordine all’attività svolta per l’attività di consulenza e assistenza legale dal M. , rilevando che la sentenza di primo grado non l’ha accertata senza ricevere sul punto censura alcuna.
Ha quindi sottolineato la Corte distrettuale che la legge 3 febbraio 1989, n. 39 (Modifiche ed integrazioni alla legge 21 marzo 1958, n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore) trova applicazione anche con riguardo alla mediazione una tantum, essendone l’esercizio, anche se occasionale o discontinuo, comunque subordinato all’iscrizione -nella specie non sussistente – in apposito ruolo previo superamento del prescritto esame di Stato.
3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello l’Avv. M. ha proposto ricorso, con atto notificato il 2 dicembre 2008, sulla base di tre motivi.
L’intimato ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell’udienza.

Considerato in diritto

1. – Il primo motivo denuncia la nullità della sentenza d’appello (violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 163, terzo comma, n. 3, cod. proc. civ., come richiamato dall’art. 342, ed all’art. 164, quarto comma, cod. proc. civ., in riferimento all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.). Ad avviso del ricorrente, l’atto di appello sarebbe nullo o inammissibile, essendovi omessa la richiesta e la domanda di riforma della sentenza di primo grado. Il R. si sarebbe limitato ad esporre ed evidenziare censure aventi ad oggetto errori interpretativi od omissioni della sentenza di primo grado, senza chiederne la riforma; avrebbe pertanto errato la Corte d’appello a ritenere che la manifestazione di volontà di riforma, ancorché non consegnata ad alcuna forma sacramentale, fosse evincibile dal complessivo atto di gravame.
1.1. – Il motivo è infondato.
In tema di appello, non è necessaria l’adozione di formule sacramentali per esprimere la volontà di richiedere la riforma della sentenza di primo grado, essendo sufficiente, in forza dell’art. 342, primo comma, cod. proc. civ. – nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui all’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – che siano esposti i motivi dell’impugnazione, si da consentire al giudice di identificare i punti da esaminare e di vagliare le ragioni, in fatto e in diritto, per le quali il gravame è proposto (Cass., Sez. lav., 22 marzo 2004, n. 5696; Cass., Sez. lav., 11 marzo 2014, n. 5562).
Ora, dall’esame diretto dell’atto di appello – reso necessario dal fatto che è denunciato un vizio in procedendo – risulta che l’atto introduttivo del giudizio di gravame reca: (a) l’individuazione dei punti della sentenza di primo grado ritenuti erronei (censurandosi: che il Tribunale abbia riconosciuto il diritto al compenso per la mediazione pur non essendo l’Avv. M. iscritto nell’apposito albo, come prescritto dalla legge n. 39 del 1989; che la sentenza impugnata abbia omesso di pronunciarsi sulla eccezione secondo cui il contratto di locazione concluso con la BNL non conteneva quelle condizioni economiche alle quali le parti, con il contratto del 29 luglio 1994, avevano espressamente subordinato il pagamento del compenso provvigionale; che il primo giudice abbia affermato la riconducibilità causale del contratto di locazione concluso dal R. con la BNL all’attività svolta dall’Avv. M. ; che il Tribunale abbia erroneamente affermato che con l’incarico di cui alla lettera del 27 luglio 1994 il R. avesse conferito anche un incarico professionale); (b) l’esposizione delle contrapposte deduzioni difensive; (c) la richiesta, conclusiva, in accoglimento dell’appello, del rigetto integrale della domanda dell’Avv. M. , accolta invece dal Tribunale con la sentenza impugnata.
È pertanto corretta la conclusione cui è pervenuta la Corte d’appello, secondo cui dall’esame del contenuto complessivo dell’atto risulta espressa, chiaramente e inequivocabilmente, la volontà dell’appellante di chiedere la totale riforma della sentenza impugnata.
2. – Il secondo motivo lamenta omessa e insufficiente motivazione circa la valutazione della natura dell’incarico professionale conferito dal convenuto all’attore, fatto questo controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., ed in violazione della legge professionale forense approvata con il regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, nella legge 22 gennaio 1934, n. 36. La Corte d’appello non avrebbe considerato che la domanda principale era relativa al compenso per il mandato, di esclusiva natura professionale, conferito dal R. all’Avv. M. . Di qui il quesito se “l’incarico conferito nel proprio esclusivo interesse da un cittadino, proprietario di un immobile, ad un avvocato di sua fiducia per essere assistito e rappresentato nella locazione del detto immobile ad un individuato e specificato conduttore, anche previo reperimento e leale segnalazione del conduttore stesso da parte dell’avvocato nell’esclusivo ed unico interesse del cliente/mandante ed in suo nome e per suo conto, sia di natura professionale forense (legale) ai sensi della legge professionale forense n. 1578 del 1933 e delle leggi e regolamenti che disciplinano l’attività forense e dia diritto all’avvocato incaricato a percepire il compenso, sia esso liberamente pattuito tra le parti o ai sensi della tariffa professionale forense”.
2.1. – Il motivo è inammissibile.
A fronte della qualificazione da parte del giudice del merito dell’incarico conferito al R. all’Avv. M. come di mediazione e non di mandato professionale stragiudiziale, il ricorrente si limita a contestare tale risultato interpretativo del negozio intercorrente tra le parti prospettando, in astratto, la riconducibilità al tipo del contratto d’opera professionale, ma senza indicare nel quesito quali regole ermeneutiche la Corte del merito abbia violato nel ricostruire la comune volontà delle parti o da quali risultanze processuali (non valutate o inesattamente valutate dal giudice del merito) emergerebbero gli elementi di fatto che farebbero propendere per la ascrivibilità della fattispecie negoziale al diverso modello tipico, né senza prendere specifica posizione sul rilievo, valorizzato dalla sentenza impugnata ai fini dell’inquadramento nel tipo della mediazione, che nella scrittura privata del 29 luglio 1994 il compenso in favore dell’Avv. M. era stato esplicitamente subordinato alla condizione, caratteristica della mediazione e non del mandato, che le trattative andassero a buon fine e che l’affare fosse concluso.
3. – Con il terzo mezzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 6 della legge 3 febbraio 1989, n. 39, in riferimento all’art. 1 della legge 21 marzo 1958, n. 253, ed agli artt. 1754 a 1765 cod. civ., in riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) – posto in via subordinata, qualora il mandato sia considerato di natura mediatoria, e non di natura “professionale forense-legale” – si chiede di stabilire se “l’incarico conferito nel proprio esclusivo interesse da un cittadino, proprietario di un immobile, ad un avvocato di sua fiducia per essere assistito e rappresentato, in suo nome e per suo conto, nella locazione del detto immobile ad un individuato e specificato conduttore, anche previo reperimento e leale segnalazione del conduttore stesso da parte dell’avvocato nell’esclusivo ed unico interesse del cliente/mandante, nell’ipotesi in cui ritenesse che nella fattispecie l’avvocato abbia svolto attività di mediazione, nell’esclusivo ed unico interesse del mandante ed in suo nome e per suo conto, e questa è consistita in un atto unico ed isolato di mediazione, se tale attività è disciplinata dalle norme del codice civile artt. da 1754 a 1765 e non dalla legge 3 febbraio 1989, n. 39, considerando altresì che l’avvocato ha agito in forza di esplicito mandato scritto, e non verbale, ed abbia quindi diritto a percepire il compenso pattuito, ed altresì considerando che, in ogni caso, un’opera intellettuale e/o lavorativa, comunque si voglia classificare, è stata proficuamente svolta dall’avvocato, se rimane pertanto in capo allo stesso il diritto a voler pretendere il compenso liberamente pattuito, non essendo giusto che il mandante R. voglia e possa locupletare e avvantaggiarsi di un’opera ricevuta dal professionista incaricato, esonerandosi dalle proprie obbligazioni, liberamente e consapevolmente assunte, conseguendo un indebito arricchimento a danno del legittimo lavoro dell’avvocato mandatario”.
3.1. – Il motivo è infondato, perché la Corte d’appello si è correttamente attenuta al principio secondo cui le disposizioni della legge n. 39 del 1989 – applicabili ratione temporis – riservano ai soli iscritti al ruolo degli agenti di mediazione lo svolgimento di ogni attività di mediazione, anche se esercitata in modo occasionale o discontinuo, e prevedono l’inesigibilità della provvigione in caso di mancata iscrizione (Cass., Sez. III, 18 marzo 2005, n. 5953; Cass., Sez. III, 5 settembre 2006, n. 19066; Cass., Sez. III, 8 luglio 2010, n. 16147).
4. – Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna, il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in Euro 2.400, di cui Euro 2.200 per compensi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

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