La titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell’azione al fine di esigere l’osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all’art. 907 cod. civ. e, come tale va accertata anche di ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto non vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della relativa sussistenza.
In materia di vedute infatti l’obbligo di osservare la distanza dalle vedute prescritta dall’art. 907 cod. civ. presuppone che colui che ha costruito per primo abbia acquistato, ad es. per usucapione o per convenzione, il diritto ad avere vedute verso il fondo vicino
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Suprema Corte di Cassazione
sezione II civile
sentenza 16 febbraio 2017, n. 4192
Esposizione del fatto
Con citazione notificata il 23 gennaio 2005 Mo.Al. e M.M. convenivano innanzi al Tribunale di Catania T.A. e F.C. esponendo:
di essere proprietari di un immobile, sito in (omissis) , confinante a nord con l’immobile di proprietà dei convenuti;
i convenuti avevano realizzato diverse opere abusive, quali la costruzione di tre finestre prospicienti la loro proprietà, l’apposizione di una grondaia in alluminio zincato alla distanza inferiore a 30 cm dal confine, la copertura della terrazza con pannelli zincati, sporgente sul fondo di loro proprietà per circa 30 cm. e convogliante le acque provenienti dalla falda di tale copertura verso il terrazzo di proprietà Mo. -M. .
Tanto premesso, chiedevano la condanna dei convenuti in solido al ripristino dello stato dei luoghi o, in subordine, all’esecuzione delle opere necessarie ad eliminare il pregiudizio, oltre al risarcimento dei danni. Costituitisi in giudizio, i convenuti deducevano che le “vedute” erano state realizzate negli anni ‘60 unitamente all’edificazione del loro edificio, e comunque prima che fosse costruito il fabbricato degli attori. Chiedevano pertanto la declaratoria di legittimità delle vedute ed, in via riconvenzionale, la condanna degli attori all’arretramento di quella parte delle opere (tetto del vano soggiorno) sottostanti alle vedute suddette e site ad una distanza inferiore a 3 mt.
L’apposizione del pluviale era invece avvenuta oltre vent’anni prima, sicché essi avevano usucapito il diritto di tenerlo a distanza inferiore a quella legale, mentre la sporgenza del tetto di copertura non era soggetta al rispetto delle distanze, avendo una funzione meramente ornamentale.
Deducevano inoltre che,, a causa della cattiva esecuzione dei lavori da parte degli attori, si erano verificate infiltrazioni di umidità nell’immobile di loro proprietà, onde chiedevano, in via riconvenzionale, la condanna degli attori all’esecuzione di lavori diretti alla loro eliminazione o al pagamento dell’importo equivalente.
Chiedevano infine la condanna degli attori all’eliminazione del pluviale da essi apposto a distanza inferiore da quella legale.
Il Tribunale, espletata Ctu, rigettava le domande degli attori ed, in parziale accoglimento delle riconvenzionali dei convenuti, condannava Mo.Al. e M.M. ad abbassare il tetto di copertura del loro edificio sino alla distanza di mt. 3 rispetto alle finestre dei convenuti, nonché ad arretrare il pluviale di scarico delle acque piovane alla distanza di 1 mt. dal confine.
La Corte d’Appello di Catania confermava integralmente la sentenza di primo grado.
La Corte, in particolare, per quanto qui ancora interessa, affermava l’inammissibilità dell’impugnazione, proposta dai signori Mo. e M. , con cui si censurava la statuizione del Tribunale di rigetto della domanda di arretramento della copertura in quanto domanda nuova in violazione dell’art. 345 cpc.
Il giudice di appello riteneva altresì infondata e generica l’impugnazione avverso la statuizione del primo giudice che aveva affermato che i coniugi T. -F. avevano acquisito il diritto di aprire vedute iure proprietatis ex art. 907 c.c., dovendo applicarsi il “principio della prevenzione”, la cui operatività nel caso di specie non era stato oggetto di gravame da parte degli appellanti principali.
Affermava, inoltre, che il gravame relativo alla violazione delle distanze in relazione alla grondaia era infondato, atteso che, pacificamente, essa preesisteva all’edificazione dell’immobile di proprietà dei coniugi Mo. -M. , avvenuta negli anni 1983-1985, dovendo conseguentemente ritenersi maturata l’usucapione in favore dei T. .
Per la cassazione di detta sentenza hanno proposto ricorso Mo.Al. e M.M. , affidandosi a cinque motivi.
I signori T. e F. hanno resistito con controricorso ed hanno depositato memoria ex art. 378 codice di rito.
Considerato in diritto
Con il primo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli arti. 345 e 112 cpc in relazione all’art. 360 n. 4) cpc, nonché l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha affermato l’inammissibilità della domanda volta all’arretramento della copertura del tetto, edificata dai resistenti.
Il motivo è fondato.
Risulta infatti dal contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, riportato nel corpo del ricorso, che i ricorrenti avevano con tale atto chiesto di dichiarare illegittime ed abusive le opere realizzate dai signori T. e F. , tra le quali era espressamente indicata la copertura della terrazza, costituita con pannelli zincati, sporgenti nella proprietà degli attori per circa 30 cm, chiedendo la condanna dei convenuti al ripristino dello stato dei luoghi o comunque al compimento di tutte quelle opere necessarie ad eliminare le violazioni da essi dedotte.
Non può dunque ritenersi che la domanda di arretramento della termocopertura sia domanda nuova, dovendo ritenersi compresa nella più ampia domanda di rimozione della copertura e di condanna dei convenuti al compimento, in generale, delle opere necessarie ad eliminare le difformità lamentate.
Con il secondo motivo di ricorso, si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 112 cpc in relazione all’art. 360 n.4) cpc, nonché l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha affermato l’inammissibilità della domanda volta al risarcimento dei danni morali, in quanto domanda nuova.
Il motivo è infondato.
I ricorrenti, infatti, nel giudizio di primo grado, secondo quanto risulta dallo stesso contenuto dell’atto di citazione riportato nel corpo del ricorso, si sono limitati a chiedere il risarcimento del danno materiale da mancato godimento di parte dell’immobile, mentre solo nel giudizio di appello hanno chiesto il risarcimento dei danno morali.
Deve dunque affermarsi la tardività di questa domanda.
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, infatti, in tema di risarcimento dei danni da responsabilità’ civile, l’infrazionabilità del giudizio di liquidazione non può trovare applicazione quando l’attore “ab initio” o durante il corso del giudizio abbia esplicitamente escluso il riferimento della domanda a tutte le possibili voci di danno, dovendosi coordinare il principio di infrazionabilità della richiesta di risarcimento con il principio della domanda. Ne consegue che, qualora nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno e tra le stesse non sia indicata quella relativa ai danni morali, l’eventuale domanda proposta in appello è inammissibile per novità (Cass. 22987/2004).
Ed invero, posto che nell’atto di citazione i ricorrenti hanno indicato specifiche voci di danno, la domanda proposta in appello per una voce che non era stata già indicata in primo grado, quale il risarcimento del danno morale, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile (Cass. 11761/2006).
Con il terzo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 905 e 907 c.c., dell’art. 342 cpc, in relazione all’art. 360 n.3) cpc, nonché l’omessa ed insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5) cpc, censurando le statuizioni della sentenza impugnata con le quali, confermando la decisione del primo giudice, è stata rigettata la domanda di essi ricorrenti, di eliminazione delle finestre del fabbricato dei resistenti, ed accolta la domanda di questi ultimi di abbassamento del tetto di copertura dell’immobile di proprietà dei primi, ed è stato altresì dichiarato l’acquisto per usucapione del diritto dei resistenti di mantenere il pluviale a distanza inferiore a quella legale.
I ricorrenti censurano anzitutto la statuizione della sentenza impugnata secondo cui, in relazione all’apertura delle “vedute” da parte dei signori T. e F. , l’applicazione del c.d. principio di prevenzione, su cui il primo giudice aveva fondato la pronuncia di rigetto, non era stato specificamente contestata da essi ricorrenti, attesa la eccessiva genericità del motivo.
Contestano inoltre la statuizione secondo cui doveva ritenersi irrilevante conoscere l’esatta epoca di costruzione delle finestre, una volta acclarato che esse preesistevano all’edificio Mo. -Magri secondo quanto accertato dal Ctu.
I ricorrenti censurano altresì il capo della sentenza che ha ritenuto che il pluviale costruito sopra le tre finestre dei ricorrenti fosse legittimo, in quanto certamente costruito al momento della edificazione del muro di confine T. -F. e certamente preesistente alla edificazione dell’immobile Mo. M. , avvenuta nel 1983-1985.
Con il quarto motivo si censura il medesimo capo della sentenza, denunziando la violazione degli artt. 112, 342 e 434 cpc, ex artt. 360 nn.3) e 4) cpc, nonché l’incongrua ed omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la Corte apoditticamente affermato, in relazione al principio di prevenzione, applicato dal primo giudice, la genericità del motivo di appello come formulato dai ricorrenti, senza esaminare il merito dell’impugnazione.
I motivi, che, in ragione della stretta connessione, vanno unitariamente esaminati, sono fondati nei limiti di seguito esposti.
Va anzitutto censurata la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto che l’applicazione del principio di prevenzione al caso di specie non fosse stato oggetto di gravame, in considerazione dell’eccessiva genericità del motivo di impugnazione sotteso.
Si osserva in contrario che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, l’effetto devolutivo dell’appello, entro i limiti dei motivi di impugnazione, preclude al giudice del gravame solo la possibilità di estendere le sue statuizioni ai punti della sentenza di primo grado non direttamente investiti dal gravame, ma solo in quanto essi non siano compresi nel “thema decidendum” neanche per implicito (Cass. 21659/2005) e che non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel “thema decidendum” del giudizio (Cass. 1377/2016).
In particolare, il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che in primo grado le questioni controversie abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per sé sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello. Ciò posto si osserva altresì che in materia di luci e vedute, il diritto di proprietà di un immobile fronteggiante il fondo altrui non può attribuire, in assenza di titoli specifici (negoziali o originari, come l’usucapione) anche l’acquisto della servitù di veduta.
Ne consegue che una situazione di mero fatto – che sia concretizzata nell’esistenza, a distanza inferiore di quella prescritta dall’art. 905 c.c., di aperture che consentano la inspectio e prospectio nel fondo confinante – non è di per sé suscettibile di tutela, in via petitoria, al fine di pretendere, da parte del vicino che edifichi sul proprio fondo, l’osservanza delle distanze previste dall’art. 907 c.c. (Cass. 11956/2009).
In particolare, come questa Corte ha già affermato, la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell’azione al fine di esigere l’osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all’art. 907 cod. civ. e, come tale va accertata anche di ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto non vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della relativa sussistenza (Cass. 1830/2010).
Orbene, nel caso di specie, il motivo di impugnazione proposto dai ricorrenti, secondo cui il giudice di prime cure aveva “errato nel ritenere acquisito in favore degli allora convenuti il diritto proprietatis ex art.907 cc.” e con il quale si censurava l’omesso espletamento di incombenti istruttori in relazione alla data di edificazione delle vedute, doveva ritenersi diretto a contestare il principio di prevenzione, come applicato dal primo giudice, a nulla rilevando la mancanza di una espressa indicazione della violazione del suddetto principio.
In ogni caso, la titolarità del diritto reale di veduta in capo ai resistenti, quale condizione dell’azione, avrebbe dovuto essere accertata, anche d’ufficio, dal giudice d’appello, non potendo, in difetto, ritenersi operativo il principio di prevenzione.
Va del pari accolta la censura avverso la statuizione della sentenza impugnata che dal solo accertamento del ctu, che la grondaia ed il pluviale preesistevano alla costruzione del fabbricato Mo. -M. (avvenuta negli anni 1983-1985) ha fatto discendere l’acquisto del diritto di mantenere tali opere distanza inferiore a quella legale, a prescindere dall’epoca di realizzazione delle stesse.
Ed invero, considerata la data di completamento della costruzione dei ricorrenti, (1985) e quella di instaurazione del presente giudizio (26.1.2005), non può ritenersi provato il decorso del termine ventennale necessario ai fini dell’acquisto per usucapione della relativa servitù.
L’accoglimento del terzo e quarto motivo assorbe l’esame del quinto motivo, con il quale si denunzia la violazione dell’art. 112 cpc e degli artt. 905 e 907 c.c. ex art. 360 n. 4) codice di rito, in relazione alla qualificazione delle aperture effettuate dai resistenti e della corrispondenza di quelle aperture alle vedute oggi esercitate dai T. -F. .
La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata per nuovo esame nel senso di cui in motivazione ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze, che si atterrà al sottoindicato principio di diritto:
“La titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell’azione al fine di esigere l’osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all’art. 907 cod. civ. e, come tale va accertata anche di ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto non vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della relativa sussistenza.
In materia di vedute infatti l’obbligo di osservare la distanza dalle vedute prescritta dall’art. 907 cod. civ. presuppone che colui che ha costruito per primo abbia acquistato, ad es. per usucapione o per convenzione, il diritto ad avere vedute verso il fondo vicino (Cass.Ss.Uu.11489/2002 e Cass.3859/88 e di recente Cass. 11956/2009)”.
Il giudice di rinvio provvederà altresì alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, terzo e quarto motivo di ricorso, assorbito il quinto.
Rigetta il secondo motivo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità
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