SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I
SENTENZA 29 settembre 2015, n.39358
Rilevato in fatto
Con ordinanza del 7 gennaio 2015 il Tribunale di Milano, investito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., confermava il provvedimento emesso dal G.I.P. dello stesso Tribunale di applicazione della misura della custodia in carcere nei confronti di R.P. in relazione all’omicidio, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 1 codice penale, di G.D.R., avvenuto il 9 ottobre 1976 in Milano, mediante l’esplosione di tre colpi di arma da fuoco, il primo dei quali aveva attinto D.R. all’inguine e gli altri due alle spalle. II fatto era stato commesso per motivi abietti (ragioni di predominio territoriale) e futili (quale conseguenza di un litigio avvenuto la sera prima tra un gruppo di calabresi di cui faceva parte l’indagato unitamente a tale N.C., ed un gruppo di nomadi, di cui faceva parte il defunto).
Per detto fatto, il 6 febbraio 1978 il giudice istruttore di Milano aveva emesso una sentenza istruttoria di improcedibilità per non aver commesso il fatto nei confronti di R.P., con contestuale rinvio a giudizio di T.F. e C. N. per concorso anomalo nell’omicidio unitamente a soggetti non identificati. Il processo a carico di T. e C. si era concluso definitivamente con esito assolutorio.
La vicenda aveva avuto uno sviluppo in conseguenza di una intercettazione ambientale in data 22 aprile 2012, nel corso della quale Catanzariti Agostino, parlando con G.M. e S.L., aveva ricostruito l’episodio e indicato in R.P., detto `Nginu’, colui che aveva ucciso D.R. perché questi gli aveva appoggiato una pistola alla testa. P. lo aveva gettato a terra e gli aveva sparato.
II riesame evidenziava che il Gip del tribunale di Milano aveva revocato la sentenza di non luogo a procedere emessa nei confronti di P. R. (e F. M.) ed autorizzato la riapertura delle indagini relative all’omicidio di D.R., nel corso delle quali era emerso lo stato di paura in cui versavano i testimoni dell’episodio. A.A., moglie dei defunto E.D.S., aveva confermato di aver mentito in precedenza perché minacciata e che effettivamente era stato R.P. ad uccidere D.R.; altro teste, B., aveva rifiutato di rendere nuova deposizione per paura; il teste
aveva negato evidenti contraddizioni tra le deposizioni rese e le conversazioni intercettate con il fratello.
Sulla base di queste nuove emergenze, ed ìn relazione al pericolo di inquinamento della prova e di reiterazione dei reati, ritenendo possibile una prossima scarcerazione dell’indagato, il tribunale del riesame affermava la sussistenza delle esigenze cautelare che imponevano la misura custodiate. Nel disattendere l’eccezione difensiva di prescrizione del reato, il tribunale dei riesame evidenziava che si dovesse tener conto dell’aggravante dei motivi abietti e futili, non incidente sulla identità del fatto ancorché inizialmente non contestata, da cui derivava la punibilità del reato con l’ergastolo. Escludeva che la dinamica dei fatti consentisse di riconoscere uno stato di legittima difesa del P. e riteneva l’irrilevanza del tempo trascorso, non avendo mai l’indagato manifestato sintomi di allontanamento dal pregresso stile di vita. La pericolosità di P. era dimostrata dall’efferatezza del delitto e dalla sua personalità.
Avverso questa ordinanza l’indagato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, chiedendone l’annullamento.
5.1. Con il primo motivo il difensore deduce la violazione dell’art. 606 lett. b) cod. proc. pen., in relazione all’art. 273, comma secondo, cod. proc. pen. per essere stata la misura cautelare applicata in presenza di una causa di estinzione dei reato. In particolare, con richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite Donati, afferma che l’azione penale non era più reiterabile in presenza di una sentenza di non doversi procedere per non aver commesso il fatto. La preclusione
processuale che vieta la reiterazione dell’esercizio dell’azione penale, ad avviso dei difensore, risiedeva nelle intervenuta prescrizione dei reato. Il tribunale del riesame, nel porre l’accento sulla legittimità della contestazione dell’aggravante, aveva frainteso l’argomentazione difensiva che, nei motivi dì riesame, aveva trattato la questione sull’identità del fatto al fine di spiegare come l’art. 649 cod. proc. pen. vietasse la contestazione di qualsiasi aggravante per un reato estinto per intervenuta prescrizione. Indubbio il potere dei pubblico ministero di modificare la contestazione nei termini che richiedeva, la giurisprudenza di legittimità era unanime nell’escludere che una circostanza aggravante potesse essere contestata dopo il decorso del termine di prescrizione. Nel caso in esame, all’epoca dei fatto il tempo necessario per la prescrizione dei reato era di anni 20, comunque, in base all’attuale disposizione, di anni 21.
5.2. Con il secondo ed il terzo motivo, la difesa dei ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ritenuto pericolo di inquinamento probatorio e di reiterazione dei reato. Per stessa ammissione dei tribunale del riesame non era stata accertata da parte di P. nessuna attività di subornazione di testimoni. La ritrattazione dei defunto D.S., valorizzata dal giudicante, era intervenuta nel processo a carico di persone diverse da P. che poi erano state assolte. Per quanto riguardava Anna A. era assorbente considerazione che la donna non aveva mai accusato P.. La deposizione di V. riguardava la posizione di M. e non quella di P.. Quella di B. era inutilizzabile perché inserita in annotazione di polizia giudiziaria, mentre quelle pregresse erano incerte sul riconoscimento dei soggetti coinvolti e sulle rispettive condotte. Detto pericolo mancava di attualità e di concretezza.
Quanto al pericolo di reiterazione dei reati, il difensore evidenziava che P. non era mai stato raggiunto da contestazioni per reati omicidiari e che mancava ogni considerazione del tempo trascorso. In relazione all’efferatezza del delitto, il giudicante non aveva tenuto conto che la persona deceduta era munita di pistola che aveva utilizzato contro chi aveva poi sparato. P. era in carcere da 23 anni e le sue condanne erano risalenti nel tempo e nulla provavano ìn ordine al pericolo di reiterazione dei reato. Le esigenze cautelare rappresentate dal riesame mancavano di concretezza.
II difensore ha depositato memoria in cui precisa, anche in relazione al tempo necessario per la prescrizione dei reato (30 anni) e ribadisce le argomentazioni svolte in ricorso.
Considerato in diritto
II ricorso va accolto nei limiti che seguono in relazione ad un profilo che il Collegio rileva d’ufficio.
1.1. II primo motivo di ricorso é infondato e va respinto. Le argomentazioni in esso ampiamente sviluppate con il richiamo al concetto di preclusione non sono pertinenti. La preclusione, come ricostruita dalla più recente Dottrina, è istituto dai contorni evanescenti, che però può essere ricondotto al concetto unitario di impossibilità di compiere un atto per l’assenza dei necessari presupposti (perdita dei potere di compierli per estinzione o consumazione; mancanza dei relativo potere; ostacoli per precedenti vicende endo o extra procedimentali; rapporti tra procedimento incidentale e principale). Limitando l’esame a quanto di interesse nella presente vicenda, di nessuna utilità è il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite Donati. Quella decisione aveva per oggetto una ipotesi di litispendenza locale e concerneva l’effetto preclusivo della sentenza non definitiva. Occorreva valutare se la pronuncia di una sentenza non definitiva fosse idonea ad impedire l’avvio di un secondo giudizio per lo stesso fatto nella stessa sede giudiziaria. Fenomeno quindi affatto diverso da quello dei presente procedimento in cui non è riscontrabile la contemporanea pendenza di due procedimenti. Il procedimento è unico in quanto, per effetto della pronuncia del Gip di revoca della sentenza dì proscioglimento, è lo stesso procedimento che inizia ex novo. Va sul punto ricordato che l’art. 90 del codice di procedura abrogato espressamente statuiva l’inammissibilità di un secondo giudizio ‘salvo quanto è disposto negli articoli 17, 89 e 402’, articolo quest’ultimo che disciplinava la riapertura dell’istruzione. La circostanza che questa eccezione non abbia trovato spazio nell’art. 649 dei codice di rito vigente, trova la sua giustificazione dogmatica nella riflessione che la riapertura delle indagini non determina l’apertura di un ‘nuovo procedimento penale’, perché il procedimento è sempre il medesimo. In questa ottica, è significativo che l’art. 60 cod. proc. pen. al terzo comma prevede che la qualifica di imputato si ‘riassume’ in caso di revoca della sentenza di non doversi procedere, ed in tanto si giustifica l’immanenza di questo status in quanto il procedimento è il medesimo che riprende nuova vita.
1.2. Il superiore approdo consente di impostare e dare risposta all’ulteriore profilo, di maggior spessore, relativo alla possibilità di revocare la sentenza di proscioglimento quando il reato originariamente contestato sia prescritto. II difensore di P. nella discussione ha ricordato che il caso trovava espressa disciplina nel codice di procedura abrogato che all’art. 402 condizionava la riapertura delle indagini al mancato intervento di una causa di estinzione del reato. Condizione questa che non figura nell’art. 434 attuale. La riflessione, formalmente corretta, tuttavia non coglie nel segno. La menzionata espressione, ‘purché non sia intervenuta una causa di estinzione dei reato’ come, riconosciuto dalla prevalente Dottrina dell’epoca, doveva essere valutata in relazione al reato così come configurato nella sentenza istruttoria, e non già alla figura criminosa che venisse eventualmente ad emergere dalle nuove prove e per la quale non operava la causa estintiva. A sostegno di questa tesi si operava la distinzione tra ‘reato’, in relazione a cui operava la causa estintiva, e ‘fatto’, in rapporto al quale veniva ripreso il procedimento. Si concludeva che, ‘in conseguenza di elementi sopravvenuti oppure preesistenti ma non conosciuti, una stessa condotta può ben venir considerata sotto un profilo criminoso diverso da quello esaminato’, non rientrante più nell’ambito della causa estintiva. In conformità a questa opinione la giurisprudenza di legittimità riconosceva che ‘Presupposto per la riapertura dell’istruzione è che non sia intervenuta una causa estintiva dei reato; ma l’estinzione deve riguardare esclusivamente il reato per cui si chiede la riapertura dell’istruzione in base ai nuovi elementi raccolti e non già quello per cui si è proceduto’ (Cass., 6 dicembre 1933, in Rivista Penale 1934, 567).
II codice dei 1988 non ha riprodotto questo inciso, ma non c’è nessun elemento logico o giuridico per inferire che si sia voluto innovare a quello che era un principio acquisito. Atteso che per effetto della revoca della sentenza di proscioglimento il soggetto ‘riassume’ la veste di imputato (termine utilizzato anche per definire la posizione del cittadino indagato perché come si legge nelle Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo si è inteso eliminare il termine indagato e si è utilizzato quello di imputato che assume una specificità tecnica quando è riferita a colui nei confronti del quale e’ stata già formulata dal pubblico ministero una richiesta accusatoria), è consequenziale che nel procedimento riaperto l’oggetto è dato non soltanto dalle acquisizioni precedenti, ma anche da quelle che costituiscono il novum probatorio che ha consentito la riapertura, da cui è impossibile prescindere in costanza dei principi di obbligatorietà dell’azione penale e dei fine ineludibile del processo di perseguire il raggiungimento della verità. È quindi in questo complessivo quadro che va valutato se è intervenuta una causa di estinzione del reato, così che, solo se per l’imputazione riformulata alla stregua dei nuovi elementi probatori opera una causa estintiva la riapertura delle indagini è preclusa.
Nel caso in esame non è controverso che in conseguenza delle contestate aggravanti, il reato non è prescritto.
1.3. Per contestare la legittimità della contestazione delle aggravanti, il ricorrente ha invocato i precedenti di legittimità che hanno escluso l’idoneità della contestazione della recidiva, avvenuta successivamente alla scadenza dei termine di prescrizione, ad impedire la declaratoria di estinzione dei reato. Osserva il Collegio che la vicenda oggetto del presente scrutinio di legittimità e quelle considerate dalle richiamate sentenze (contra, tuttavia, vedi Sez. V, n. 9769/2006) non sono assimilabili. La recidiva, come anche le altre circostanze aggravanti, preesistono alla contestazione dell’imputazione e per produrre effetti penali devono essere contestate tempestivamente, legittimando l’assunto maggioritario secondo cui la natura costitutiva della contestazione della recidiva non consente di tener conto, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione, dell’aumento di pena derivante dalla recidiva medesima, ove questa non sia stata contestata prima dello spirare del tempo necessario a prescrivere il reato nella forma non aggravata. La contestazione dell’imputazione ha riguardato un fatto storico già delineato nei suoi elementi fondanti e, come tale, portato a conoscenza dell’imputato. La successiva contestazione di un’aggravante già nota non è stato ritenuto dalla giurisprudenza maggioritaria evento in grado di impedire l’estinzione del reato già verificatasi. La disciplina posta dall’art. 434 cod. proc. pen. ha carattere eccezionale, in quanto deroga all’art. 649, e impone un diverso approdo, nel senso in precedenza evidenziato: il sopraggiungere di nuove prove è fattore che, legittimando la revoca della sentenza di proscioglimento, rimette tutte le parti nello status iniziale del procedimento che assume la conformazione che ne dà la pubblica accusa (aspetto su cui, pag. 6 del ricorso, sembra convenire la stessa difesa del ricorrente).
Né è fondata l’argomentazione che ha fatto leva sulla diversità di posizione in cui si sono venuti a trovare P., prosciolto in istruttoria e nuovamente sottoposto a giudizio, e gli altri correi, assolti nel giudizio di merito, per i quali la sentenza è intangibile. Vengono sul punto in rilievo diversità di sistema, frutto di scelte legislative, connaturate al debole grado di stabilità riconosciuto alle sentenze di improcedibilità che, se hanno il vantaggio di evitare la prosecuzione del giudizio, possono venir meno in presenza di determinati presupposti. Situazione questa peraltro analoga a quella che si realizza nel diverso caso di archiviazione e che, a ben vedere, ha il pregio di essere più garantita rispetto a qualsiasi cittadino che si veda raggiunto da indizi di colpevolezza per un reato e che, per questo, sia necessitato a difendersi nel processo.
II Collegio, come anticipato, rileva d’ufficio un aspetto che, pur accennato nel ricorso, non è stato approfondito e che invece assume valore decisivo. Nel capo di imputazione é stato contestato congiuntamente a P. di aver agito per motivi abietti (ragioni di predominio territoriale) e futili, consistiti in una ritorsione per un litigio avvenuto la sera prima per una frequentazione da parte di un componente del gruppo calabrese di una donna in precedenza fidanzata con un componente del gruppo rivale. Secondo i principi costantemente affermati da questa Corte, la circostanza aggravante dei futili motivi sussiste allorché la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (Sez. 1, n. 29337 dell’08/05/2009, Albanese, Rv. 244645; Sez. 1, n. 39261 del 13/10/2010, Mele, Rv. 248832; Sez. 1, n. 59 dell’01/10/2013 (02/01/2014), Pernia, Rv. 258598). Per motivo abietto invece si intende quello turpe, ignobile, che rivela nell’agente un grado tale di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità, nonché quello che secondo il comune sentire è espressione di un sentimento spregevole o vile, che provoca ripulsione ed è ingiustificabile per l’abnormità di fronte al sentimento umano. Il motivo futile è in sostanza un non-motivo; il motivo abietto è un motivo non giustificato dal sentire comune. Anche se accomunate nella formulazione dell’art. 61 n.1 cod. pen., le due aggravanti sono concettualmente diverse, soggettiva la prima, oggettiva l’altra, ed ancorate a dati fattuali diversi e antitetici, come chiaramente indicato dalla disgiuntiva ‘o’, così che difficilmente esse possono coesistere. O il motivo dell’omicidio va individuato nelle ragioni di predominio territoriale, ed è suscettibile di essere definito abietto, o nei contrasti per ragioni di donne, e può essere, definito futile. E, peraltro, ove congiuntamente contestate dette aggravanti necessitano di adeguata motivazione.
Riservato al giudice di merito il compito di accertare in fatto la sussistenza dei presupposti cui ancorare il giudizio sulle aggravanti, questa Corte rileva che in questa sede l’aggravante in questione deve essere valutata nel profilo di diritto costituito dalla considerazione che la sua contestazione è servita a superare la preclusione costituita dall’essere altrimenti il reato prescritto. Sorge quindi la necessità, a garanzia della legalità della procedura, e a fugare ogni dubbio che la contestazione dell’aggravante sia stata lo strumento per aggirare l’intervenuta estinzione del reato, che la detta contestazione sia ancorata a dati nuovi incontestabili e che sia assicurata la correttezza formale dell’agire pubblico. È significativo rammentare come, sull’onda di copiose risalenti riflessioni dottrinali giurisprudenziali, le Sezioni unite civili nel 2007 siano giunte rinvenire un vero e proprio statuto costituzionale della nozione di overuse affermando che nessun procedimento giudiziale appare conforme al fair trial ove rappresenti il frutto di abuso del processo ‘per l’esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi’. Come ha affermato una Dottrina ‘l’aggressione di un diritto fondamentale costituzionalmente tutelato che costituisce nella sua accezione oggettiva anche interesse pubblico processuale, rende, già su un piano teorico, necessario un sindacato a tutela della parte debole del rapporto processuale’. Sindacato che nel caso in questione compete alla Corte di Cassazione, preposta istituzionalmente ad assicurare l’esatta osservanza della legge,
Si impone l’annullamento della sentenza sul punto per i necessari approfondimenti.
II giudice del rinvio procederà in piena autonomia a individuare i parametri di riferimento da utilizzare per la valutazione della ricorrenza dell’aggravante, essendo però necessario che egli sciolga l’ambiguità che connota la contestazione, specificando se l’aggravante sia integrata da un motivo abietto o da un motivo futile.
Con l’ovvia precisazione che questa valutazione non deve avvenire in astratto, ma confrontandosi con la concreta vicenda in esame, non potendosi prescindere da quanto emerso dalla conversazione intercettata che, se quale fatto nuovo ha consentito la revoca della sentenza di proscioglimento, ha anche fornito una dinamica dell’evento che non può essere ignorata.
Restano assorbiti i rilievi in ordine alla sussistenza di esigenze cautelare.
P.Q.M.
A scioglimento della riserva assunta il 14/7/2015 annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alle circostanze aggravanti e alle esigenze cautelare e rinvia per nuovo esame al riguardo al Tribunale di Milano. Rigetta nel resto il ricorso. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’articolo 94, co. 1-ter, disp. att. c.p.p..
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