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La giurisprudenza di legittimita’ ha correttamente evidenziato che il rimedio risarcitorio, ex articolo 35-ter Ord. pen., presenta plurimi aspetti originali ed innovativi, quali la deformalizzazione dell’istanza, che il detenuto puo’ redigere personalmente secondo un contenuto minimo descrittivo del fatto e presentare direttamente al Magistrato di sorveglianza; nonche’ la peculiarita’ delle forme di tutela, tra le quali, per la prima volta nell’ordinamento nazionale, e’ prevista la riduzione in misura predeterminata della durata della pena detentiva ancora da espiare, in termini proporzionali al pregiudizio sofferto dal detenuto, in ragione di un giorno per ogni dieci di detenzione in condizioni di oggettiva violazione dell’articolo 3 CEDU. Infatti, solo quando il periodo di pena residua sia tale da non consentire l’operativita’ del delineato meccanismo di detrazione nella intera misura percentuale prevista, il Magistrato di sorveglianza liquida al detenuto la somma di denaro pari a 8,00 Euro per ciascuna giornata nella quale si e’ subito il pregiudizio.
Merita quindi condivisione l’orientamento in base al quale, qualora il richiedente si trovi detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del decreto-legge n. 92 del 2014, la prescrizione del relativo diritto inizia a decorrere solo dall’introduzione dell’articolo 35-ter Ord. pen. Il rimedio risarcitorio in esame non era infatti prospettabile prima della entrata in vigore della novella del 2014. E l’assenza di un previgente strumento di tutela, accessibile ed effettivo – idoneo a far cessare la detenzione in condizioni inumane e degradanti, anche mediante forme di compensazione in forma specifica – integra un impedimento all’esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all’articolo 2935 cod. civ., in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto puo’ essere fatto valere (Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito, cit). Deve, pure, rilevarsi che la diversa ipotesi interpretativa sostenuta dall’Ufficio ricorrente restringerebbe irragionevolmente l’ambito sostanziale di operativita’ del rimedio introdotto dall’articolo 35-ter Ord. pen., in spregio alle richiamate indicazioni ermeneutiche espresse dal Giudice delle leggi.
Va quindi affermato il seguente principio di diritto:
“La prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante, azionabile dal detenuto ai sensi dell’articolo 35-ter Ord. pen., commi 1 e 2, per i pregiudizi subiti anteriormente all’entrata in vigore del Decreto Legge n. 92 del 2014, decorre dal 28 giugno 2014”.
3.3. In conclusione, l’esclusione del decorso della prescrizione per eventi lesivi ex articolo 3 CEDU verificatisi anteriormente al 28 giugno del 2014 conduce ad apprezzare l’infondatezza della eccezione di (parziale) prescrizione del diritto azionato dal detenuto (OMISSIS), ex articolo 35-ter Ord. pen., dedotta dall’Amministrazione.
Il ricorso proposto dal Ministero della giustizia, per quanto detto, deve essere rigettato.
4. A questo punto della trattazione viene in rilievo il quesito sottoposto dalla Sezione rimettente: se il Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi della L. n. 354 del 1975, articoli 35-bis e 35-ter, debba essere condannato al pagamento delle spese processuali ed eventualmente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d’inammissibilita’ del ricorso, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen..
Sul punto, si registra un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimita’. Ad un indirizzo che ritiene applicabili, nella materia di interesse, i principi di diritto espressi in riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, ove il Ministero dell’economia e delle finanze viene condannato al pagamento delle spese processuali in caso di rigetto o di declaratoria inammissibilita’ del ricorso proposto avverso l’ordinanza della corte di appello quale giudice della riparazione (Sez. 1, n. 53012 del 27/11/2014, Min. giust., Rv. 261306), si contrappone un diverso orientamento che esclude la condanna alle spese nei confronti del Ministero della giustizia, ritenuto privo della qualita’ di parte privata richiesta dall’articolo 616 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito, Rv. 270841).
Preme evidenziare che, concordemente, la giurisprudenza ritiene non applicabile, nel procedimento susseguente a reclamo giurisdizionale presentato dal detenuto ai sensi dell’articolo 35-bis Ord. pen. – diversamente da quanto avviene, secondo diritto vivente, nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione – il regolamento inter partes delle spese processuali in base al principio della soccombenza, stante l’omesso richiamo agli articoli 91 e 97 cod. proc. civ. (Sez. 1, n. 53012 del 27/11/2014, Min. giust., Rv. 261305; Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Min. giust., Rv. 262351).
4.1. Al fine di verificare se possano essere utilmente trasposti – e con quali effetti – i principi affermati dalle Sezioni Unite in relazione al procedimento di riparazione per ingiusta detenzione ex articoli 314 e 315 cod. proc. pen., nell’ambito del rimedio risarcitorio di competenza del magistrato di sorveglianza, occorre richiamare i tratti qualificanti del giudizio riparatorio.
4.2. Si afferma comunemente che nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione il Ministero dell’economia e delle finanze e’ parte necessaria. L’assunto si giustifica in ragione del fatto che l’ordinamento non consente all’Amministrazione di riconoscere ed attribuire autonomamente una somma a titolo di riparazione per ingiusta detenzione; e che e’ indispensabile l’intervento del giudice della riparazione, il quale deve operare il controllo di legalita’ della pretesa avanzata dall’interessato e provvedere alla liquidazione, ove dovuta. Il Ministero dell’economia, invero, puo’ non costituirsi affatto nel procedimento, rimettendosi alla valutazione del giudice. I cenni che precedono consentono di cogliere il peculiare ambito funzionale del procedimento riparatorio, nel quale il giudice della riparazione deve verificare se sussistano i presupposti per il riconoscimento del ristoro economico qualora il soggetto, dopo essere stato sottoposto a misura cautelare custodiale, sia stato definitivamente prosciolto (ipotesi di ingiustizia sostanziale della detenzione, ex articolo 314 cod. proc. pen., comma 1), ovvero risulti accertato che il provvedimento custodiale e’ stato emesso in mancanza delle condizioni di applicabilita’ previste dalla legge (ingiustizia formale della detenzione, di cui all’articolo 314 cod. proc. pen., comma 2). L’oggetto del contendere, qualora l’Amministrazione finanziaria intenda resistere, riguarda, in entrambe le ipotesi, l’an o il quantum di una pretesa di natura pecuniaria, afferente alla pregressa sottoposizione del richiedente a custodia cautelare. Le Sezioni Unite hanno chiarito: che risulta evidente l’avvicinamento fra le ipotesi di cui all’articolo 314 cod. proc. pen., commi 1 e 2, sotto il profilo della possibile comune derivazione della “ingiustizia” della misura da elementi emersi “successivamente” al momento della sua applicazione; e che l’elemento della accertata “ingiustizia” della custodia patita, che caratterizza entrambe le ipotesi del diritto alla equa riparazione (diverse solo per le ragioni che integrano l’ingiustizia stessa) ne disvela il comune fondamento solidaristico e ne impone una comune disciplina quanto alle condizioni che ne legittimano il riconoscimento (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663).
Secondo diritto vivente, in caso di soccombenza, il Ministero dell’economia deve essere condannato al pagamento delle spese processuali anticipate dall’erario. A tale riguardo, si e’ in particolare rilevato: che l’articolo 616 cod. proc. pen. e’ espressione del principio di causalita’ e soccombenza, laddove stabilisce che con il provvedimento che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto e’ condannata al pagamento delle spese del procedimento; e che il Ministero dell’economia e delle finanze, nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, va accomunato alla “parte privata” (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, Rv. 222263). Per completezza, si rileva che la giurisprudenza ritiene che nel giudizio riparatorio l’Amministrazione soccombente debba sopportare anche il carico delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dall’altra parte, ai sensi dell’articolo 91 cod. proc. civ. (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, cit.).
4.3. L’applicazione dei principi ora richiamati porta ad escludere che nel procedimento giurisdizionale delineato dall’articolo 35-bis Ord. pen., mediante il quale si esplicano i rimedi risarcitori attivati dal soggetto detenuto, ai sensi dell’articolo 35-ter Ord. pen., commi 1 e 2, l’Amministrazione soccombente debba essere condannata al pagamento delle spese processuali.
L’Amministrazione penitenziaria interviene, nel procedimento di prossimita’ che occupa, quale titolare, e responsabile, del trattamento dei detenuti, sicche’ si deve escludere la natura civilistica degli interessi di cui l’Amministrazione e’ portatrice: l’ente agisce, nel procedimento, quale plesso amministrativo preposto alla custodia dei detenuti, partecipe della realizzazione delle finalita’ costituzionali della pena. Sfuggono, pertanto, i presupposti sostanziali per accomunare l’Amministrazione penitenziaria alle parti private presenti nel processo penale, diversamente da quanto accade nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione, ove il ruolo assunto dall’Amministrazione finanziaria, in relazione alla pretesa pecuniaria oggetto di quel giudizio, ne giustifica l’assimilazione alle parti private.
Invero, le funzioni svolte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia hanno natura sostanzialmente pubblicistica. Giova ricordare che secondo il disegno costituzionale, ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l’unico Ministero ad essere menzionato dalla Carta costituzionale l’organizzazione e il funzionamento “dei servizi relativi alla giustizia” (articolo 110 Cost.). In disparte il principio della leale collaborazione tra Ministro e C.S.M., che attiene alla selezione dei residuali compiti ministeriali rispetto all’Amministrazione della giurisdizione che spetta all’Organo di governo autonomo della magistratura, la dottrina pubblicistica ha chiarito che i servizi svolti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ispirati al principio della giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale, rientrano nell’ambito delle funzioni del Ministro della giustizia, quale piena espressione dell’Esecutivo. Non appare quindi revocabile in dubbio la natura pubblica dei servizi per la prevenzione e l’esecuzione della pena.
Conseguentemente, neppure nella fase di legittimita’ del procedimento in esame il Ministero della giustizia ricorrente puo’ essere assimilato ad una parte privata, rispetto al disposto di cui all’articolo 616 cod. proc. pen.. Lo impedisce l’evidenziata natura pubblica della funzione svolta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel peculiare procedimento per reclamo giurisdizionale, ex articolo 35-bis Ord. pen., attivato su istanza del detenuto che lamenti di essere stato, o di trovarsi attualmente, ristretto in condizioni disumane e degradanti, ai sensi dell’articolo 35-ter Ord. pen..
Militano in tal senso anche ragioni di ordine sistematico. La norma di cui all’articolo 616 cod. proc. pen., comma 1, e’ strutturata in riferimento ai soggetti tipici del processo penale, ove solo il pubblico ministero assume il ruolo di parte pubblica, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 9616 del 24/03/1995, Boido, Rv. 202018). Diversamente, nel procedimento di prossimita’ di cui si tratta, che pure si svolge ai sensi degli articoli 666 e 678 cod. proc. pen., e’ previsto l’inedito intervento dell’Amministrazione penitenziaria, quale soggetto che esercita la funzione pubblica relativa alle modalita’ di gestione della popolazione detenuta, come sopra chiarito.
Le medesime considerazioni ora svolte conducono pure ad escludere l’operativita’ del regolamento delle spese inter partes, ai sensi dell’articolo 91 cod. proc. civ., nell’ambito del procedimento giurisdizionale di competenza del Magistrato di sorveglianza, attivato su istanza del detenuto che lamenta condizioni di restrizione inumane e degradanti.
4.4. Consegue a quanto sopra esposto che la risposta al quesito sottoposto ad esame delle Sezioni Unite deve essere negativa, nel senso che:
“Il Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi della L. n. 354 del 1975 articoli 35-bis e 35-ter, non deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d’inammissibilita’ del ricorso, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen.”.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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