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Attraverso il richiamo al contenuto dei motivi di appello e agli elementi probatori acquisiti (sostanzialmente rappresentati dalle dichiarazioni del querelante (OMISSIS) e di alcuni invitati al pranzo di nozze di costui, dalle certificazioni mediche relative ai disturbi lamentati e dalle dichiarazioni del teste Dr. (OMISSIS) che aveva condotto le interviste a seguito della denuncia del fenomeno alla locale ASL), la Corte leccese ha dato atto del riscontrato collegamento tra la sintomatologia accusata da numerosi soggetti e l’occasione conviviale alla quale tutti avevano preso parte, ingerendo prodotti ittici. In particolare, secondo quanto emerge nelle sentenze di merito, alcuni testi avevano affermato che l’aragosta servita al
banchetto era parzialmente congelata e che al suo interno erano stati rinvenuti pezzi di ghiaccio (cfr. a pag. 2 della sentenza di primo grado il richiamo alle dichiarazioni di (OMISSIS)) e, sempre a titolo esemplificativo, i giudici di merito hanno pure specificamente richiamato in sentenza le dichiarazioni della teste (OMISSIS), la quale aveva ricondotto i disturbi lamentati unitamente al marito e al cognato all’assunzione di ostriche, dal momento che i figli che non avevano ingerito quei prodotti ittici – non li avevano accusati. La stessa teste (OMISSIS) inoltre, aveva confermato che l’aragosta era ancora ghiacciata.
Sulla scorta di tale compendio probatorio, i giudici di merito hanno quindi ritenuto provato che numerosi invitati (e tra questi anche soggetti che non avevano assunto alcuna veste nel processo) avevano presentato a distanza di diverse ore dal pranzo nuziale analoghi disturbi, parimenti evidenziando la verosimiglianza dell’assunto riferito dal querelante (OMISSIS), secondo cui alla cena nuziale tenutasi nel medesimo giorno non avevano preso parte gli stessi invitati del pranzo incriminato, risultando cosi’ smentita la tesi difensiva con cui si era prospettata una spiegazione alternativa del fenomeno (in base alla quale l’insorgenza dei lamentati disturbi poteva essere ricollegata a una presunta iperalimentazione/indigestione degli invitati).
Quanto, poi, alla prova documentale costituita dai certificati dei medici curanti (relativi a soggetti che non avevano deposto nel processo), la Corte ha rilevato che in alcuni casi si era dato conto di una riferita sintomatologia da gastroenterite con vomito e febbre o con vomito, diarrea e dolore addominale e che in alcuni casi la causa della diagnosticata gastroenterite era stata ricondotta alla riferita partecipazione ad un pranzo nuziale o, piu’ specificamente, all’assunzione di frutti di mare.
Inoltre, con riferimento alla invitata che aveva ricevuto cure in ospedale, la Corte ha dato atto che dalla relativa certificazione emergeva che la causa del ricovero era stata ricollegata a quanto riferito dalla paziente con riferimento alla comparsa di un malore circa 24 ore prima, con vomito, diarrea e febbre, dopo che la stessa aveva mangiato, nelle precedenti 48 ore, frutti di mare ad un pranzo nuziale, a seguito del quale altri invitati avevano manifestato analoga sintomatologia. Peraltro, la diagnosi di dimissione di tale invitata ( (OMISSIS)) era stata proprio “gastroenterite acuta” e la coprocoltura era stata limitata alla ricerca di solo tre batteri (cfr. pag. 8 della sentenza di primo grado).
I giudici di merito hanno pure valorizzato l’apporto dichiarativo del Dr. (OMISSIS): costui aveva infatti riferito in ordine agli accertamenti espletati a seguito della denunciata epidemia di gastroenteriti, sostanzialmente rappresentati da interviste che avevano coinvolto piu’ di 30 persone, 28 delle quali si erano rivolte al medico curante con disturbi ricorrenti (febbricola, diarrea e vomito), insorti a circa 30 ore di distanza dal pranzo nuziale, affermando che alcuni dei commensali non avevano pero’ presentato disturbi, ma si era trattato di soggetti che non avevano assunto pesce, i principali “sospetti” essendosi addensati sulle ostriche.
Proprio con riferimento alla prova della tossinfezione, la Corte di merito ha riconosciuto che essa non era stata direttamente raggiunta, atteso che l’unico esame obiettivo espletato sul soggetto ricoverato in ospedale aveva dato esito negativo per alcuni batteri, ma ha ritenuto che cio’ non inficiasse la acquisita certezza che una tossinfezione vi fosse stata e che essa fosse derivata dai prodotti ittici consumati nel corso di quel pranzo, tenuto anche conto della compatibilita’ temporale della insorgenza dei sintomi.
Anche l’attendibilita’ della p.o. (OMISSIS) e’ stata scrutinata alla luce dei rilievi difensivi, avendo la Corte leccese osservato che la circostanza che anche al banchetto nuziale del primo matrimonio del (OMISSIS) si fosse verificata una tossinfezione da ostriche non depurate non poteva di per se’ minarne la cerdibilita’, atteso che il dichiarante aveva lealmente parlato di tale episodio e che, in ogni caso, il (OMISSIS) non era stato l’unico a riferire dei disturbi.
Analoga attenzione la Corte leccese ha riservato alle prove a discarico, concludendo per la loro inidoneita’ a scalfire la convergenza degli elementi a carico, ben potendo i lavoranti della ditta di catering avere ignorato la pericolosita’ di alcuni prodotti trattati e serviti nell’occasione.
3. Il primi due motivi sono manifestamente infondati.
3.1. Parte ricorrente ha continuato ad opporre, in sede di ricorso, le doglianze gia’ articolate in sede di merito, proponendo una diversa lettura del dato probatorio. Cio’ e’ tuttavia prerogativa del giudice del merito, il quale ha fatto buon governo delle regole di valutazione della prova dichiarativa. Non si rilevano nel ragionamento svolto incongruita’, manifesta illogicita’ o contraddizioni di sorta, quanto al valore delle prove documentali, non avendo la Corte di merito attribuito ai certificati medici un valore diverso da quello che essi potevano avere, quale prova documentale acquisita al processo ai sensi dell’articolo 234 c.p.p., quello cioe’ di attestazioni di un fenomeno massivo di soggetti che – in maniera del tutto indipendente – avevano lamentato una sintomatologia del tutto simile, avendo preso parte al medesimo pranzo nuziale incriminato.
Lo stesso dicasi con riferimento alla prova della tossinfezione: la Corte salentina, infatti, non ha affermato l’esistenza di una prova diretta di essa, ma l’ha tratta indirettamente da un compendio indiziario connotato da precisione e concordanza, tali da consentire di affermare che certamente tutti i soggetti che avevano lamentato quei disturbi e che avevano preso parte a quel banchetto avevano assunto prodotti alimentari nocivi, ivi somministrati dalla ditta dell’imputato.
Sul punto, si rileva intanto che il reato di commercio di sostanze alimentari nocive e’ reato di pericolo per la cui sussistenza e’ necessario che gli alimenti abbiano, in concreto, la capacita’ di arrecare danno alla salute, la quale non necessariamente deve essere accertata tramite indagini peritali (cfr. sez. 4 n. 3457 del 19/12/2014 Ud. (dep. 26/01/2015), Freda e altri, Rv. 26247 (in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto integrata la prova del reato dalla tossinfezione contratta da un cospicuo numero di commensali ai quali erano stati somministrati i medesimi pasti in determinate mense scolastiche, considerata unitamente all’inosservanza eclatante delle norme igieniche di base negli ambienti destinati alla conservazione degli alimenti ed alla preparazione dei pasti); sez. 1 n. 3532 del 17/01/2007, Rv. 235904). La attitudine ad arrecare nocumento alla salute pubblica non puo’ certamente essere meramente ipotetica, occorrendo un pericolo concreto la cui dimostrazione tuttavia non abbisogna necessariamente di indagini peritali, poiche’ il giudice di merito puo’ ricavarla da qualsiasi mezzo di prova e dalla comune esperienza (cfr. sez. 1 n. 41106 del 23/09/2004, Rv. 229746).
Esclusa pertanto ogni violazione di legge in ordine alla regola di valutazione della prova acquisita, il discorso deve essere riportato sul piano del denunciato vizio motivazionale, con riferimento al quale le argomentazioni difensive chiamano direttamente in causa il profilo della valutazione del significato del dato probatorio, evocando il vizio di travisamento della prova (rappresentata dall’esito negativo dell’unico esame obiettivo espletato).
La Corte leccese ha tuttavia fornito una idonea spiegazione delle conclusioni rassegnate, laddove, proprio con riferimento al vizio denunciato, non puo’ mancarsi di ricordare che in virtu’ della previsione di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) novellati dalla L. n. 46 del 2006, articolo 8, il controllo del giudice di legittimita’ si estende alla omessa considerazione o al travisamento della prova, purche’ decisiva, con la precisazione che cio’ che e’ deducibile in sede di legittimita’ e rientra, pertanto, in detto controllo e’ solo l’errore revocatorio (sul significante), in quanto il rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata, introdotto con la suddetta novella, non puo’ che essere inteso in senso stretto, quale rapporto di negazione (sulle premesse), mentre ad esso e’ estraneo ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, puo’ essere interpretato per “brani” ne’ fuori dal contesto in cui e’ inserito” (cfr. Sez. 5 n. 8094 dell’11/01/2007, Rv. 236540; n. 18542 del 21/01/2011, Rv. 250168). Ne consegue che gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimita’ se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacita’ dimostrativa, restando pertanto inammissibili, in sede di legittimita’, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio.
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