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1.1 Va premesso che sotto il profilo da ultimo dedotto la questione è priva di
fondamento per due ordini di ragioni.
1.1.1 In primo luogo, la pretesa dell’imputato che ogni processo si possa
svolgere in due distinti gradi di merito non è garantita da una norma costituzionale,
come riconosciuto dalla stessa Consulta (C.cost., sentenze n. 62 del 2/4/1981; n.
585 del 2000; n. 84/2003; ordinanze n. 26 del 24/1/2007; n. 107 del 21/2/2007;
n. 410 del 7/11/2007), secondo la quale l’esclusione di tale garanzia, riconosciuta
dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità, si basa sull’assenza
nel testo costituzionale di una proposizione analoga a quella contenuta nel secondo
comma dell’art. 111 Cost. per il ricorso per cassazione, determinazione voluta,
secondo i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, per il modesto allarme
sociale prodotto dai reati di lieve entità (Ass. Cost., 27 novembre 1947, pag. 2593).
Inoltre, è stato escluso che soluzione diversa nel senso indicato dal ricorrente possa
basarsi sul disposto dell’art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione quale
diretta espressione del diritto di difesa, perchè tale precetto assicura la tutela di
siffatto diritto in ogni stato e grado del procedimento, ma non garantisce di poter
fruire di due gradi di merito, e nemmeno sull’art. 14, paragrafo 5, del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici, ratificato nell’ordinamento dalla legge
25 ottobre 1977, n. 881, dal momento che il sistema vigente assicura comunque un
riesame nel merito del giudizio di condanna per delitti quando si denuncino vizi
nello svolgimento del processo e nella formazione del convincimento del giudice.
Del pari, anche sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 3 Cost., comma
1, o del combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost., si è affermato che il diverso
regime dell’impugnazione è giustificato dalla differente natura dei reati da
giudicare.
1.1.2 Sotto diverso profilo va rilevato che l’assenza del grado di appello non
dipende da una scelta discrezionale del decidente, ma dalla previsione esplicita
dell’art. 593 cod. proc. pen., il cui testo è stato già esaminato dalla giurisprudenza
costituzionale in raffronto con l’art. 37 del D.Lgs.n. 274 del 2000, che più volte ha
superato lo scrutinio di costituzionalità (sentenze n. 426 del 19/12/2008 e n. 32 del
4/2/2010). La Consulta ha osservato che l’individuazione della condanna al
risarcimento del danno quale elemento discriminante del regime di impugnazione
delle sentenze che hanno inflitto pena pecuniaria è coerente con il complessivo
impianto del processo penale che si celebra davanti al giudice di pace, come
delineato dalla legge di delegazione e, in sua attuazione, dal decreto delegato, nel
quale è previsto che le condotte riparatorie post delictum determinino l’estinzione
del reato (art. 17, comma 1, lettera h), della legge n. 468 del 1999; art. 35 del d.
Igs. n. 274 del 2000), ove «idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione […] e di
prevenzione», assolvendo, per certi versi, ad una funzione sostitutiva della pena.
Quel che più rileva è l’esclusione della violazione del principio di eguaglianza per il
diverso trattamento che sarebbe riservato a fattispecie identiche o similari, avuto
riguardo alla regola dell’inappellabilità sancita dall’art. 593, comma 3, cod. proc.
pen., come sostituito dall’art. 13 della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi
legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), per le sentenze di
condanna alla pena dell’ammenda pronunciate dal tribunale. Per negare
l’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina delle impugnazioni
previste per il procedimento penale davanti al giudice di pace si è evidenziato che
questo configura un modello di giustizia non comparabile a quello davanti al
tribunale a ragione dei caratteri peculiari che presenta (ordinanze n. 28 del 2007,
n. 415 e n. 228 del 2005). In particolare, il d. Igs. n. 274 del 2000 devolve alla
competenza del giudice di pace “reati espressivi di conflitti a carattere
interpersonale, rispetto ai quali, come già rilevato, in correlazione con la
fondamentale finalità conciliativa, è contemplata l’estinzione conseguente a
condotte riparatorie ed è definito un autonomo apparato sanzionatorio, in cui la
previsione edittale concerne invariabilmente la pena pecuniaria, in alternativa alla
quale possono essere discrezionalmente irrogate, in taluni casi, pene
«paradetentive» (sentenza n. 2 del 2008). A tali peculiarità corrisponde non
irragionevolmente una asimmetria nel regime di impugnazione delle sentenze”
(C.cost. senetenza n. 426/2008 citata).
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