Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 30 ottobre 2017, n. 4981. Non è motivo di revocazione per omessa pronuncia il fatto che il giudice, nell’esaminare la domanda, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni poste a sostegno delle conclusioni

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Una tale ultima argomentazione è funzionale ad ottenere “la declaratoria del diritto al trattamento economico loro dovuto quali dipendenti di fatto a tempo indeterminato dell’A.C. di Lecce per il periodo in cui lo stesso è stato sospeso con deliberazione G.M. n. 1352/92”, declaratoria che il Tribunale amministrativo e questo Consiglio di Stato hanno motivatamente negato e sulle quali questo giudice si è dunque espresso senza alcuna infrapetizione.

2. Inoltre, l’errore di fatto va distinto dall’errore di giudizio o di diritto: l’errore revocatorio è l’errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l’intrinseca attività valutativa del giudice di situazioni processuali ben percepite nella loro oggettività; e non è ravvisabile, in principio, quando è lamentata l’erronea valutazione degli atti e delle risultanze processuali o un’anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, perché in questo caso ci si duole in realtà di un errore di giudizio (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 17 maggio 2010, n. 2).

L’errore di fatto revocatorio, infatti, è configurabile nel processo amministrativo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 Cod. proc. amm. e 395, n. 4, Cod. proc. civ.., se concorrono di tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, ritenendo così un fatto documentale escluso ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; inoltre deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.

Tanto è funzionale ad evitare che una tale, speciale, forma di impugnazione sia utilizzato, in abuso del processo, come uno strumento idoneo a condizionare sine die il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale (ex multis Cass., I, 19 giugno 2007, n. 14267).

Quanto all’ipotesi di errore di fatto per omesso esame di un motivo d’appello, l’omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte è riconducibile all’errore di fatto idoneo a fondare il giudizio revocatorio se risulti evidente dalla lettura della sentenza e sia chiaro che in nessun modo il giudice abbia preso in esame la censura medesima.

È indubbio, nel caso di specie, come già esposto al punto 1 della presente sentenza, che tanto la sentenza di secondo grado quanto quella di primo grado si siano pronunciate esaurientemente sui motivi dedotti, rigettandoli: di qui la insussistenza di omesse pronunce integranti un errore di fatto revocatorio; e la conseguente inammissibilità del ricorso.

Ciò vale tanto più se si si considera che la declaratoria di cessazione della materia del contendere (ammesso che sia configurabile come tale, ma sul punto l’appellante non aveva espresso censure in sulla sua diversa qualificabilità quale pronuncia di improcedibilità) non è una pronuncia che esaurisce gli effetti sul mero piano processuale, ma è rappresentata dalla legge come sentenza di merito (art. 34, comma 5, Cod. proc. amm.): il che implica un suo esame anche, appunto, nel merito, come correttamente è stato effettuato dal giudice di primo grado e da quello d’appello.

E’ vero che la declaratoria di cessazione della materia del contendere (o la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite) sono inidonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni già oggetto della controversia, né ne precludono la riproposizione in diverso giudizio (cfr. Cass., III, 31 agosto 2015, n. 17312).

Tuttavia, nella specie, non si controverte del valore giuridico e della qualità di cosa giudicata della sentenza di cui si domanda la revocazione, perché le valutazioni di merito della sentenza di primo grado e poi di quella d’appello erano funzionali al rigetto delle domande del ricorrente.

3. In ogni caso, questo Consiglio di Stato ha rilevato la nullità, ex art. 1966, comma 2, Cod. civ.., della transazione tra Amministrazione comunale ed originari ricorrenti, intervenuta in tema di rapporto di impiego nullo ex lege.

4. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, il ricorso è inammissibile.

Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quinta),

Definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe indicato, lo dichiara inammissibile.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio in favore del Comune resistente, spese che liquida in euro 3.000,00, oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 settembre 2017 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini – Presidente

Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere, Estensore

Alessandro Maggio – Consigliere

Valerio Perotti – Consigliere

Federico Di Matteo – Consigliere

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