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5.- Il ragionamento della sentenza non è fondato, a muovere dagli assunti di base.
In realtà, rileva il Collegio, la clausola è conforme, ripetendone il testo e lo scopo, all’importante regola dell’art. 81, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 che in termini generali da facoltà alle stazioni appaltanti, in caso di ritenuta non convenienza economica o di inidoneità tecnica dell’offerta, di arrestare il procedimento di aggiudicazione: il che corrisponde alla valutazione, discrezionale (per quanto da ben motivare: Cons. Stato, V, 11 giugno 2013, n. 3215), dell’amministrazione di identificare le proprie esigenze e le vie con cui approntare le adeguate risorse. La facoltà di cui si verte inerisce, in particolare, a quest’immanente valutazione di adeguatezza: sicché non v’è luogo, a fronte dell’esercizio di un tale potere, ad alcuna già maturata aspettativa al contratto. È appena il caso di rammentare, infatti, che le procedure di legge degli appalti pubblici sono finalizzate alla ricerca di mercato del giusto contraente ma, in itinere, non costituiscono di loro un irretrattabile dovere della stazione appaltante di concludere il contratto quale che sia il risultato generato dalla concreta gara.
Si tratta dunque dell’esercizio, insindacabile per elementari ragioni di separazione dei poteri, di un potere discrezionale. Già risalente giurisprudenza lo ha qualificato tale, sulla scorta dell’art. 113 r.d. 23 maggio, n. 827 (cfr., ex multis,Cons. Stato, IV, 31 maggio 2007, n. 2838; V, 27 febbraio 2001, n. 1060) ravvisandone il fondamento nel principio generale di buon andamento della pubblica amministrazione, declinato in efficacia, efficienza, economicità e qualità (art. 97 Cost. e artt. 1 l. n. 241 del 1990 e 2 d.lgs. n. 163 del 2006): il che impegna le pubbliche amministrazioni all’adozione di atti quanto più possibile coerenti e proporzionali alle esigenze effettive di provvista per i loro compiti, che precede e trascende la concretizzazione di un qualsiasi diritto al contratto da parte dell’offerente in gara.
Erronea e senza basi appare perciò la valutazione operata dalla sentenza, che fonda il suo ragionamento sul travisante, aprioristico assunto che quella di non aggiudicare sia di suo una facoltà arbitraria che fa fronte ad una situazione giuridica ormai consolidata dell’offerente e, per tal via, potenzialmente immotivata (e, in questo fallace senso, “meramente potestativa”: quando invece l’esercizio di una facoltà meramente potestativa postula un diritto su cui va concretamente a incidere). Invece la giustificazione di siffatte scelte, connotate per l’ampia discrezionalità sul piano valutativo, risulta indefettibile per una buona, sana e corretta gestione delle risorse pubbliche.
Parimenti, per le medesime ragioni non ha base l’assunto di violazione dell’art. 1229 Cod. civ..
Vale ancora richiamare, tra le tante, Cons. Stato. III, 25 febbraio 2016, n. 749; V, 28 luglio 2015, n. 3721, che ribadisce come la scelta di non aggiudicazione “non deriva dai vizi che inficiano gli atti di gara predisposti dalla stazione appaltante né da una rivalutazione dell’interesse pubblico che con essi si voleva perseguire, ma dipende da una negativa valutazione delle offerte presentate che, pur rispondendo formalmente ai requisiti previsti dalla lex specialis di gara, non sono ritenute dall’organo decidente idonee a soddisfare gli obiettivi perseguiti con la gara”.
6.- Inoltre, contro quanto afferma la sentenza appellata, la stazione appaltante non ha affatto omesso, nell’esercitare la facoltà di non aggiudicare il contratto, di fornire adeguato supporto motivazionale alla sua determinazione. Ciò per quanto, per le ragioni esposte, non sussista un onere di particolare esternazione delle ragioni di pubblico interesse intervenuto per non aggiudicare l’appalto “essendo sufficiente che sia reso palese il ragionamento seguito per giungere alla determinazione negativa, attraverso l’indicazione degli elementi concreti ed obiettivi, in base ai quali si è ritenuto di non procedere all’aggiudicazione” (cfr. Cons. Stato, IV, 31 maggio 2007, n. 2838).
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