Azienda, dalla disicplina alla cessione e affitto
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art. 2555 c.c. nozione: l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore (c.c.2082) per l’esercizio dell’impresa.
Si afferma, in dottrina ed in giurisprudenza, che l’azienda è costituita dagli strumenti materiali dei quali l’imprenditore si serve per l’esercizio dell’attività produttiva, mentre l’impresa coincide con l’attività economica in funzione della quale tali mezzi sono organizzati ed utilizzati dall’imprenditore o, più semplicemente, dall’azienda integrata dalla persona (fisica o giuridica) dell’imprenditore.
La nozione codicistica rivela come l’azienda assurga a bene giuridico qualificato nella misura in cui può rappresentare uno strumento atto a permettere l’attività dell’imprenditore, o più precisamente l’attività d’impresa.
IMPRESA E AZIENDA
Nel linguaggio corrente i concetti di impresa e azienda hanno lo stesso significato, ma dal punto di vista giuridico sono 2 concetti distinti.
- L’impresa è un’attività (art. 2082 c.c. elemento soggettivo, l’imprenditore può anche non possedere i fattori di produzione, spesso c’è contrasto tra proprietà e direzione, es. legge sull’ equo canone per uffici);
- l’azienda invece è un complesso di beni (art 2555 c.c. elemento oggettivo) organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’ impresa (carattere strumentale, è l’insieme degli elementi da organizzare).
Il concetto dell’organizzazione ha un ruolo centrale.
Essa rappresenta il collegamento tra i fattori di produzione, definito e/o scelto dall’imprenditore al fine di esercire l’impresa.
Il bene il cui utilizzo è finalizzato all’attività d’impresa, indipendentemente dal fatto che esso sia di proprietà o meno dell’imprenditore, è definito “bene aziendale”.
Al Bene va attribuito un significato ampio[1]; ai fini dell’art. 2555 c.c. è qualsiasi oggetto di tutela giuridico, presidiato cioè da un diritto soggettivo.
A tale stregua vanno annoverate fra i beni le cose e l’entità immateriali, in quanto formanti oggetto di diritti assoluti; e parimenti le prestazione di dare e di non fare, in quanto formanti oggetto di diritti relativi.
Fra i beni che compongono l’azienda esiste un collegamento funzionale, idoneo a farne un’unità economica.
Orientamento favorevole ad una nozione restrittiva di bene
In base ad un primo orientamento, che interpreta in senso restrittivo la nozione di bene aziendale rimanendo fedele al dato letterale della norma, rientrano nel concetto di beni di cui all’art. 2555 c.c. solo quelli che ricadono nella nozione di cui all’art. 810 c.c. che, riferendosi ai soli beni materiali, definisce i beni come quelle “cose che possono formare oggetto di diritti[2]”: pertanto, secondo tale teoria, sono parte dell’azienda unicamente i beni in senso materiale di cui l’imprenditore si avvale per l’esercizio della sua attività d’impresa.
Secondo un’altra teoria – da ritenersi prevalente, in particolare in giurisprudenza –
proprio un’interpretazione restrittiva della nozione di bene aziendale, tale cioè da non comprendervi i rapporti giuridici, ivi inclusi quelli aventi ad oggetto rapporti di lavoro subordinato, non terrebbe conto di tutte quelle realtà (quali ad esempio, le società di servizi) nelle quali i rapporti contrattuali (ovvero, il capitale umano) sono prevalenti rispetto ai beni in senso stretto.
Si ritiene, infatti, che debbano essere considerati beni aziendali oltre che gli strumenti reali, anche quelli personali come i diritti e le obbligazioni scaturenti dai rapporti in essere con i collaboratori
Complesso di beni è organizzato, cioè collegato in modo tale da servire all’esercizio dell’impresa, esso ha normalmente un valore maggiore di quello che avrebbero i singoli beni separatamente considerati; questo maggior valore solitamente costituisce quello che si identifica con:
Avviamento[3]: è dunque un modo di essere, una qualità dell’azienda, o, come si è giustamente precisato, una qualità dei singoli beni in quanto collegati in un’azienda, l’attitudine dell’azienda a produrre utili.
Secondo poi una pronuncia di merito[4], condivisibile a parere di chi scrive, il carattere precipuo dell’azienda è l’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa, intesa come opera unificatrice dell’imprenditore funzionale alla realizzazione di un rapporto di complementarietà strumentale tra i beni destinati alla produzione; pertanto, nel caso in cui il contratto abbia avuto come oggetto la gestione di beni organizzati in un contesto produttivo, anche solo potenziale, dall’imprenditore per l’attività di impresa, è configurabile un complesso aziendale, anche in assenza attuale dell’avviamento.
Per la Cassazione[5] l’avviamento è una componente del valore dell’azienda, costituita dal maggior valore che il complesso aziendale, unitamente considerato, presenta rispetto alla somma dei valori di mercato dei beni che lo compongono. Pertanto, in caso di cessione di azienda, si deve tener conto dell’avviamento, agli effetti dell’imposta di registro, nella determinazione del valore venale dell’azienda ceduta, senza che assumano rilievo circostanze contingenti, che pure possano avere influito nella determinazione concreta del corrispettivo — quali i legami di parentela e di lavoro tra cedente e cessionario (nella specie, padre e figlio, già partecipe di fatto dell’azienda) —, in quanto il valore che deve essere preso in considerazione per la determinazione della base imponibile è il prezzo che il bene ha «in comune commercio», vale a dire quello che il venditore ha la maggiore probabilità di realizzare e l’acquirente di pagare in condizioni normali di mercato, prescindendo, quindi, da situazioni soggettive e momentanee che possano deprimerlo o esaltarlo.
Secondo ultima Cassazione
Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 14 settembre 2016, n. 18086
l’avviamento, non e’ un bene compreso nell’azienda e non rientra fra le sue consistenze materiali o immateriali, ma ne costituisce, piuttosto una qualita’ (Cass. nn. 5845/013, 3775/94).
Una delle principali e forse la più significativa delle manifestazioni dell’avviamento è costituita dalla clientela; l’organizzazione tra i vari beni costituenti l’azienda fa sì che si determini una costante corrente di domanda dei servizi offerti dall’impresa: tale corrente costituisce appunto la clientela.
Anche se per la Cassazione, con una lontana pronuncia[6], l’avviamento e la clientela, pur costituendo entrambi indici del valore capitale dell’azienda, rispondono a concetti che non coincidono tra loro, in quanto mentre il primo termine sta ad indicare la potenzialità economica dell’azienda, cioè l’attitudine di questa a produrre beni e servizi, ed in particolare ad attirare clienti, il secondo termine si riferisce, invece, al complesso dei clienti attirati. Poiché tale attitudine dell’azienda sorge con la sua stessa costituzione, in quanto è l’effetto dell’organizzazione dei beni unitariamente collegati dall’imprenditore per il conseguimento dello scopo produttivo che esso si ripromette, ne discende che l’avviamento, che nell’anzidetta attitudine si concreta, esiste fin dal momento in cui l’azienda viene costituita, indipendentemente dall’inizio della specifica attività che forma lo scopo aziendale. In caso di società di persone, il valore di avviamento deve essere computato nel calcolo del valore della quota del socio uscente, anche se l’azienda sociale, già costituita, non abbia ancora iniziato l’attività imprenditizia cui era destinata, e quindi anche se l’avviamento è solo quello iniziale.
Attraverso l’elemento dell’organizzazione, l’imprenditore è in grado di rendere una pluralità di beni, tra di loro eterogenei, idonei ad essere utilizzati in modo unitario: l’organizzazione, in altre parole, è l’elemento che rende i beni funzionalmente e reciprocamente collegati in un complesso produttivo unitario e che consente, quindi, la realizzazione di quell’attività produttiva che i beni, utilizzati singolarmente, non sarebbero in grado di conseguire; per tale motivo l’organizzazione può essere definita come “l’elemento coagulante del complesso di beni che costituiscono l’azienda”.
La giurisprudenza di Cassazione[7] è ferma nel ritenere che costituisce azienda soltanto il complesso dei beni organizzato per l’esercizio di una specifica e ben individuata impresa, non di una qualsiasi possibile impresa astrattamente ipotizzabile, e, se è vero che per la configurabilità dell’azienda non è necessario che l’impresa sia in atto, nondimeno occorre che ne siano percepibili i potenziali elementi di identificazione, ed, in specie, il settore commerciale in cui quell’impresa opera od opererà, così come, se si può ammettere che i beni in tal modo organizzati siano poi utilizzabili dal cessionario dell’azienda (o di un suo ramo) per attività imprenditoriali anche diverse da quelle specificamente esercitate dal cedente, è pur sempre indispensabile che quel vincolo di organizzazione teleologia – il cui accertamento in concreto è riservato al giudice di merito – sussista[8].
Inoltre l’esistenza di un valore di avviamento dell’azienda non può essere esclusa sulla base della sola circostanza che l’impresa abbia subito delle perdite negli esercizi degli anni precedenti. Del valore complessivo dell’azienda fa parte, infatti, quello dell’avviamento – costituente una qualità dell’azienda stessa – che si somma al valore degli altri beni che la compongono in un’operazione che logicamente precede la detrazione delle passività, sicché non è aprioristicamente escluso né dall’esistenza né dall’ammontare di queste[9]
Disciplina per la tutela dell’avviamento in favore dell’imprenditore commerciale locatario nei confronti del locatore dell’immobile destinato all’esercizio dell’impresa, nel caso di sfratto intimato al primo dal secondo.
Le aziende si presentano come un elemento intermedio fra gli individui e lo Stato, in altri termini come una “sacca” dell’ordinamento economico in sé indipendente dalle altre ma allo stesso tempo a queste ultime fortemente legata da rapporti diretti o indiretti da cui deriva la sua stessa esistenza.
La molteplicità delle aziende si presenta in continuo mutamento ed evoluzione allo stesso modo che in un organismo umano dove le singole cellule si rinnovano mantenendo integro l’insieme.
Così in una singola azienda possono cambiare le persone o i rapporti d’affari senza per questo porre fine all’esistenza dell’azienda. In un’ottica macroeconomica le aziende nascono, crescono, si fondono o muoiono. Tutto questo avviene senza rompere la continuità del sistema economico.
B) Le tipologie
Classificazione in relazione al fine[10]
Se per fine si intende la creazione, l’accrescimento e la distribuzione di valore, allora è possibile delineare cinque diverse tipologie di azienda:
- familiare: persegue il suo scopo tramite valori non economici (come l’assistenza reciproca, i sentimenti, ecc.) ed economici (consumi, investimenti e risparmio). Tipicamente è un’azienda di consumo in cui il risparmio è formato dalla differenza tra redditi di lavoro e capitale da una parte, e consumi e investimenti dall’altra; se le uscite superano gli introiti si accede al finanziamento di terzo. Non va confusa con l’impresa familiare, cioè l’istituzione economica che impiega membri della stessa famiglia e che è volta a produrre reddito.
- pubblica: si occupa in primo luogo di soddisfare i bisogni pubblici, inoltre crea, accresce e distribuisce valore non solo in relazione alla collettività; ma coinvolgendo anche altri soggetti quali fornitori, dirigenti, dipendenti pubblici, clienti, concorrenti, ecc.
- di produzione (o impresa): ha come fine diretto (principale) la produzione e distribuzione di ricchezza e come fine indiretto (secondario) il soddisfacimento dei bisogni umani. Si chiamano imprese perché operano in un’economia di mercato e sono soggette al rischio del capitale investito. A seconda del settore in cui operano, possono essere ulteriormente classificate in: del primario (agricole, minerarie), del secondario (industriali, edili), del terziario (commerciali, mercantili, bancarie, assicurative, di servizi), del terziario avanzato (informatiche, di consulenza).
Le aziende di produzione possono essere:
- Aziende di produzione diretta, se attuano processi di trasformazione di materie prime ed altri fattori produttivi in prodotti finiti o servizi. Sono aziende di produzione diretta le imprese industriali , siderurgiche, alimentari, manifatturiere, le imprese che producono servizi ( trasporti, telefono, energia elettrica, etc.)
- Aziende di produzione indiretta, se attuano una funzione di distribuzione e di trasferimento dei beni nel tempo e nello spazio, senza far subire agli stessi modificazioni materiali (le imprese mercantili, che commerciano all’ingrosso e al minuto, svolgono un’attività di intermediazione negli scambi, le aziende bancarie, quelle di trasporto, etc.)
Qualsiasi attività produttiva che si voglia intraprendere richiede l’acquisto di fattoriproduttivi da parte dell’imprenditore-capitalista. Sarà necessario acquistare materie, macchinari, assumere forza-lavoro, prendere in affitto locali per lavorare oppure conservare la merce.
Tutti i costi che l’azienda sostiene corrispondono ad uscite di denaro.
Terminate le fasi di lavorazione e di trasformazione delle materie in prodotti finiti, essi vengono immessi sul mercato per la vendita, dando luogo ai ricavi.
Tutti i ricavi che l’azienda consegue corrispondono ad entrate di denaro.
Si sceglierà di operare in un settore produttivo anziché in un altro a seconda delle reali possibilità che offre il mercato, dalle scelte dell’imprenditore subordinate alle sue attitudini e alla sua esperienza.
Nel Settore Primario operano le aziende agricole, estrattive, di allevamento del bestiame, di caccia e pesca.
Nel Settore Secondario operano le aziende di trasformazione e di lavorazione delle materie, vale a dire le imprese industriali che a seconda del ramo di attività scelto possono essere: alimentari, tessili, automobilistiche, siderurgiche, meccaniche, etc.
Nel Settore Terziario operano le aziende mercantili all’ingrosso e al dettaglio e tutte le aziende di servizi da quelle di trasporto e di assicurazione a quelle bancarie finanziarie, di assicurazione, turistiche e studi professionali.
Appartengono al Settore Terziario Avanzato tutte quelle aziende che sfruttano la tecnologia, dall’informatica alla telematica.
Le Aziende di consumo sono quelle il cui fine è rappresentato dal soddisfacimento dei bisogni umani di determinati soggetti o Enti, gruppi o categorie di persone
La famiglia rappresenta la forma più semplice di azienda di erogazione o di consumo, in cui i vari membri con il loro lavoro e guidati dal capofamiglia, acquisiscono i mezzi da impiegare nel consumo, destinando, eventualmente la parte non utilizzata al risparmio.
Altre aziende sono sorte dall’uomo per soddisfare i bisogni collettivi e consistono in gruppi più ampi della famiglia. I componenti di questi gruppi (Stato, Regioni, Province, Comuni ed altri Enti territoriali pubblici privati – culturali, ricreativi, religiosi, assistenziali, sportivi -) forniscono i mezzi da spendere mediante contribuzioni obbligatorie o volontarie : imposte, tasse, tariffe.
- no profit: si tratta di aziende che non hanno fini di lucro soggettivo, nel senso che, pur potendo realizzare dei risultati economici e finanziari positivi, questi non vengono distribuiti al soggetto economico. È tuttavia lecito che svolgano una qualche attività commerciale inerente all’oggetto sociale purché essa sia solo marginale o rientri all’interno di finalità di utilità sociale. Un discorso particolare vale per le ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale). Si tratta di una qualifica ai fini delle imposte – ovvero che incide sulle modalità di pagamento delle imposte – che possono assumere le aziende non profit che operare in uno dei seguenti settori: assistenza sociale e socio-sanitaria, assistenza sociale, assistenza sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, tutela e promozione dei beni storici e artistici, tutela dell’ambiente, promozione culturale ed artistica, tutela dei diritti civili, ricerca scientifica. Tali società devono essere iscritte all’anagrafe delle ONLUS, presso la Direzione Regionale delle Imprese per avere diritto a particolari vantaggi fiscali (non sono soggette a tassazione).
- mutualistiche: comprendono cooperative, società di mutua assicurazione e consorzi di cooperative. La cooperative hanno uno scopo principalmente mutualistico che consiste nel fornire beni o servizi o lavoro direttamente ai soci, in modo più vantaggioso rispetto alle condizioni del mercato. Lo scopo mutualistico assicura la limitata distribuzione degli utili tra i soci e la devoluzione a scopi di utilità pubblica del patrimonio sociale, in caso dello scioglimento della società. Oltre ai soci ordinari è possibile che ci siano dei soci sovventori che investono nella cooperativa al fine di ottenere un interesse sul capitale investito. Le attività che possono essere svolte in forma cooperativistica comprendono: consumo, produzione, lavoro agricolo, edilizia, trasporti, pesca, economia sociale. Le società di mutua assicurazione sono cooperative che si occupano di attività assicurativa (ramo vita e ramo danni), sono a responsabilità limitata e il capitale sociale è costituito dai contributi versati dai soci, che servono anche come premi assicurativi.
- L’azienda speciale viene definita dall’art. 114 del Testo Unico come “ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale”. I connotati caratteristici di tale modello gestionale sono la strumentalità, la personalità giuridica e l’autonomia imprenditoriale.
La qualificazione dell’azienda speciale quale ente strumentale dell’ente locale rivela l’esistenza di un collegamento inscindibile tra l’azienda e l’ente locale. “Strumentalità” sta a significare che l’ente locale, attraverso l’azienda, realizza una forma diretta di gestione del servizio, in quanto essa, seppur dotata di personalità giuridica propria ed essendo, dunque, soggetto diverso dall’ente locale medesimo, che si esprime sia nel momento genetico (istituzione ed approvazione dello statuto dell’azienda da parte dell’ente), sia anche durante il suo funzionamento (approvazione degli atti fondamentali, nomina degli organi).
L’ente locale, dunque, si serve dell’azienda speciale per la gestione di un servizio pubblico e, quindi, per soddisfare un’esigenza della collettività in quest’ottica spetta esclusivamente ad esso la fase “politica” della determinazione degli obiettivi e della vigilanza sul perseguimento e raggiungimento di questi. L’attribuzione della personalità giuridica, che costituisce il secondo elemento caratterizzante il modello aziendale, rende quest’ultima un soggetto a sé stante: essa dunque non appare più come un organo dell’ente locale a legittimazione separata, come era l’azienda municipalizzata prevista dal T.U. n. 2578/25. L’attribuzione dell’autonomia imprenditoriale costituisce il terzo elemento caratteristico del modello aziendale. Con essa il legislatore ha voluto evidenziare che l’azienda non deve essere vista come un organo di esecuzione delle determinazioni dell’ente locale, ma come un’impresa alla quale si applica, salvo eccezioni, la disciplina del codice civile.
L’art. 114 del T.U.E.L. dopo aver definito l’azienda speciale come “ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale”, stabilisce che essa deve avere un proprio statuto, ma che questo deve essere “approvato dal consiglio comunale o Provinciale”; lo statuto ed i regolamenti disciplinano, nell’ambito della legge, l’ordinamento ed il funzionamento dell’azienda.La gestione dell’azienda deve essere improntata a criteri di efficacia, efficienza ed economicità. Sussiste altresì l’obbligo di perseguire il pareggio del bilancio attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi. Per di più l’art. 114 stabilisce che l’ente locale conferisce il capitale di dotazione; determina le finalità e gli indirizzi; approva gli atti fondamentali; esercita la vigilanza; verifica i risultati della gestione; provvede alla copertura dei costi sociali. Atti fondamentali – come tali soggetti all’approvazione dell’ente locale – devono essere considerati, ai sensi dell’art. 114:
- il piano programma comprendente un contratto di servizio che disciplini i rapporti tra l’ente locale e l’azienda speciale;
- i bilanci economici di previsione pluriennale ed annuale;
- il conto consuntivo;
- il bilancio di esercizio.
In generale, alla luce delle previsioni legislative, si comprende come l’autonomia imprenditoriale dell’azienda sia limitata non solo dalle peculiarità proprie dell’attività che essa svolge (servizio pubblico), ma anche dall’ingerenza dell’ente locale nella formazione dello statuto, mediante il quale è regolato il funzionamento dell’azienda. Organi della azienda speciale sono il Consiglio di amministrazione, il Presidente ed il Direttore.
Quale che sia la “veste” ed il “fine” specifico di ogni categoria di azienda, qualora assuma contenuto imprenditoriale si ritiene che comunque non possa prescindere dall’affrontare positivamente il tema della responsabilità sociale d’impresa.
Classificazione in relazione al soggetto giuridico[11]
Si distinguono due tipi di soggetti giuridici:
- l’imprenditore con la sua impresa individuale, in cui soggetto economico e soggetto giuridico coincidono;
- le società in cui due o più persone svolgono un’attività economica (e i due soggetti sono distinti). Alla base della società c’è sempre un contratto che sancisce:
- l’accordo tra due o più persone (fisiche o giuridiche) dette soci
- il conferimento di beni nella società da parte dei soci.
A queste classi corrispondono diverse definizioni di società:
- si ha l’impresa individuale quando il soggetto giuridico è una persona fisica che risponde coi propri beni delle eventuali mancanze aziendali. Tale impresa non gode quindi di autonomia patrimoniale: se viene dichiarata fallita, anche il suo imprenditore è fallito. Per quanto riguarda l’imposizione fiscale, il reddito dell’impresa è soggetto a IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) e IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche). Esistono inoltre delle semplificazioni relative alla contabilità che l’Amministrazione Finanziaria concede: la contabilità semplificata (che consiste nei soli libri IVA). Sono concettualmente simili all’impresa individuale quella familiare e quella coniugale (formata solo da marito e moglie).
- la società di persone[12] è caratterizzata da una autonomia patrimoniale imperfetta, in cui cioè il patrimonio della società non è perfettamente distinto da quello dei soci, per cui i creditori possono rivalersi (se il patrimonio societario è insufficiente) anche sui beni del socio (solitamente non vale il viceversa). Si può avere una società semplice nel caso in cui non sia necessario svolgere una attività commerciale, ma si abbia la necessità di gestire una attività (agricola o professionale, come ad esempio uno studio associato); una società in nome collettivo in cui tutti i soci sono responsabili in egual parte e con tutto il loro patrimonio delle obbligazioni della società o una società in accomandita semplice in cui i soci accomandatari rispondono, come nella Società in nome collettivo ed i soci accomandanti rispondono invece limitatamente al capitale conferito. In tutti e tre i casi non si ha l’obbligo di versare un capitale sociale minimo, ma è necessario avere un atto costitutivo e redigere un bilancio d’esercizio (che può non essere depositato al Registro delle Imprese).
- le società di capitalisono dei soggetti giuridici totalmente autonomi che godono di autonomia patrimoniale perfetta (il loro patrimonio è distinto da quello dei soci). Le forme riconosciute dal diritto italiano sono: società a responsabilità limitata, società per azioni e società in accomandita per azioni. Nelle ultime, il socio accomandatario (amministratore) risponde illimitatamente col suo patrimonio delle obbligazioni sociali se il patrimonio della società non è sufficiente. Le società di capitali hanno l’obbligo di versare un capitale sociale minimo e di approvare il bilancio annuale che va depositato presso il Registro delle Imprese.
- tra le altre forme possibili si trovano le associazioni temporanee d’impresa, i consorzi e il GEIÈ’ (Gruppo Europeo di Interesse Economico).
È bene precisare che, secondo la Cassazione[13], la contitolarità di un’azienda commerciale non comporta che, per ciò stesso, i contitolari assumano la qualità di soci di fatto; è pertanto possibile che, in presenza di una pluralità di contitolari d`azienda, solo uno o alcuni di essi assumano l’effettiva gestione dell`attività commerciale e la correlativa veste imprenditoriale, mentre gli altri ne restino estranei, limitandosi a conservare il diritto dominicale pro quota sui beni aziendali e percependo un canone a titolo di affitto per la facoltà concessa ai comproprietari di utilizzare nell`impresa anche tale quota di beni.
Classificazione in relazione alla dimensione
Questo tipo di suddivisione necessita di un discorso particolare. Infatti, mentre è pressoché immediato stabilire quali possono essere le classi, non è così semplice trovare un criterio uniforme di assegnazione.
Le tre classi sono:
- piccola
- media
- grande
Tra i molteplici criteri si può citare:
- fatturato (che ha un senso solo confrontando società appartenenti allo stesso settore)
- numero di dipendenti
- valore aggiunto
Con il Regolamento CE n. 364/2004 del 25 febbraio 2004, la definizione per le Piccole e Medie Imprese (PMI) è stata aggiornata alle seguenti caratteristiche:
microimpresa
a) meno di 10 occupati e,
b) un fatturato annuo (corrispondente alla voce A.1 del conto economico redatto secondo la vigente norma del codice civile) oppure, un totale di bilancio annuo (corrispondente al totale dell’attivo patrimoniale) non superiore a 2 milioni di euro;
piccola impresa
a) meno di 50 occupati e,
b) un fatturato annuo, oppure, un totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro;
media impresa
a) meno di 250 occupati e,
b) un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro
C) Natura giuridica
Teoria della c.d. concezione atomistica dell’azienda
Si può ritenere che l’organizzazione dei singoli beni componenti l’azienda abbia una rilevanza meramente economica, e non sia rilevante per il diritto: di tal che l’azienda non costituirebbe un oggetto di diritto autonomo, diverso e distinto dai singoli beni che lo costituiscono, ma oggetto di diritti sarebbero solo i singoli beni isolatamente considerati.
? A sostegno: si è fatto rilevare che i singoli elementi dell’azienda possono essere oggetto di autonomi rapporti giuridici; e che lo stesso codice vigente stabilisce che, per i contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda, devono osservarsi le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che la compongono.
I sostenitori di tale teoria ritengono, pertanto, che il complesso aziendale non costituisca un bene autonomo né, di conseguenza, che sia configurabile alcun diritto sullo stesso distinto da quelli che l’imprenditore ha su ciascuno dei beni che ne fanno parte.
L’argomento principale sul quale si fonda tale teoria è dato dal disposto dell’art. 2556 c.c., che prevede che il trasferimento dei beni che fanno parte del complesso aziendale deve avvenire secondo quanto previsto, in via generale, dalla legge per il trasferimento di ciascuno di essi; in sostanza, poiché manca una legge di circolazione unitaria dell’azienda, i sostenitori di tale teoria ritengono di non poter considerare il complesso dei beni costituenti l’azienda come un bene autonomo.
Deve anche registrarsi, negli anni più recenti, un drastico ridimensionamento da parte della dottrina del rilievo normativo dell’adesione all’una o all’altra teoria: in ogni caso, si tende a privilegiare l’interpretazione che consente di preservare l’unità funzionale dell’azienda
Teoria della c.d. concezione organica dell’azienda
Si può ritenere invece che l’unità dell’azienda non sia unicamente economica, ma che l’azienda venga considerata anche dal diritto come autonomo oggetto di diritti.
? A sostegno: si osserva che la disciplina dell’usufrutto e dell’affitto dell’azienda non può non adeguatamente spiegarsi se non sul presupposto di una considerazione unitaria del complesso aziendale.
Chi sostiene la concezione che descrive il fenomeno “azienda” come una universitas porta a sostegno della propria argomentazione:
1. la lettera dell’art. 2555 c.c. che definisce l’azienda come un complesso di beni;
2. il disposto dell’art. 2556 c.c. che richiama una nozione unitaria di azienda quando fa riferimento a contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento, ed infine
3. la disposizione dell’art. 670, comma 1, c.p.c. nella quale si accomuna il sequestro giudiziario di aziende a quello di altre universalità di beni.
Nell’ambito della nozione di azienda come universitas, possono essere rilevate poi diverse ricostruzioni dottrinali, a seconda che si individui l’azienda come universalità di fatto (c.d. universitas rerum o facti) o universalità di diritto (c.d. universitas iuris).
Secondo la Suprema Corte[14], l’azienda consiste in una universitas rerum, comprendente cose materiali ed immateriali, funzionalmente organizzate in un complesso unitario ad un unico fine e, come non si richiede per la sua esistenza che concorrano tutti gli elementi, specie quelli immateriali, così la titolarità dell’azienda può essere disgiunta dalla proprietà dei beni strumentali, destinati al funzionamento di essa, posto che l’azienda appartiene alla categoria degli oggetti di diritto, mentre è l’imprenditore il soggetto che assume l’iniziativa ed il rischio della attività economica produttiva, risolvendosi nel complesso dei beni aziendali all’uopo organizzati.
Deve riconoscersi che nel sistema legislativo vigente ambedue le concezioni hanno la loro portata di vero. Non può negarsi che sotto determinati profili il legislatore ha considerato l’azienda in maniera unitaria, ma non sotto ogni profilo.
Il fatto di considerare l’azienda come un’universitas o meno ha delle notevoli conseguenze a livello pratico: infatti, ritenere l’azienda come un ben autonomo significa riconoscere “l’esistenza di un diritto dell’imprenditore sul complesso in quanto tale, diritto che, non da oggi, accreditata dottrina e la giurisprudenza riconducono alla proprietà (o quanto meno alla categoria dei diritti assoluti”
Il riconoscimento di una configurazione unitaria dell’azienda e di un diritto di proprietà su di essa semplifica l’attività dell’interprete volta ad identificare il complesso di diritti che competono al titolare dell’azienda a difesa del suo bene.
D) La disciplina
La disciplina dell’azienda è, nella sua gran parte, disciplina dedicata alla circolazione dell’azienda: più precisamente ai contratti che hanno per oggetto il trasferimento della sua proprietà (e quindi a tutti i contratti – es., vendita – donazione – idonei a produrre questo particolare effetto) e la costituzione di un diritto reale o personale, di godimento.
1) Il Trasferimento: la forma e la pubblicità dei contratti che realizzano la circolazione
art. 2556 c.c. imprese soggette a registrazione: per le imprese soggette a registrazione (c.c.2195, 2200) i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà (c.c.2565, 2573) o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto (c.c.2725), salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda (c.c.1350) o per la particolare natura del contratto (c.c.162, 782).
I contratti di cui al primo comma, in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel registro delle imprese, nel termine di trenta giorni, a cura del notaio rogante o autenticante.
Dunque, la forma scritta, non è richiesta per la validità del contratto, ma è richiesta tuttavia per i più limitati fini della prova[15] e dell’iscrizione nel registro delle imprese.
Per la giurisprudenza di Cassazione[16] in ipotesi di trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda non accompagnato da pubblicità formale (nel caso in cui essa sia legislativamente imposta) o comunque “di fatto”, idonea a rendere noto al pubblico l’avvenuto trasferimento, l’imprenditore cedente è, in forza del principio dell’apparenza del diritto, responsabile per le obbligazioni assunte dal cessionario ed è, quindi, passivamente legittimato nella controversia promossa, in relazione a quelle obbligazioni, dal terzo in buona fede, il quale, ignaro della cessione, abbia ragionevolmente ritenuto di aver trattato con il cedente stesso o con persona munita del potere di rappresentarlo. La ricorrenza in concreto dei presupposti per l’applicazione del suddetto principio dell’apparenza del diritto (uno stato di fatto non corrispondente allo stato di diritto; il convincimento dei terzi – derivante da errore scusabile e, come tale, immune da colpa – che lo stato di fatto rispecchi la realtà giuridica sì da indurli a regolare la loro condotta nella sfera del diritto, facendo affidamento su una situazione giuridica non vera ma apparente) costituisce valutazione di merito, incensurabile in cassazione se immune da vizi logici e giuridici.
Inoltre è bene precisare che, sempre per la medesima Corte[17], a norma dell’art. 2556 cod. civ., è da escludere che per il trasferimento di un’azienda mobiliare sia richiesta la prova scritta a pena di nullità; non è inoltre necessaria per il combinato disposto degli artt. 2556, 2202, 2083 cod. civ., la prova scritta nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di un’azienda di piccolo commercio, non essendo la stessa soggetta a registrazione.
Ancora, che la risoluzione per mutuo consenso di un contratto per il quale la forma scritta non sia richiesta ad substantiam, ma solo ad probationem, come nel caso di contratto di affitto di azienda, può risultare anche da un comportamento tacito concludente[18].
Tale complesso di beni (rectius l’azienda), pertanto, può essere oggetto di vicende traslative, che trovano la loro disciplina negli artt. 2556 e ss. c.c.
Si tratta di regole che
1) da un lato non pongono eccessivi vincoli di carattere formale alla esecuzione dell’operazione tra le parti, e assicurano all’acquirente la continuità nella gestione dell’impresa (cfr. artt. 2558 e 2559 c.c.);
2) dall’altro si preoccupano di tutelare in qualche modo i terzi per i quali la vicenda traslativa potrebbe avere riflessi negativi (cfr. art. 2560 nonché art. 2112 c.c.).
I contraenti, proprio in considerazione di alcuni effetti automatici del negozio di cessione previsti dalla legge a tutela dei terzi, potrebbero avere interesse a non rendere palese il trasferimento dell’azienda; può dunque accadere che vengano posti in essere una serie di atti e negozi apparentemente separati, ma di fatto tra loro teleologicamente connessi, e finalizzati a realizzare l’effetto traslativo. In tale ipotesi lo scopo avuto di mira prevale sui meccanismi negoziali utilizzati per conseguirlo: più che di una vicenda simulatoria, deve parlarsi di una serie di atti e negozi indiretti tra loro collegati[19].
È configurabile, poi, la cessione d’azienda anche nel caso in cui il complesso degli elementi trasferiti non esaurisca i beni costituenti l’azienda o il ramo ceduti, qualora gli stessi conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all’esercizio dell’impresa, dovendo comunque trattarsi di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attività d’impresa[20].
Per altra pronuncia[21] ai fini del trasferimento dell’azienda, o di un ramo di essa, è necessario il trasferimento di un complesso di beni di per sé idoneo a consentire l’inizio o la continuazione di una determinata attività d’impresa, requisito configurabile anche quando detto complesso non esaurisca i beni costituenti l’azienda o il ramo ceduti, ma per la sussistenza del quale è indispensabile che i beni oggetto del trasferimento conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all’esercizio dell’impresa.
In una nota sentenza la Suprema Corte[22] ha avuto modo di precisare che ai sensi dell’art. 2555 cod. civ. l’azienda è compiutamente identificata mediante la specificazione del tipo di attività svolta e dei locali nei quali essa è esercitata, trattandosi di indicazioni idonee a comprendere l’insieme degli elementi organizzati in detti locali e destinati allo svolgimento dell’attività dell’impresa, mentre la analitica individuazione di detti beni rileva al solo scopo di prevenire eventuali contestazioni in ordine alla riconducibilità degli stessi alla azienda; pertanto, deve ritenersi correttamente pronunciata dal giudice di merito, ex art. 1497 cod. civ., la risoluzione del contratto per mancanza delle qualità promesse ed essenziali per l’uso a cui la cosa è destinata, qualora l’azienda, trasferita ai sensi dell’art. 2556 cod. civ., sia risultata priva di un elemento essenziale per l’esercizio dell’attività commerciale dedotta in contratto anche se esso non sia stato menzionato tra i beni aziendali.
È bene anche segnalare che per la Corte di Piazza Cavour[23], l’acquisto da parte di un terzo di una quota ideale dell’azienda, già gestita, a scopo di profitto, dall’originario imprenditore individuale, determina fra le parti, in difetto di espressa pattuizione contraria, l’insorgere non già della comunione di godimento[24] di cui l’art. 2248 cod. civ. – la quale non è configurabile nel caso in cui l’oggetto di comune utilizzazione sia costituito non dai vari beni che costituiscono l’azienda, ma da questa stessa, secondo la sua strumentale destinazione all’esercizio dell’impresa – bensì di una società di fatto, col corollario che la successiva alienazione della quota è suscettibile di dimostrazione anche attraverso la prova testimoniale, in applicazione delle norme che disciplinano la società irregolare e con esclusione dell’applicabilità dell’art. 2556 cod. civ. che impone la prova scritta per il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda.
Per quanto riguarda, invece, il contratto preliminare[25] di compravendita di un’azienda recante la espressa previsione di immediato impegno del cedente al pagamento di ogni debito dell’azienda, la indicazione in ordine alla intervenuta corresponsione di una parte rilevate del complessivo prezzo pattuito e la tendenziale esaustività delle pattuizioni, prescindendo dalla denominazione utilizzata dalle parti, deve intendersi alla stregua di un contratto definitivo[26], pur qualora, come nella specie, denominato contratto preliminare e recante la previsione della stipulazione dell’atto notarile in un tempo successivo.
Tale ultima previsione, in particolare, deve in ipotesi siffatte intendersi quale prevista riproduzione del contratto, già di compravendita definitiva, nelle forme necessarie per la efficacia di esso nei confronti dei terzi, ex art. 2556 c.c.
In merito, infine, al prezzo secondo altra pronuncia[27] una volta provato che, nella stipula di un contratto di cessione d’azienda, le parti abbiano liberamente pattuito il prezzo dell’avviamento e il venditore non abbia garantito che tale valore corrispondesse effettivamente alla realtà, deve essere rigettata la domanda di risarcimento danni avanzata dal cessionario, il quale, al momento della presa in possesso dell’azienda abbia riscontrato un valore di avviamento inferiore a quello determinato nel contratto.
2) La concorrenza
[28]
Obbligo di non concorrenza come effetto naturale del contratto (come effetto, cioè, discende per legge dal contratto, ma che le parti sono libere di eliminare senza snaturare il contratto).
Invece, è nullo, in quanto contrastante con l’ordine pubblico costituzionale (artt. 4 e 35 ), il patto di non concorrenza diretto, non già a limitare l’iniziativa economica privata altrui, ma a precludere in assoluto ad una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento[29].
art. 2557 c.c. divieto di concorrenza: chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta (c.c.2125, 2596).
Il patto di astenersi dalla concorrenza in limiti più ampi di quelli previsti dal comma precedente è valido, purché non impedisca ogni attività professionale dell’alienante. Esso non può eccedere la durata di cinque anni dal trasferimento.
Se nel patto è indicata una durata maggiore o la durata non e stabilita, il divieto di concorrenza vale per il periodo di cinque anni dal trasferimento.
Nel caso di usufrutto o di affitto dell’azienda il divieto di concorrenza disposto dal primo comma vale nei confronti del proprietario o del locatore per la durata dell’usufrutto o dell’affitto.
Le disposizioni di questo articolo si applicano alle aziende agricole solo per le attività ad esse connesse (2135), quando rispetto a queste sia possibile uno sviamento di clientela.
Per il tribunale Etneo[30] il divieto di concorrenza mira,
1) da un lato, a far sì che l’acquirente possa gestire l’azienda ceduta senza subire la concorrenza del cedente per un certo periodo di tempo, in guisa da consolidare la nuova gestione e fidelizzare alla stessa il pregresso connesso avviamento e,
2) dall’altro lato, ad impedire che l’alienante, con un comportamento contrario a buona fede, vanifichi la ragione economica del trasferimento d’azienda, sminuendone il valore in relazione alla sua attitudine a produrre profitto.
Il divieto quinquennale di concorrenza stabilito dalla norma di cui all’art. 2557 cod. civ. per l’ipotesi di alienazione di azienda non riveste carattere di specialità o eccezionalità[31], poiché il legislatore, con la norma in parola, non ha inteso sancire una espressa deroga al generale principio della libera concorrenza, ma disciplinare nel modo più congruo la portata di quegli stessi effetti esplicitati dalle parti (o da presumersi connaturati) con il negozio di cessione posto in essere. Non è, pertanto, esclusa l’applicabilità della norma “de qua” alla ipotesi di cessione (non dell’intera azienda ma) di sole quote sociali, sempre che, in sede di accertamento giurisdizionale, emerga, dal complesso delle circostanze di fatto oltreché dal contenuto dello stesso negozio di cessione, la funzione concreta e non equivoca di effettiva sostituzione di un soggetto ad un altro nella conduzione della struttura aziendale.
Il contratto di cessione di azienda oltre a produrre il trasferimento di questa comporta anche per il cedente l’assunzione dell’ulteriore obbligazione di non tenere in concreto comportamenti che vanifichino la ragione pratica della operata cessione, la cui durata va oltre il momento del trasferimento protraendosi per il tempo previsto dall’art. 2557 cod. civ.
L’illecito consistente nella violazione di tale obbligo ha natura contrattuale[32], attiene alla causa del contratto e quindi al suo esatto adempimento, ed incide su diritti di natura dispositiva e transigibile, onde la controversia relativa alla suddetta violazione ben può essere deferita ad arbitri.
La violazione del divieto posto dall’articolo 2557 del c.c. può essere posta in essere non solo con l’inizio di una attività in proprio, ma anche con l’esercizio a mezzo di prestanome o per conto altrui[33].
Inoltre[34] il divieto è estensibile ad ogni caso in cui si verifichi sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda ed è quindi applicabile anche in caso di cessione dell’azienda a seguito di fallimento.
Principio già espresso in altra pronuncia[35] secondo la quale le disposizioni dell’art. 2557 c.c. trovano applicazione non soltanto con riguardo alle ipotesi di alienazione, intesa in senso tecnico, ma anche a tutte le altre ove si avveri la sostituzione di un imprenditore all’altro nell’esercizio dell’impresa, come conseguenza diretta della volontà delle parti o di un fatto da esse espressamente previsto e, pertanto, anche in favore del proprietario di un’azienda nel caso che l’abbia data in affitto allorché l’azienda gli sia stata ritrasferita dall’affittuario per scadenza del termine finale o per altra causa negozialmente prevista.
Mentre secondo altra decisione[36], mancando il presupposto della totale estraneità dell’acquirente rispetto alla nuova impresa dell’alienante, l’art. 2557 cod. civ. sul divieto di concorrenza non è applicabile per l’inesistenza del rapporto concorrenziale tra l’impresa del cessionario e quella del cedente. L’obbligo di non concorrenza per l’alienante dell’azienda ex art. 2557 cod. civ. non è violato quando cedente e cessionario costituiscono una società per l’esercizio in comune dell’impresa, con il conferimento dell’azienda concorrente. Il fatto che il cedente, rilevando l’esercizio commerciale di un terzo, abbia ripreso in proprio un’attività d’impresa nello stesso settore, è elemento idoneo ad incidere negativamente sull’avviamento dell’impresa del cessionario, causando un danno economico apprezzabile. Incompleto a parere di chi scrive risulta essere un provvedimento, datato, della S.C. secondo la quale il divieto di concorrenza posto a carico di chi aliena l’azienda dall’art. 2557 cod. civ. si riferisce all’inizio, dopo il trasferimento dell’azienda, di nuove attività idonee a sviare la clientela della stessa e, pertanto, non opera per le attività dell’alienante preesistenti a tale trasferimento.
Bisogna pertanto capire quali siano queste attività preesistenti, logicamente:
1) Attività aventi oggetto completamente diverso;
2) Attività che non abbiano comunque beneficiato dell’esercizio commerciale successivamente “lasciato”.
Caso particolare è stato affrontato dal tribunale Torinese[37] ovvero lo storno di dipendenti che – pur non costituendo di per sé atto di concorrenza sleale – sconfina nella illiceità quando venga attuato con l’intenzione di danneggiare l’azienda del concorrente in misura superiore al pregiudizio che deriva normalmente ad un datore di lavoro dalla perdita di un dipendente; questo animus nocendi si può desumere ogni qual volta lo storno sia realizzato con modalità abnormi per numero e/o qualità dei prestatori d’opera stornati. Al fine della configurabilità della concorrenza sleale per storno dei dipendenti è necessaria la sottrazione all’imprenditore concorrente di elementi, se non indispensabili, quanto meno utili al buon andamento dell’impresa ed in numero tale da provocarne un certo dissesto organizzativo, con il deliberato proposito di trarne un vantaggio concorrenziale. Il reclutamento di personale dipendente dell’imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà ogni volta che venga attuato con modalità abnormi (per numero e/o qualità dei prestatori d’opera distolti e assunti), sì da supertare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo, che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito. L’idoneità a produrre effetti lesivi dell’attività del concorrente deve essere valutata a priori e in astratto sotto i profili sia quantitativo (numero dei dipendenti stornati), sia qualitativo (importanza dei ruoli occupati nell’impresa dai medesimi).
Secondo, altro arresto giurisprudenziale,
Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 25 marzo 2015, n. 6020
ad esempio in un contratto di affitto di azienda avente oggetto «l’attività di acquisto e vendita al minuto di generi alimentari», l’apertura di un altro supermercato a 200 metri, con conseguente perdita di fatturato, integra la rottura del patto di non concorrenza, siglato tra le parti, e dà diritto al risarcimento del danno oltreché alla risoluzione del rapporto
Infine[38], poiché, secondo quanto risulta dal disposto dell’art. 2557 primo comma cod. civ., la violazione del divieto di concorrenza non richiede un danno effettivo o una effettiva concorrenza, essendo sufficiente un danno potenziale per conseguire la risoluzione del contratto o l’inibitoria, l’accertamento di tale violazione non è correlato necessariamente alla verificazione concreta del danno, il quale, comunque, se accertato, dà luogo alla condanna al risarcimento dell’autore di esso.
3) La sorte dei crediti, dei debiti e dei contratti relativi all’azienda ceduta
art. 2558 c.c. successione nei contratti: se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale (c.c.2112, 2610).
Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante.
Le stesse disposizioni si applicano anche nei confronti dell’usufruttuario e dell’affittuario per la durata dell’usufrutto e dell’affitto.
Secondo parte della dottrina[39] la disposizione ex art. 2558 tutela, evidentemente, l’interesse dell’acquirente dell’azienda a subentrare in tali contratti, introducendo significative deroghe alla disciplina generale della cessione dei contratti[40] di cui agli artt. 1406 e ss, c.c., sia con riguardo al rapporto tra alienante ed acquirente dell’azienda, sia con riguardo alla posizione dei terzi contraenti.
Difatti per la Cassazione[41] la successione nei contratti prevista dall’art. 2558 cod. civ., nel caso di cessione di azienda, è istituito diverso dalla cessione del contratto di cui agli artt. 1406 ss. cod. civ., in quanto può intervenire in qualsiasi fase del rapporto contrattuale, purché non del tutto esaurito, e quindi anche nella fase contenziosa, inerente ad una domanda di esatto adempimento, di garanzia per vizi o di risoluzione per inadempimento, con la conseguenza che il cessionario dell’azienda assume la posizione di successore e titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi ed agli effetti dell’art. 111 cod. proc. civ.
art 1406 c.c. nozione : ciascuna parte (cedente) può sostituire a sé un terzo (cessionario) nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta (ceduto).
Consenso Preventivo: il consenso può essere manifestato dal contraente ceduto anche prima della cessione mediante apposita clausola inserita nel contratto
art 1407 c.c. forma : se una parte ha consentito preventivamente che l’altra sostituisca a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto la sostituzione è efficace nei sui confronti dal momento in cui le è stata notificata o in cui essa l’ha accettata.
Orbene per la Corte di Piazza Cavour[42] nel caso di trasferimento di azienda la regola di cui all’art. 2558 cod. civ. dell’automatico subentro del cessionario in tutti i rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive non aventi carattere personale si applica soltanto ai cosiddetti “contratti di azienda” (aventi ad oggetto il godimento di beni aziendali non appartenenti all’imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento della attività imprenditoriale) e ai cosiddetti “contratti di impresa” (non aventi ad oggetto diretto beni aziendali, ma attinenti alla organizzazione dell’impresa stessa, come i contratti di somministrazione con i fornitori, i contratti di assicurazione, i contratti di appalto e simili), sempreché non siano soggetti a specifica diversa disciplina, come i contratti di lavoro, di consorzio e di edizione, rispettivamente regolati dagli artt. 2112 cod. civ., 2610 cod. civ. e 132 della legge 22 aprile 1941, n. 633.
L’art. 2558 cod. civ., nel disciplinare, in via generale, le vicende dei contratti in corso, stabilisce che, in assenza di diversa pattuizione, l’acquirente subentri nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale. Ne consegue che, per derogare alla regola generale stabilita dalla norma codicistica ed evitare il conseguente subingresso dell’acquirente nei rapporti negoziali del cedente, occorre provare il “carattere personale” del rapporto stesso, ovvero l’esistenza del “patto contrario“[43].
Riguardo alla ratio di tali limiti alla successione è opinione prevalente[44] che la disposizione in esame sarebbe posta a salvaguardia solo dell’interesse del terzo contraente a non vedere mutare la propria controparte contrattuale in ipotesi di contratti nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore sono risultate determinanti per la formazione del suo consenso alla conclusione del contratto.
Inoltre è monolitica la dottrina nel ritenere che la categoria dei contratti personali non comprende tutti i contratti nei quali, genericamente, rileva la persona di uno dei contraenti, quali il mandato, la commissione, l’agenzia e l’appalto (come si avrà modo dopo di affrontarli singolarmente).
In altri termini, essa non potrebbe farsi coincidere con quella dei contratti comunemente definiti intuitu personae: rispetto a tale categoria quella dei contratti personali costituisce piuttosto una species, nel senso che sono personali solo quelli, tra i contratti intuitu personae, nei quali è particolarmente accentuato il rilievo dell’identità e delle qualità personali dell’imprenditore.
L’art. 2558 rende efficace la cessione nei confronti del contraente ceduto indipendentemente dal di lui consenso.
Tuttavia, considerato il carattere derogabile della disposizione di cui all’art. 2558, comma I, è salva la possibilità per l’acquirente di tutelarsi mediante un’espressa pattuizione scritta, contro il pericolo di succedere in contratti di cui ignori l’esistenza.
Possibilità individuata anche dalla giurisprudenza di legittimità[45] secondo la quale nell’ipotesi di trasferimento di azienda, l’acquirente subentra nei contratti di agenzia stipulati dall’alienante per l’esercizio della azienda, ai sensi dell’art. 2558 cod. civ., solo se fra le parti del contratto di cessione non siano intervenuti patti diversi.
Si può prevedere ad esempio[46];
1) l’esclusione del trasferimento dei contratti aziendali in corso che non siano stati comunicati all’acquirente durante le trattative per la cessione;
2) un patto che, ribaltando il regime legale dell’art. 2558, prevede il trasferimento al cessionario di azienda solo dei contratti appartenenti ai tipi specificamente indicati in atto;
3) una clausola con la quale si sottopone la successione di tutti i contratti all’approvazione formale dell’acquirente entro un certo termine dalla stipula della cessione, procedendo alla formale approvazione in atto dei contratti più rilevanti per la gestione aziendale, in modo da non paralizzare l’attività di impresa durante lo spazio di tempo concesso all’acquirente per decidere sulla sorte dei diversi contratti.
Comunque, considerata la possibilità astratta per l’acquirente di tutelarsi giudizialmente contro il pericolo di successione indesiderata in contratti aziendali, particolarmente onerosi e di cui egli ignorava l’esistenza al momento della stipulazione del contratto di cessione, è possibile che l’acquirente si tuteli contro tale pericolo attraverso l’inserimento nel contratto di cessione, oltre che di clausole che incidono direttamente sulla cessione nei contratti anche mediante la previsione di rimedi di carattere obbligatorio (clausola penale, accollo interno).
Per la stessa S.C.[47], poi, ai sensi dell’art. 2558 cod. civ. si verifica il subentro ipso iure del cessionario d’azienda anche nella clausola compromissoria contenuta in contratto stipulato dal cedente per l’esercizio dell’azienda, senza che sia necessario un apposito patto di cessione e senza che sia pertanto richiesta la forma scritta ad substantiam.
Secondo l’assetto normativo risultante dall’articolo in esame, il contemperamento tra l’interesse del cessionario dell’azienda (e dei soggetti a lui equiparati) alla successione nei contratti attinenti all’esercizio dell’azienda e gli interessi dei terzi contraenti avviene attraverso l’attribuzione a questi di un diritto di recesso per giusta causa, da un lato, limitato nel tempo e decorrente dalla “notizia del trasferimento”, dall’altro, con la previsione di una responsabilità dell’alienante (e dei soggetti a lui equiparati) che deve ritenersi riferita ai suoi rapporti con i contraenti ceduti e inerente alla compromissione del loro diritto alla regolare esecuzione dei contratti, in conseguenza della cessione dell’azienda a un soggetto inidoneo a garantirla: ne segue – pertanto – che l’acquirente dell’azienda e l’alienante (nonché i soggetti a essi equiparati) – a prescindere dalla pubblicità – notizia, riguardo agli atti di cessione della proprietà o del godimento dell’azienda, prevista per le imprese soggette a registrazione dall’articolo 2556 del c.c. – hanno, in base a tale assetto normativo, l’onere di dare comunicazione dell’avvenuta cessione ai terzi contraenti, ma al solo fine di dare inizio al decorso del termine di tre mesi per il loro eventuale recesso restando, in difetto, l’acquirente permanentemente esposto al recesso e l’alienante alla suddetta responsabilità[48].
In caso di trasferimento d’azienda sussiste l’ulteriore responsabilità dell’acquirente dell’azienda per l’inadempimento dei relativi contratti, a prescindere dalla riscontrabilità delle relative poste passive nelle scritture contabili[49].
È opportuno precisare che il cedente risponde del buon fine di tali contratti soltanto nei confronti del cessionario, ai sensi dell’art. 2558, secondo comma, cod.civ., e non anche nei confronti del contraente ceduto, al quale la legge accorda quale unica forma di tutela il diritto di recesso. Il cessionario d’azienda, infatti, si trova obbligato a subire le eventuali conseguenze economiche pregiudizievoli derivanti dalla caducazione dei rapporti contrattuali già rientranti nel patrimonio dell’azienda e sui quali aveva fatto affidamento, mentre il ceduto non può vantare alcun titolo di responsabilità contrattuale od aquiliana nei confronti del cedente, in ragione, del primo caso, dell’intervenuta novazione soggettiva del negozio e, nel secondo caso, della liceità in sé della cessione[50].
Secondo, poi, una pronuncia datata della S.C.[51] la norma contenuta nell’art. 2558 cod. civ., relativa alla successione nei contratti dell’azienda ceduta, in vista delle esigenze dei traffici e della necessità di secondare la circolazione dei valori economici rappresentati dai contratti già stipulati dall’imprenditore, risponde alla presumibile volontà dei contraenti in ordine al perdurare del vincolo anche nell’ipotesi di trasferimento dell’azienda, quando i contratti non abbiano carattere personale e salva sempre la facoltà di recesso riconosciuta a favore del terzo. Pertanto, tale norma non può trovare applicazione a danno dell’acquirente per i contratti già eseguiti, specie quando si tratti di accertare una responsabilità per inadempimento imputabile esclusivamente al cedente dell’azienda.
Inoltre, dopo un lungo iter la Cassazione[52] è arrivata alla conclusione, si spera definitiva, secondo cui è legittima la sublocazione dell’immobile adibito a uso diverso da abitazione quando venga insieme ceduta (anziché locata) l’azienda, in considerazione sia della formulazione dell’art. 36 legge n. 392/1978, in cui l’affitto o la cessione dell’azienda non sono indicati in posizione di necessaria corrispondenza rispettivamente con le ipotesi della sublocazione o della cessione del contratto di locazione, che della ratio legis, che consiste nell’agevolare il trasferimento delle aziende esercenti la loro attività in immobili condotti in locazione dall’imprenditore e di tutelare l’avviamento commerciale.
In altre parole, pur non volendo essere ripetitivo, con altra sentenza[53], nel caso di affitto di azienda comprendente un immobile goduto in forza di un contratto di locazione, la ricorrenza di una cessione di tale contratto, anziché di una sublocazione, va presunta, fino a prova contraria, alla stregua dei principi fissati dall’art. 2558 cod. civ. e, comunque, è evincibile dalla circostanza che il locatore abbia accettato il pagamento del canone direttamente in suo favore, così aderendo alla costituzione del rapporto con l’affittuario dell’azienda.
In realtà con tali ultime pronunce è stato superato un precedente orientamento[54] il quale, invece, stabiliva che in virtù della disciplina di cui all’art. 36 della legge n. 392 del 1978, in caso di affitto di azienda relativo ad attività svolta in un immobile condotto in locazione non si produceva l’automatica successione nel contratto di locazione dell’immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell’azienda, ma la successione era soltanto eventuale e richiedeva, comunque, la conclusione di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione, contratto quest’ultimo che poteva presumersi fino a prova contraria, alla stregua dei principi di cui all’art. 2558, terzo comma, cod. civ.
Sempre rimanendo in tema è stato precisato con altro provvedimento[55] che la cessione del contratto di locazione contestuale alla cessione dell’azienda come prevista dall’art. 36 della legge n. 392 del 1978 è inquadrabile come un’ipotesi di cessione ex lege che si caratterizza come una disciplina speciale dettata in tema di cessione dei contratti aziendali, configurandosi, per l’effetto, come “sottospecie” della successione contemplata dall’art. 2558 cod. civ., nella quale, pur non essendovi nesso necessario e automatico tra cessione dell’azienda e cessione del contratto di locazione, i due negozi si inseriscono pur sempre in un’operazione economica unitaria, in cui la relazione tra gli stessi è la medesima che lega il generale al particolare.
Infine, sul punto è tornata nuovamente la S.C.
Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 30 ottobre 2014, n. 23087
la quale ha affermato il seguente principio:
nel caso di affitto di azienda, comprendente un immobile goduto in forza di un contratto di locazione, la sostituzione di un terzo nel rapporto giuridico preesistente di locazione non si verifica automaticamente ma come effetto o di un negozio separato fra cedente e cessionario dell’azienda ex art. 36 della legge n. 392/1978 o per effetto della presunzione posta dall’art. 2558 in base alla quale può ritenersi intervenuta, fino a prova contraria, una cessione del contratto di locazione se il locatore abbia accettato, direttamente in suo favore, il pagamento, da parte del cessionario dell’azienda, del canone di locazione.
Dopo ampia attività esegetica la Cassazione ha riproposto i precedenti in materia della stessa Corte, infatti, si legge in sentenza che è potuto riscontrare un diverso orientamento nelle decisioni che hanno ritenuto la presunzione di cessione del contratto di locazione e le decisioni che l’hanno esclusa.
In particolare secondo le pronunce della III sezione civile della Corte n. 4790 del 13 maggio 1998 e n. 2491 del 30 gennaio 2009 nel caso di affitto di azienda comprendente un immobile goduto in forza di un contratto di locazione, la ricorrenza di una cessione di tale contratto, anziché di una sublocazione, va presunta, fino a prova contraria, alla stregua dei principi fissati dall’art. 2558 cod. civ. e, comunque, è evincibile dalla circostanza che il locatore abbia accettato il pagamento del canone direttamente in suo favore, cosi aderendo alla costituzione del rapporto con l’affittuario dell’azienda.
Secondo, invece, le pronunce della II sezione civile della Corte n. 1133 del 2 febbraio 2000, e quelle della III sezione civile nn. 5237 del 3 aprile 2003 e 25219 del 1 dicembre 2009 la successione del cessionario e dell’affittuario dell’azienda nel contratto di locazione dell’immobile, ove viene svolta l’attività aziendale, non è un effetto automatico del trasferimento dell’azienda riconducibile alle disposizioni degli artt. 2558 cod. civ. e 36 della legge n. 392/1978 in quanto le norme suddette consentono, ma non impongono, rispettivamente all’acquirente dell’azienda di subentrare nei contratti stipulati per l’esercizio di essa, sempreché non sia pattuito diversamente, nonché al venditore dell’azienda, quale conduttore dell’immobile in cui la stessa si esercita, di sublocare l’immobile o di cedere il contratto di locazione senza il consenso del locatore e pertanto la successione è soltanto eventuale e richiede comunque la conclusione, tra cedente e cessionario dell’azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione, senza necessità, in tale seconda ipotesi, del consenso del locatore, in deroga all’art. 1594 cod. civ., ma salva comunque la facoltà di quest’ultimo di proporre opposizione per gravi motivi, entro trenta giorni dalla avvenuta comunicazione della cessione del contratto di locazione insieme all’azienda, proveniente dal conduttore.
La pronuncia della III sezione n. 7686 del 21 marzo 2008 sembra ricomporre tale diversità di orientamenti. Infatti secondo la citata sentenza, in caso di affitto di azienda relativo ad attività svolta in un immobile condotto in locazione non si produce l’automatica successione nel contratto di locazione dell’immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell’azienda, ma la successione è soltanto eventuale e richiede, comunque, la conclusione di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione, contratto quest’ultimo che può presumersi fino a prova contraria, alla stregua dei principi di cui all’art. 2558, terzo comma, cod. civ..
La pronuncia testé riportata trova conferma nella più recente sentenza della III sezione civile n. 4986 del 28 febbraio 2013 secondo cui, in ipotesi di cessione del contratto di locazione, ai sensi dell’art. 36 della legge 27 luglio 1978, n. 392, quale effetto di apposito negozio, separato o contestuale alla cessione azienda, o quale automatica conseguenza del principio di cui all’art. 2558 cod. civ., si verifica la sostituzione di un terzo nel rapporto giuridico preesistente fra cedente e ceduto.
Tale interpretazione appare idonea a risolvere l’apparente incompatibilità delle disposizioni di cui all’art. 36 della legge n. 392/1978 e di cui all’art. 2558 c.c. consentendo alle parti del contratto di affitto o cessione di azienda di realizzare, con una negoziazione ad hoc, il subentro nella locazione anche senza il consenso del locatore ma non esclude l’operatività della presunzione di cui all’art. 2558 c.c. salvaguardando però la tutela della effettiva volontà non solo del locatore dell’immobile ma anche del cessionario dell’azienda.
In base a tali ultime pronunce si è affermato il principio riportato.
Ipotesi particolari
Un caso particolare è stato disciplinato in un provvedimento di merito[56] secondo il quale nei contratti di azienda, aventi ad oggetto beni aziendali acquisiti dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, ovvero di contratti di impresa, attinenti all’organizzazione dell’impresa, tra i quali comunemente si annovera anche il contratto di assicurazione. Salvo diversa pattuizione, l’acquirente subentra, pertanto, nella posizione dell’assicurato e l’assicuratore è tenuto a dare esecuzione al contratto pur in mancanza di espressa accettazione del trasferimento, fatto salvo l’esercizio, nei termini di legge, della facoltà di recesso a suo favore prevista. Rilevato quanto innanzi, sussiste, dunque, la legittimazione attiva del cessionario alla chiamata in giudizio dell’assicurazione per il ristoro dei danni, verificatisi in seguito alla cessione, coperti da garanzia assicurativa. Consegue nella specie, la infondatezza della proposta eccezione concernente il difetto di legittimazione attiva dell’attore nei confronti dell’impresa convenuta per avere la medesima stipulato il contratto assicurativo con il cedente.
Altra previsione particolare è stata confermata dalla S.C.[57] secondo la quale il principio sancito dall’art. 2558 cod. civ, vale anche per i contratti bancari, nonostante l’opposizione della banca alla loro cessione; detta opposizione, se esercitata mediante il recesso dall’apertura di credito, neppure comporta l’estinzione del conto corrente di corrispondenza, se non vi si accompagni la chiusura del conto e la cessazione del servizio di cassa.
Ancora in merito a fattispecie in particolare sempre per la stessa Corte[58], relativamente al contratto di agenzia, che non rientra fra i contratti a carattere personale soggetti alla disciplina dell’art. 2112 c.c., il trasferimento dell’azienda preponente comporta, ex art. 2558 c.c., che l’acquirente subentra nel rapporto solo se fra le parti del contratto di cessione non siano intervenuti patti diversi intesi alla novazione dei precedenti contratti.
La cessione d’azienda, che nel rapporto di agenzia è sussumibile nella fattispecie legale di cui all’art. 2558 cod. civ., può integrare una giusta causa di recesso dell’agente dal contratto di agenzia se il cessionario non offre una sufficiente garanzia del regolare adempimento delle obbligazioni derivanti dalla prosecuzione del rapporto di durata – tanto più se relative ad importi già maturati, ma non ancora esigibili, come quelli dell’indennità da corrispondere alla fine del rapporto – e, più in generale, della regolare prosecuzione dell’attività dell’azienda cui è connessa l’attività dell’agente medesimo.
Contratti a carattere personale, ai sensi dell’art. 2558 c.c., sono quelli alla cui conclusione l’alienante dell’azienda si è determinato in base a scelte che oltre alla logica dell’impresa nel cui esercizio sono state assunte risalgono anche a ragioni personali, ovvero a valutazioni di interesse dello stesso alienante, che l’acquirente può non condividere (nella specie la S.C.[59] ha ritenuto trasferito all’acquirente dell’azienda un contratto di fideiussione, stipulato tra l’alienante e un terzo garante, non riscontrando in tale contratto, in base ai principi predetti, il carattere personale ostativo del trasferimento).
In senso più ampio la Cassazione[60] è intervenuta stabilendo che per effetto dell’art. 2558 cod. civ. l’acquirente di azienda subentra non soltanto nei contratti aventi ad oggetto il godimento dei beni aziendali non di proprietà dell’imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento della sua attività, ma anche nei contratti di impresa, aventi ad oggetto rapporti concernenti l’organizzazione di questa, tra i quali rientrano i contratti con i fornitori, di assicurazione, di appalto, di concessione in uso di spazi pubblicitari. Pertanto è necessario che la deroga a detta regola generale emerga dal tenore letterale complessivo del contratto di cessione, da interpretare secondo le regole ermeneutiche della volontà delle parti stabilite dagli artt. 1362 e segg. cod. civ., tra cui il loro comportamento successivo alla conclusione del contratto, che però non può indurre il giudice di merito a desumere una volontà modificativa o innovativa di quella risultante dal contesto dell’atto negoziale.
Ancora per la S.C.[61] la successione dell’imprenditore nei rapporti contrattuali inerenti all’azienda non aventi carattere personale, quale effetto del trasferimento dell’azienda, può trovare applicazione, in virtù di una interpretazione estensiva dell’art. 2558 cod. civ., non solo nelle ipotesi di alienazione, usufrutto e affitto d’azienda, ma anche negli altri casi in cui ricorra la sostituzione di un imprenditore ad un altro nell’esercizio dell’impresa per un fatto voluto dalle parti, o da queste previsto ed in relazione al quale abbiano potuto disporre della sorte dei contratti a prestazioni corrispettive inerenti l’azienda ancora non completamente eseguiti; ne consegue che sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 2558 cod. civ. tutte le ipotesi in cui il trasferimento dell’azienda sia la conseguenza diretta di un fatto non negoziale o sia la conseguenza soltanto mediata di una fattispecie negoziale.
Mentre secondo altra pronuncia[62] il trasferimento di un’azienda non può comportare l’automatico subentro dell’acquirente anche nei rapporti di natura associativa sindacale, poiché i medesimi sono non già attinenti all’azienda trasferita, intesa quale complesso organizzato di beni e servizi produttivi, bensì esclusivamente al soggetto imprenditore. Questi, invero, mantiene la sua individualità giuridica e può normalmente proseguire l’attività economica sia attraverso altre aziende di cui abbia o acquisisca in seguito la disponibilità, sia modificando il proprio oggetto sociale e le proprie strutture. L’intervenuto trasferimento di un ramo d’azienda da parte di un’impressa iscritta ad una determinata associazione, comunque operante anche dopo il trasferimento, non può, pertanto, in alcun caso determinare l’obbligo dell’acquirente, il quale non abbia mai manifestato l’intento di voler subentrare nel rapporto associativo, al pagamento della relativa quota annuale di iscrizione.
Altra deroga per la Corte di Legittimità[63] si ha quando in virtù di donazione di una ditta individuale a due soggetti e di successiva costituzione di una società di persone tra loro, si verifica una duplice cessione di azienda, in quanto i due donatari divengono titolari nello stesso momento di una posizione imprenditoriale derivante dalla comproprietà dell’azienda donata nella sua unità e devono essere considerati soci di fatto della società, poi regolarizzata, secondo il modello legale della società di persone; pertanto, non essendovi discontinuità nella vita aziendale che dalla conduzione individuale passa alla conduzione societaria, prima irregolare e poi legalizzata, ai sensi dell’art. 2560 cod. civ. dei debiti relativi all’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, continua a rispondere l’alienante, salva diversa volontà dei creditori, ma solidalmente risponde anche l’acquirente, ove i debiti risultino dai libri sociali obbligatori, mentre deve escludersi l’applicabilità dell’art. 2558 cod. civ., che si riferisce alla diversa ipotesi di cessione dei contratti aziendali.
Ai fini processuali è bene già sottolineare che essendo il negozio di cessione di azienda non è plurilaterale. Il terzo contraente di cui all’articolo 2558 del c.c. e il terzo creditore di cui all’articolo 2560 del c.c. non sono parti di esso. Deriva da quanto precede, pertanto, che l’accertamento dell’avvenuta conclusione del contratto, invocata dal terzo creditore per ottenere una condanna nei confronti del presunto cessionario, non dà luogo a una situazione di litisconsorzio necessario con il preteso cedente[64].
Crediti relativi all’azienda ceduta
art. 2559 c.c. crediti relativi all’ azienda ceduta: la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione (c.c.1265 e seguente), ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante (disp.di att. al c.c. 100-5).
Le stesse disposizioni si applicano anche nel caso di usufrutto dell’azienda, se esso si estende ai crediti relativi alla medesima.
La cessione dell’azienda, a norma dell’art. 2559 cod. civ., ha carattere unitario ed importa il trasferimento al cessionario, insieme a tutti gli elementi costituenti l’“universitas” e senza necessità di una specifica pattuizione[65] nell’atto di trasferimento, di tutti i crediti inerenti alla gestione dell’azienda ceduta.
L’ostacolo al trasferimento dei crediti può derivare dalla contraria volontà manifestata dalle parti del contratto di cessione, e non dal carattere personale del rapporto, menzionato, invece, dall’art. 2558 cod. civ., che disciplina la sorte dei contratti, mentre l’inerenza del credito alla gestione dell’impresa non è esclusa dalla sua natura extracontrattuale, se il fatto illecito sia stata commesso ai danni dell’azienda[66].
Pertanto il passaggio avviene automaticamente.
Ma secondo un orientamento dottrinale occorre distinguere tra
1) crediti aventi ad oggetto beni funzionali e
2) crediti, prevalentemente monetari, derivanti da rapporti con la clientela.
Secondo questa dottrina[67], i primi, con la cessione dell’azienda, si trasmettono automaticamente, salvo patto contrario; i secondi, invece, richiedono, per essere trasferiti dal cedente al cessionario, un’apposita pattuizione che abbia appunto ad oggetto il loro trasferimento.
Altra dottrina[68] integralista, invece, sostiene la intrasmissibilità automatica dei crediti, per il semplice ragionamento che i diritti di credito non sarebbero elementi costitutivi dell’azienda.
Per la S.C.[69] se, in linea di principio, la cessione dell’azienda importa la cessione dei debiti e dei crediti ad essa inerenti, dagli artt. 2559 e 2560 cod. civ. si desume che è consentito ai contraenti di pattuire che le passività e i crediti dell’azienda siano esclusi dalla cessione, senza peraltro che ciò determini un’alterazione concettuale e giuridica della nozione di azienda.
In particolare, per la sezione Tributaria della S.C.[70], il conferimento di un’azienda individuale in una società di persone o di capitali costituisce una cessione d’azienda, la quale comporta per legge la cessione dei crediti relativi all’esercizio di essa, ivi compresi i crediti d’imposta vantati dal cedente nei confronti dell’erario; nè argomenti contrari possono trarsi dalla circostanza che all’atto del conferimento non fosse stato ancora attuato il registro delle imprese di cui all’art. 2559 cod. civ. Conseguentemente, per effetto della cessione, il cedente medesimo è privo di legittimazione a domandare all’erario il rimborso dell’IVA pagata in eccedenza.
Debiti relativi all’azienda ceduta
art. 2560 c.c. debiti relativi all’ azienda ceduta: l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito.
Nel trasferimento di un’azienda commerciale (c.c.2195) risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori (c.c.2212 e seguenti).
Questa è una disposizione che deriva da principi generali:
art. 1273 c.c. accollo: se il debitore e un terzo convengono che questi assuma il debito dell’altro, il creditore può aderire alla convenzione, rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore (1411).
L’adesione del creditore importa liberazione del debitore originario solo se ciò costituisce condizione espressa della stipulazione o se il creditore dichiara espressamente di liberarlo.
Se non vi è liberazione del debitore, questi rimane obbligato in solido col terzo.
In ogni caso il terzo è obbligato verso il creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui ha assunto il debito, e può opporre al creditore le eccezioni fondate sul contratto in base al quale l’assunzione è avvenuta (1413).
Come già scritto la cessione dei crediti e debiti aziendali precedenti rispetto all’atto di cessione può essere esclusa dalla contraria volontà delle parti del contratto stesso, senza che tale esclusione impedisca necessariamente il trasferimento d’azienda. Quanto sopra, per ciò che specificamente attiene ai debiti aziendali, con la precisazione che l’esclusione del trasferimento dei debiti vale nei rapporti interni tra cessionario e cedente, stante il disposto dell’art. 2560 c.c. Che stabilisce comunque il vincolo della solidarietà, posto a tutela dei creditori dell’azienda ceduta, nei debiti contratti dal cedente per l’esercizio dell’azienda ceduta e risultanti dai libri contabili obbligatori. D’altra parte, anche nel fenomeno del trasferimento aziendale il debitore effettivo, per i debiti contratti prima del trasferimento d’azienda, resta colui cui il debito è imputabile e cioè il cedente.
La medesima Corte[71] ha precisato che il regime fissato dall’articolo 2560 del c.c. con riferimento ai debiti dell’azienda ceduta è destinato a trovare applicazione quando si tratti di debiti in sé soli considerati e non anche quando, viceversa, essi si ricolleghino a posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a norma del precedente articolo 2558, posizioni, queste, che seguono la sorte del contratto e, quindi, transitano con esso, purché non già del tutto esaurito, anche se in fase contenziosa al tempo della cessione. Una tale regola, inoltre, deve trovare applicazione anche nella fase della restituzione dell’azienda dall’affittuario al locatore, quando il relativo rapporto sia venuto a scadenza o sia stato convenzionalmente risolto.
La questione non ha grande importanza pratica perché è raro che le parti non risolvano, nel contratto di trasferimento, la questione concernente il trapasso dei debiti, sia per includerli sia per escluderli, tanto più che nella valutazione dell’azienda si tiene sempre conto delle passività che v’ineriscono.
A mente di una pronuncia della Suprema Corte[72] la previsione della solidarietà dell’acquirente dell’azienda nella obbligazione relativa al pagamento dei debiti dell’azienda ceduta è posta a tutela dei creditori, e non dell’alienante: sicché, essa non determina alcun trasferimento della posizione debitoria sostanziale, nel senso che il debitore effettivo rimane pur sempre colui cui è imputabile il fatto costitutivo del debito, e cioè il cedente, nei cui confronti può rivalersi in via di regresso l’acquirente che abbia pagato, quale coobligato in solido, un debito pregresso dell’azienda, mentre il cedente che abbia pagato il debito non può rivalersi nei confronti dell’eventuale coobbligato in solido. Pertanto, in caso di fallimento della società cedente, il curatore non è legittimato a promuovere l’azione per la dichiarazione di solidarietà dell’acquirente dell’azienda ceduta dalla società poi fallita nella obbligazione relativa al pagamento dei debiti contratti dalla stessa anteriormente alla cessione, e ciò in quanto detta azione non sarebbe proposta nell’interesse della massa dei creditori, poiché il suo eventuale accoglimento non comporterebbe alcun vantaggio per il fallimento, che sarebbe comunque tenuto ad ammettere al passivo, e pagare nei limiti della massa attiva disponibile, da un lato i creditori dell’azienda, senza potersi rivalere nei confronti dell’acquirente della stessa, e, dall’altro, quest’ultimo, agente in via di regresso in relazione ai debiti dell’azienda stessa eventualmente soddisfatti in quanto acquirente coobbligato in solido.
In dottrina è prevalente l’opinione che, nel silenzio delle parti, nega l’accollo dei debiti da parte dell’acquirente.
In giurisprudenza sembra prevalere l’opposto orientamento.
Inoltre è bene già segnalare che il cessionario risponde dei debiti dell’azienda ceduta, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2560, comma 2, c.c., esclusivamente ove essi risultino dai libri contabili obbligatori.
L’iscrizione nei libri contabili, difatti, si configura come elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente in relazione ai suddetti debiti, senza che essa possa essere surrogata da altre forme di conoscenza della situazione debitoria dell’azienda, eventualmente a disposizione dell’acquirente, atteso che l’art. 2560 c.c. è norma a carattere eccezionale e perciò insuscettibile di interpretazione analogica[73].
Tuttavia, secondo una pronuncia di merito[74], in deroga a tale principio, deve ritenersi che i c.d. “mastrini”, pur non costituendo di per sé scritture contabili, possano essere utilizzati per circoscrivere all’interno del complessivo debito aziendale, esposto nel libro inventario, l’esatta entità del singolo debito verso la banca, di conseguenza, in caso di cessione d’azienda, l’istituto di credito, onerato ex art. 2560, 2° comma, alla dimostrazione dell’effettiva iscrizione del proprio credito nei libri contabili, può, nel solo caso, però, in cui dal libro inventario risulti indicato il generale debito aziendale “per esposizioni bancarie”, utilizzare tali registri per fondare la propria pretesa nei confronti dell’acquirente dell’azienda, responsabile, ai sensi del citato articolo, per i debiti inerenti l’azienda ceduta.
In merito poi per la Corte di Piazza Cavour[75] ulteriore eccezione si ha quando in caso di cessione di azienda, l’art. 2650, secondo comma, cod. civ. – che prevede che dei debiti dell’azienda risponda anche l’acquirente, purché essi risultino dai libri contabili obbligatori – non trova applicazione con riferimento ai debiti tributari, atteso che, data la loro particolare natura, i medesimi non sono equiparabili a quelli di diritto comune. Ne discende che l’acquirente dell’azienda non può sottrarsi alla responsabilità per i debiti inerenti all’azienda ceduta, deducendo che i medesimi non siano stati iscritti nei registri contabili obbligatori.
Infine in virtù di una massima del lontano ’48[76] nella trasmissione unitaria di un’azienda commerciale od industriale, per effetto di disposizioni di ultima volontà contenente istituzione di legato, senza alcuna menzione di passività inerenti all’esercizio dell’azienda stessa, queste non devono ritenersi come automaticamente ed ope legis trasmesse al legatario, in dipendenza della sola avvenuta cessione del complesso aziendale, potendo anche far carico agli eredi, senza che vengano alterate la nozione concettuale di azienda, la sua giuridica configurazione di universitas facti anziché iuris e la sua funzionalità. Per il passaggio di tali passività, nelle cessioni d’azienda per atti fra vivi, è indispensabile apposita pattuizione con adesione dei creditori e nelle cessioni per atti mortis causa, a titolo di legato, è necessaria la volontà del testatore, desumibile dal contenuto della scheda testamentaria e da tutti gli altri elementi del giudizio.
E) Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori
art. 2112 c.c.[77] mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda: in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.
Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sè motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma.
Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento[78]. (2)
Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276[79].
Risulta opportuno accennare brevemente, in quanto sia per pronunce che per teorie dottrinarie la materia meriterebbe una trattazione in altro saggio, la problematica del trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori.
Quando, in conseguenza di una vicenda traslativa (vendita, affitto, comodato, usufrutto), muta il titolare del complesso dei beni aziendali, l’ordinamento appresta una particolare tutela a beneficio dei lavoratori subordinati con una disciplina speciale che, in deroga alle disposizioni del capo I (Dell’azienda) del Titolo VIII del codice civile, si applica ai rapporti contrattuali tra l’azienda ed i propri dipendenti ed ai crediti originati da tali rapporti contrattuali.
Tale tutela si estrinseca nel garantire al lavoratore la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, rafforzando (con la previsione della responsabilità solidale del cedente e del cessionario), la tutela dei crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento dell’azienda.
Quando si intenda effettuare, ai sensi dell’ art. 2112 del codice civile, un trasferimento d’azienda in cui sono occupati più di quindici lavoratori, l’alienante e l’acquirente devono darne comunicazione per iscritto, almeno venticinque giorni prima, alle rispettive rappresentanze sindacali costituite, a norma dell’art. 19 della legge 20/05/1970, n. 300, nelle unità produttive interessate, nonché alle rispettive associazioni di categoria.
In mancanza delle predette rappresentanze aziendali, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La comunicazione alle associazioni di categoria può essere effettuata per il tramite dell’associazione sindacale alla quale aderiscono o conferiscono mandato. L’informazione deve riguardare:
a) i motivi del programmato trasferimento d’azienda;
b) le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori;
c) le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.
Su richiesta scritta delle rappresentanze sindacali aziendali o dei sindacati di categoria, comunicata entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione di cui sopra, l’alienante e l’acquirente sono tenuti ad avviare, entro sette giorni dal ricevimento della predetta richiesta, un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. La consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo.
L’alienante e l’acquirente sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Il lavoratore può consentire la liberazione dell’alienante dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
L’acquirente è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi, previsti dai contratti collettivi anche aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa dell’acquirente. Ferma restando la facoltà dell’alienante di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sè motivo di licenziamento.
Qualora il trasferimento riguardi aziende o unità produttive delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale o imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata nel corso della consultazione sopra trattata, sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’art. 2112 del codice civile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante.
Ai fini della configurabilità del trasferimento di azienda ex art. 2112 cod. civ., è necessario accertare, oltre che i dati effettuali (quali l’eventuale collegamento economico-funzionale fra le imprese e la continuità delle prestazioni di uno o più lavoratori alle dipendenze prima di una determinata impresa e successivamente di un’altra), anche la volontà dei contraenti, dovendosi indagare, in particolare, se i beni ceduti siano stati considerati nella loro autonoma individualità o non piuttosto nella loro funzione unitaria e strumentale[80].
I lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’ art. 2112 del codice civile.
In caso di trasferimento di azienda il rapporto di lavoro prosegue senza soluzione di continuità con il cessionario. Il trasferimento d’azienda può quindi configurarsi come successione legale nel contratto. Pertanto, differentemente da quanto accadrebbe in caso di cessione del contratto, gli effetti del passaggio si producono automaticamente, senza necessità di consenso da parte del lavoratore.
Tale automatismo opera a condizione che il rapporto di lavoro, all’atto del trasferimento, sia in corso con il cedente. Non vi sarà pertanto prosecuzione automatica per i rapporti di lavoro che alla data del trasferimento siano già terminati, ovvero legittimamente risolti.
Per la Cassazione[81] ai fini dell’applicabilità dell’art. 2112 cod. civ., cioè del trasferimento d’azienda deve essere nettamente distinta da quella della successione meramente cronologica fra due imprese con lo stesso oggetto, alle cui dipendenze il lavoratore presti la sua opera con continuità, essendo il “discrimen” costituito dal fatto che il mutamento del titolare deve lasciare inalterata la struttura e l’unicità organica del complesso aziendale, sì che i beni trasferiti – a prescindere dalle integrazioni apportate dal nuovo titolare, pure compatibili col trasferimento – siano tali da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.
L’illegittimità del recesso dichiarata dopo la cessione, però, sarà opponibile al cessionario, il quale, subentrando al cedente, dovrà far fronte alla sentenza dichiarativa della nullità del licenziamento intimato dal datore di lavoro cedente prima del trasferimento.
Oltre alla continuità occupazionale, la norma protegge la “posizione” raggiunta dal lavoratore, che conserva tutti i diritti derivanti dal pregresso rapporto di lavoro alle dipendenze del cedente e non soltanto quelli derivanti dall’anzianità. In tal modo l’ordinamento vuole impedire che attraverso una fittizia e fraudolenta risoluzione del rapporto seguita dalla riassunzione alle dipendenze del cessionario possa violarsi il diritto alla infrazionabilità della anzianità, con conseguenze negative non solo sul piano del trattamento di fine rapporto, ma anche sulla determinazione della anzianità necessaria per l’accesso ai cosiddetti “ammortizzatori sociali” in caso di crisi aziendale.
Tale garanzia si riferisce unicamente a quelle situazioni che abbiano assunto la dignità di diritti soggettivi e non alle semplici aspettative.
Di recente in merito alla cessione di ramo d’azienda è intervenuta nuovamente la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 4 settembre 2014, n. 18675
riaffermando il seguente principio: per ramo d’azienda, ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ. (sia nel testo anteriore, sia in quello modificato, in applicazione della Direttiva CE n. 50/98, dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2001, n. 18, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entita’ economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identita’. Il che presuppone una preesistente realta’ produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione dei trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volonta’ dell’imprenditore e non dall’inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda gia’ costituito (v. Cass. G aprile 2006, n. 8017; Cass. 1 febbraio 2008 n. 2489 nonche’, in controversie pressoche’ analoghe alla presente, sempre relative a cessione di rami d’azienda da (OMISSIS) S.p.A. a (OMISSIS) S.p.A., Cass. 4 dicembre 2012 n. 21711; Cass. 2 settembre 2013 n. 20095; Cass. 3 ottobre 2013 n. 22627; Cass. 4 ottobre 2013 n. 22742, cass. n. 9949/2014).
Ne discende che si applica la disciplina dettata dall’articolo 2112 c.c., anche in caso di cessione di parte dello specifico settore aziendale, purche’ si tratti di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attivita’ di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture gia’ esistenti al momento del trasferimento, e dunque non solo teorica o potenziale La recente sentenza della Corte di giustizia UE 6 marzo 2014 n. O-458/12 conferma quanto detto. Da essa risulta infatti che: a) non si ha trasferimento di ramo d’azienda qualora il ramo non preesista alla cessione (dispositivo, n. 1; considerato n. 321; b) in tal caso spetta all’ordinamento nazionale di garantire il lavoratore (dispositivo, n. 1; considerato n. 39).
In presenza dei presupposti sopra indicati, si considerano fare parte del ramo d’azienda anche i dipendenti che prestano la loro attivita’ per la produzione di beni e servizi del ramo, e quindi anche i loro rapporti vengono trasferiti dal cedente ai cessionario, ai sensi dell’articolo 2112 c.c. senza necessita’ di un loro consenso, resta fermo, tuttavia, che il lavoratore puo’ far valere in giudizio la non configurabilita’ del trasferimento di un ramo d’azienda nell’ipotesi in cui manchino i presupposti previsti dalla legge e, quindi, l’inefficacia della cessione del contratto di lavoro in assenza del suo consenso, tenuto conto del pregiudizio che puo’ derivargli da una cessione operata ad un soggetto non solvibile e che comunque non gli assicuri la continuita’ del rapporto.
F) L’Usufrutto d’azienda
art. 2561 c.c. usufrutto dell’azienda: l’usufruttuario dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue (perché solo in questo modo egli può conservare intatto l’avviamento dell’azienda stessa per il tempo in cui l’usufrutto sarà cessato).
Egli deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione (c.c.985) e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti (c.c.997) e le normali dotazioni di scorte (egli, pertanto, non può lasciarla inattiva ma deve attuare tutte le misure idonee, sul piano tecnico – economico, dirette alla conservazione del valore aziendale).
Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione dell’azienda, si applica l’art. 1015 (abusi dell’usufruttuario).
La differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto (c.c.2112).
I caratteri specifici di questo usufrutto risentono delle diverse concezioni dottrinarie precedentemente esaminate sulla natura giuridica dell’azienda.
1) Se si segue la teoria atomistica si avrà un vero e proprio usufrutto sugli elementi aziendali che nell’esercizio dell’impresa non vengono consumati o alienati (c.d. capitale fisso) mentre si avrà quasi – usufrutto su quei beni che devono essere necessariamente consumati (c.d. capitale circolante);
2) Se, invece, si seguono le teorie che considerano l’azienda unitariamente (teoria del bene immateriale, teoria dell’universitas iuris e teoria preferibile dell’universitas facti) bisogna ritenere che oggetto dell’usufrutto in esame non siano i singoli elementi aziendali, ma l’azienda come complesso unitario.
Per la Cassazione[83] la disciplina legislativa dell’usufrutto (come quella identica dell’affitto) considera l’azienda come una universitas rerum, cioè come un complesso di beni organizzati, anche se materialmente distinti, in vista di una finalità produttiva, talché tutti i beni che vi vengono eventualmente immessi dall’usufruttuario, allo scopo di perseguire tale finalità, entrano a far parte integrante del complesso aziendale, ed il nudo proprietario ne acquista a titolo originario la proprietà in virtù della forza attrattiva propria della struttura unitaria della universitas rerum, mentre l’usufruttuario (così come l’affittuario) ha solo diritto alla differenza in denaro tra la consistenza dell’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto (o dell’affitto) sulla base dei valori correnti a tale ultima data.
Sono espressamente riferite anche all’usufrutto di azienda le norme relative al divieto di concorrenza (art. 2557 4 co e art. 2558 3 co).
Per una datata pronuncia della S.C.[84] in ipotesi in cui oggetto del diritto di usufrutto sia un’azienda industriale, i poteri di godimento consentiti all’usufruttuario non riguardano le singole cose, bensì il complesso organizzato, di cui devono essere conservate la destinazione e la capacità produttiva.
L’usufruttuario ha pertanto il diritto-dovere di gestire l’azienda o di partecipare alla sua gestione in comunione con gli altri titolari (in caso di usufrutto parziale). La percezione dei frutti costituisce solo un effetto del godimento del bene. Ne consegue che, colui che ha impedito all’usufruttuario di partecipare alla gestione dell’azienda e di goderne direttamente i relativi frutti è obbligato a corrispondergli l’equivalente pecuniario al valore attuale, trattandosi di un debito non originariamente di valuta.
Estinto l’usufrutto, il nudo proprietario riacquista la pina proprietà sull’azienda, ma i rapporti tra proprietario e usufruttuario non possono dirsi esauriti perché occorre verificare se il complesso aziendale corrisponda a quello restituito dall’usufruttuario.
Bisogna verificare se sia stata modificata la destinazione dell’azienda e se siano state conservate l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte.
L’eventuale differenza tra la consistenza dell’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto.
È discusso se all’usufruttuario sia dovuto un compenso per l’avviamento da lui procurato.
Sembra preferibile la soluzione positiva, la quale si basa sull’art. 985 c.c. che, in tema di usufrutto, stabilisce che l’usufruttuario ha diritto ad un’indennità per i miglioramenti (tale viene considerato l’inserimento dell’avviamento) che sussistono al momento della restituzione della cosa.
Per la Cassazione[85] l’avviamento dell’azienda, costituendone una qualità essenziale, non può farsi rientrare tra le consistenze, che costituiscono, invece, elementi (materiali o immateriali) della sua struttura, e non fruisce, perciò, dell’indennizzabilità, previsto dall’ultimo comma dello art. cod. civ. solo per gli incrementi di queste ultime prodotti dell’usufruttuario o, ex art. 2562, stesso codice, dall’affittuario.
Inoltre[86] la norma di cui all’art. 2561 comma quarto, cod. civ., che riconosce all’usufruttuario e, per effetto dell’art. 2562 cod. civ., all’affittuario l’indennizzo corrispondente alla differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio ed alla fine del rapporto, non è suscettibile di interpretazione analogica, essendo finalizzata esclusivamente ad evitare che colui che subentra ad altri nella titolarità dell’azienda abbia a conseguire indebiti vantaggi collegati all’altrui attività, per cui la relativa disciplina suppone una situazione in cui all’attività d’impresa del precedente titolare usufruttuario faccia seguito il trasferimento dell’azienda ad altro soggetto.
G)La servitù d’azienda
[87]
La servitù aziendale, potrebbe essere consentita sotto la forma della servitù industriale prevista dalla seconda parte dell’art. 1028, ove è detto che l’utilità può anche essere inerente alla destinazione industriale del fondo.
Ma in tal caso, è necessario che il fondo si trovi in una tale relazione con l’attività industriale per cui l’utilità della servitù si traduce in un incremento dell’utilizzazione del fondo stesso nella sua destinazione industriale.
L’eventuale contratto con il quale s’imponga ad un soggetto di consentire un’attività a favore di una determinata azienda (si fa l’esempio del diritto di appoggiare un’insegna luminosa a vantaggio di un negozio vicino), non configura un atto costitutivo di servitù, ma comporta soltanto la produzione di un’obbligazione di carattere personale.
È tutt’ora oggetto di discussione se siano consentite le c.d. servitù di non concorrenza, ossi dei patti contenenti un divieto di concorrenza a carico di un fondo sul quale si eserciti una certa attività imprenditoriale a favore di un altro fondo sede di un’attività concorrente.
Si domanda, in altri termini, se questi patti diano o non luogo a servitù negative.
Nonostante dubbi ed incertezze, questi patti sono stati considerati servitù, ma solo a condizione che l’obbligo di non facere sia imposto a soggetto passivo non come persona, bensì in quanto proprietario del fondo servente e l’utilitas riguardi necessariamente un fondo compreso in un’azienda come suo fattore produttivo, non come semplice sede.
Se, invece, i patti di non concorrenza sono previsti a vantaggio dell’azienda in quanto tale (indipendentemente dall’inerenza passiva al fondo servente), non è ammissibile la configurazione di una servitù: il relativo contratto ha effetti meramente obbligatori e dà luogo ad un patto di non concorrenza, valido nei limiti di tempo e di spazio o di attività con cui tale patto è ammesso dall’art. 2596.
H)L’affitto di azienda
art. 2562 c.c. affitto dell’azienda: le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche nel caso di affitto dell’azienda (c.c.1615 e seguenti).
Orbene secondo una prima interpretazione della Suprema Corte[88] ricorre la fattispecie di locazione di immobile quando l’immobile concesso in godimento sia stato specificamente considerato nella sua effettiva consistenza, con funzione prevalente rispetto ad altri beni, che abbiano carattere accessorio e non siano collegati tra di loro da un vincolo che li unifichi a fini produttivi; ricorre invece l’affitto di azienda nel caso in cui sia stata concessa in conduzione una universitas aziendale, un’entità organica capace di vita economica propria, della quale l’immobile costituisca una mera componente, in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi. L’indagine relativa impone la considerazione, da un lato, della comune intenzione dei contraenti e, dall’altro, della obiettiva consistenza ed organizzazione delle cose dedotte in contratto e di ogni altra circostanza esistente nel caso concreto.
Per aversi affitto di azienda non è necessario che vi sia l’esercizio di attività imprenditoriale in atto, in quanto l’azienda data in affitto può anche versare in fase statica, purché i vari elementi dedotti in contratto siano potenzialmente idonei allo svolgimento dell’attività di impresa[89].
Inoltre[90] ai fini della configurabilità di un contratto di affitto d’azienda non è necessario che siano ceduti in godimento tutti gli elementi che normalmente la costituiscono, compresi quelli immateriali, ma è sufficiente che lo siano alcuni, purché nel complesso di quelli ceduti permanga un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine all’esercizio dell’impresa, sia pure con la successiva integrazione da parte dell’affittuario.
Secondo altra massima[91] la figura dell’affitto di azienda ricorre sia quando il complesso organizzato dei beni sia dedotto nella sua fase statica, sia quando venga dedotto in quella dinamica, e, pertanto, non è rilevante che la produttività non sussista ancora, o abbia cessato di esistere per l’interruzione o la temporanea sospensione dell’esercizio dell’impresa, essendo sufficiente che detta produttività sia una conseguenza potenziale dell’insieme, prevista e voluta dalle parti.
Per il Tribunale Capitolino[92] in ipotesi di locazione di immobile con pertinenze l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi i quali, siano essi legati materialmente o meno all’immobile, assumono carattere di accessorietà e rimangono legati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e di coordinazione. Nell’affitto di azienda, invece, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica ma come uno degli elementi del complesso dei beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e di complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo.
L’accertamento del tipo di contratto voluto dalle parti e, in particolare, se queste abbiano voluto dare vita a una locazione di immobile con pertinenze, piuttosto che a un affitto di azienda integra una tipica questione di fatto devoluta all’insindacabile valutazione del giudice del merito, il quale è tenuto soltanto a fornire una congrua motivazione del proprio convincimento, immune da vizi logici e giuridici, e non è sindacabile in sede di legittimità[93].
Consegue a ciò che il giudice, per stabilire se le parti abbiano voluto stipulare una locazione d’immobile oppure l’affitto di una azienda, deve procedere ad una duplice indagine, interpretando, da un lato, la comune intenzione delle parti contraenti, prescindendo dalle espressioni dalle stesse usate per qualificare il rapporto, e, d’altro lato, avendo riguardo all’obiettiva consistenza dei beni dedotti in contratto. Pertanto, ad esempio[94], nel caso in cui sia dato in godimento un locale per proiezioni cinematografiche, ove, insieme all’immobile, sia stata contemplata nella convenzione quella attrezzatura mobile di cui deve essere fornito ogni ritrovo di pubblici spettacoli, occorre accertare se dette attrezzature risultino oggettivamente destinate, nella loro inscindibile unità, all’esercizio di una siffatta impresa, o costituiscano, invece, altrettante singole unità, di fronte alle quali il godimento dell’immobile viene a rappresentare l’elemento essenziale ed assorbente dell’economia oggettiva e soggettiva del contratto.
A tal’uopo per la Corte di Piazza Cavour[95] ai fini della qualificazione di un contratto come affitto di azienda anziché come locazione di immobile ad uso commerciale, la circostanza che la licenza d’esercizio di attività commerciale sia stata rilasciata a soggetto diverso dall’effettivo esercente può (senza che a ciò sia d’ostacolo il carattere personale e la non cedibilità della licenza stessa) essere valorizzata dal giudice di merito come sicuro sintomo della preesistenza di un’azienda, quale complesso di beni organizzati a fini produttivi, senza che, inoltre, la configurabilità di un contratto di affitto di azienda sia condizionata dalla effettiva produttività di tali beni al momento della conclusione del contratto, essendone sufficiente la potenziale attitudine produttiva, quale prevista e considerata dalle parti contraenti, attitudine da valutarsi peraltro anche in relazione al luogo o alla particolarità del contesto ove si esercita l’impresa, e perciò non esclusa dalla circostanza che ai beni e servizi da essi offerti possa accedere solo una clientela determinata, costituendo per contro tale circostanza causa certa di produttività dell’attività commerciale.
Per la giurisprudenza di Legittimità[96], inoltre la locazione di immobile a destinazione commerciale si differenzia dall’affitto di azienda perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene – il locale concesso in godimento – che viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva. Il rilievo che, in tale prospettiva, viene ad assumere l’immobile ha carattere prevalente ed assorbente rispetto ad eventuali altri beni concessi in godimento, beni che appaiono, per vero, accessori, rimanendo collegati al cespite sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione. Invece, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo.
Principio già espresso in un’altra pronuncia della medesima Corte[97] secondo la quale nell’affitto di azienda l’oggetto è costituito da un complesso unitario di beni organizzati per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, cosicché l’immobile è considerato come uno dei beni aziendali, sia pure principale, in rapporto di complementarità e di interdipendenza con gli altri (aspetto dinamico del bene), mentre nella locazione d’immobile con pertinenze l’oggetto del contratto è l’immobile stesso, considerato nella sua specificità e individualità giuridica, con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri beni che abbiano carattere accessorio e non siano collegati da un vincolo unitario a scopi produttivi (aspetto statico del bene).
Ad esempio, secondo la S.C.[98], trattasi di locazione ad uso commerciale e non di affitto di azienda quando il locatore cede in godimento al conduttore i locali ove esercitare l’attività commerciale e non anche i beni strumentali per detto esercizio, giacché se è vero che la titolarità dell’azienda può essere disgiunta dalla proprietà dei beni strumentali destinati al funzionamento della stessa, è, però comunque necessario che di questi beni il titolare possa disporre in base a titolo idoneo che gli consenta di destinarli per sè o per altri all’esercizio dell’azienda medesima.
Inoltre, per la stessa Corte[99], in tema di locazioni di immobili ad uso diverso da abitazione, sia in base alla formulazione dell’art. 36 della legge 27 luglio 1978, n. 392, in cui l’affitto o la cessione dell’azienda non sono indicati in posizione di necessaria corrispondenza rispettivamente con le ipotesi della sublocazione o della cessione del contratto di locazione, sia in forza della ratio legis della medesima norma, consistente nell’agevolare il trasferimento delle aziende esercenti la loro attività in immobili condotti in locazione dall’imprenditore e di tutelare l’avviamento commerciale, è irrilevante, ai fini dell’esclusione della necessità del consenso del locatore, che alla cessione dell’azienda – e così all’affitto di azienda – corrisponda la sublocazione dell’immobile anziché la cessione del contratto di locazione, neppure richiedendosi che la sublocazione dell’immobile o la cessione del contratto di locazione, da una parte, e la cessione o l’affitto dell’azienda, dall’altra, siano stipulati contemporaneamente in un unico documento, essendo sufficiente che tra i due atti vi sia uno stretto collegamento funzionale e temporale.
Ancora, secondo una massima della S.C.[100], qualora in favore del locatore sia pattuito il diritto di prelazione sull’azienda esercitata nell’immobile in caso di locazione o cessione dell’azienda stessa “anche a mezzo di cessione di quote”, la cessione di quote della società conduttrice (nella specie, società di persone) non è in alcun modo assimilabile al trasferimento a titolo oneroso dell’azienda predetta né alla diversa ipotesi della alienazione della quota in comproprietà dell’azienda che i comproprietari hanno concesso in locazione ad un terzo, atteso che la cessione della quota sociale non attribuisce al socio subentrato la proprietà di una porzione dei beni della società, ma gli attribuisce una quota del relativo patrimonio, comprensivo delle passività, dei crediti, dei rischi, della esposizione per le obbligazioni già contratte, nonché dei poteri di indirizzo e gestione dei programmi societari con le relative aspettative, e atteso inoltre che, continuando l’immobile locato ad appartenere alla società, non sono neppure ipotizzabili, in difetto di alienazione del bene, l’esercizio della prelazione e l’eventuale retratto, che non potrebbe rivolgersi né nei confronti della società, che non ha mai alienato il bene, né nei confronti del socio subentrante, che non ne è mai diventato proprietario; la sussistenza del diritto di prelazione è da escludersi anche nel caso di cessione ad un unico soggetto della totalità delle quote della società proprietaria dell’immobile locato, dovendo prevalere la considerazione che non sussiste identità tra l’azienda predetta e il bene oggetto dell’acquisto (consistente in un più vasto complesso unitario) e dovendosi perciò riconoscere la prelazione nella sola ipotesi in cui il patrimonio sociale, concentrato nelle mani di un unico soggetto attraverso la cessione della totalità delle quote, sia costituito unicamente dall’azienda locata.
Sempre in merito all’esercizio del diritto di prelazione, però previsto dalla legge 223 del 1991, secondo la quale, all’art. 3, comma 4, l’imprenditore che, a titolo di affitto, abbia assunto la gestione, anche parziale, di aziende appartenenti ad imprese assoggettate alle procedure di cui al comma 1, può esercitare il diritto di prelazione nell’acquisto delle medesime. Una volta esaurite le procedure previste dalle norme vigenti per la definitiva determinazione del prezzo di vendita dell’azienda, l’autorità che ad essa proceda provvede a comunicare entro dieci giorni il prezzo così stabilito all’imprenditore cui sia riconosciuto il diritto di prelazione. Tale diritto deve essere esercitato entro cinque giorni dalricevimento della comunicazione.
Sul punto è intervenuta la Cassazione
Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 16 aprile 2015, n. 7753
specificando che in tema di affitto d’azienda, presupposto necessario perche’ l’affittuario eserciti il diritto di prelazione all’acquisto, previsto dalla Legge n. 223 del 1991, articolo 3, comma 4, nel caso in cui il concedente sia assoggettato a procedura concorsuale, e’ la sussistenza della qualita’ di affittuario, de jure, al momento della definitiva determinazione del prezzo di vendita: dovendosi, per contro, escludere quando il contratto di affitto sia cessato, pur se l’affittuario sia rimasto nella materiale detenzione dell’azienda, in carenza di un diritto di proroga ex lege del contratto.
Risulta poi opportuno riportare altra decisione della S.C.[101] secondo la quale deve ritenersi nullo, per impossibilità giuridica dell’oggetto, il contratto di affitto di azienda relativo a beni situati in zona destinata ad attività agricola, all’interno della quale l’esercizio della attività di ristorazione è consentito solo se inserito in un contesto di attività agrituristica, ovvero se la somministrazione al pubblico di derrate alimentari o di prodotti di allevamento del bestiame proviene dalla produzione dell’azienda stessa, qualora il ramo di azienda ceduto in locazione, per le sue ridotte dimensioni, non consenta di considerarlo azienda agrituristica; ai sensi dell’art. 2, lett. B), della legge 5 dicembre 1985, n. 730 che disciplina l’attività di agriturismo, può essere autorizzato infatti lo svolgimento di attività agrituristica di ristorazione e alloggio all’interno di una azienda agricola solo se essa sia connessa e complementare alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che devono rimanere le attività principali.
Infine[102] in caso di cessione totale e definitiva dell’azienda, con contestuale cessione del contratto di locazione dell’immobile dove la stessa viene gestita, il cessionario può mutarne l’indirizzo commerciale, non incidendo siffatta scelta sull’interesse del locatore ceduto, il quale è normativamente protetto nel senso che potrà fare valere le eventuali clausole contrattuali concernenti la destinazione dell’immobile e l’uso consentito di esso, che il mutamento di indirizzo abbia violato, senza che tale comportamento del cessionario possa avere riflesso sull’assoggettabilità o meno alla proroga del contratto di locazione dell’immobile nei riguardi del conduttore cedente, rimanendo il relativo rapporto nei confronti del locatore correlato solo alle condizioni di fatto e di diritto esistenti al momento della cessione e non a quelle successive riferibili al cessionario.
I) Trasferimento ramo di azienda
Un ramo di azienda è una unità organizzativa, dotata di persone e mezzi, che si configura come un sottosistema di operazioni di gestione la cui connessione è tale che le relazioni che si dispiegano tra quelle operazioni sovrastano nell’intensità e nella specie le relazioni che le avvincono alle restanti operazioni nel generale sistema di impresa.
Queste ultime relazioni non vanno, però, trascurate, anche se sono circoscritte a quelle di carattere più generale inerenti gli aspetti monetari e finanziari della gestione o derivanti dai comuni processi di direzione; infatti, per poter apprezzare l’economicità del ramo aziendale non si può prescindere dall’esame del grado di interdipendenza esistente tra i diversi sottosistemi (rami) aziendali della medesima impresa, al fine di accertare che non sussistano effetti sinergici in misura tale da porre in discussione la stessa autonomia economica del ramo in oggetto.
Sotto il profilo giuridico si ha un ramo aziendale se oggetto di trasferimento è il “nucleo” minimo di beni necessari allo svolgimento dell’attività economica cui il ramo è preposto.
Sotto il profilo economico, per poter proporre come metodologia valutativa quella del capitale economico è necessario accertare, innanzi tutto, che lo specifico ramo oggetto di conferimento possegga una capacità economica autonoma, almeno nel medio-lungo periodo, una volta separato dal complesso aziendale originario.
L’apprezzamento dell’economicità presunta del ramo aziendale condiziona la scelta dell’approccio valutativo.
Nel caso di specie si tratta di valutare il patrimonio di pertinenza di una azienda e quindi ci si deve riferire al complesso di concetti e principi elaborati dalla dottrina economico aziendale in funzionamento.
Ha rilievo, pertanto, la determinazione del capitale economico dell’azienda che si intende conferire.
Per la Corte di Piazza Cavour[103] l’autonomia di un settore dell’azienda, nel quadro della complessiva organizzazione, non può essere desunta esclusivamente dal numero di persone e di mezzi assegnati ad uno specifico servizio, trattandosi di elemento di per sé neutro e non idoneo da solo a provare l’autonomia nell’ambito della complessiva struttura aziendale. L’elemento che giustifica l’autonomia del ramo di azienda nell’ambito della più ampia struttura aziendale va piuttosto individuato nella organizzazione di beni e persone al fine della produzione di determinati beni materiali o di particolari servizi per conseguimento di specifiche finalità produttive dell’impresa. Se per ramo di azienda si intende un complesso di beni e di persone organizzato per la produzione di specifici beni o servizi, nel suo trasferimento non possono non restare coinvolti, in tutto o in parte, anche i beni ed il personale che prestavano l’indispensabile assistenza nella specifica produ-zione, anche se nell’organizzazione aziendale facevano parte di una struttura a se stante.
Inoltre[104], ai fini del trasferimento dell’azienda, o di un ramo di essa, è necessario il trasferimento di un complesso di beni di per sé idoneo a consentire l’inizio o la continuazione di una determinata attività d’impresa, requisito configurabile anche quando detto complesso non esaurisca i beni costituenti l’azienda o il ramo ceduti, ma per la sussistenza del quale è indispensabile che i beni oggetto del trasferimento conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all’esercizio dell’impresa.
Per la giurisprudenza di merito[105], confacente ai dettami della Corte di Legittimità[106], alla cessione di ramo d’azienda conseguono, sul piano sostanziale, limitatamente ai rapporti inclusi nel “ramo” ceduto, gli effetti della cessione di azienda regolati in via generale dagli artt. 2557 e ss. del c.c., ed in particolare, la successione nei contratti in corso disciplinata dall’art. 2558 c.c., il quale prevede che, qualora non sia pattuito diversamente, l’acquirente subentri nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale.
Secondo, poi, ultima Cassazione
Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 30 giugno 2015, n. 13319
alla cessione di ramo di azienda è applicabile l’articolo 2560 cod.civ. e l’acquirente del ramo di azienda dovrà rispondere dei debiti pregressi risultanti dai libri contabili obbligatori inerenti alla gestione del ramo di azienda ceduto
Sotto il profilo processuale, il fenomeno comporta un’ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso disciplinata dall’art. 111 c.p.c., con conservazione in capo al cedente, quale sostituto processuale del cessionario, della legittimazione processuale e della qualità di litisconsorte necessario. Da ciò consegue che, nell’ipotesi in cui al dante causa non sia stato notificato l’atto di riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio, la mancata partecipazione al processo del litisconsorte necessario, incidendo sull’integrità del contradditorio, determina la nullità del giudizio.
Inoltre, a mente di una massima della Suprema Corte[107], l’art. 36 della legge 27 luglio 1978, n. 392, che consente al conduttore di sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore se insieme venga locata o ceduta l’azienda, si riferisce anche alle cessioni o locazioni di una sola parte dell’immobile comunque collegate alla cessione o locazione dell’azienda o di un suo ramo e, perciò, capaci di attuare l’interesse alla conservazione dell’azienda; diversamente, mancando il perseguimento di quest’ultima funzione, la predetta norma non si applica nel caso di cessione di un “punto di vendita” di un’unica azienda, ove nell’immobile ceduto sia stata esercitata la vendita di articoli che il cedente continui ad effettuare in altro locale. La valutazione circa la sussistenza dell’autonomia organizzativa dell’attività svolta in un locale rispetto a quella esercitata in altro locale e delle altre conferenti circostanze idonee in funzione della configurabilità o meno della cessione di un “ramo di azienda” (anziché di un “punto vendita” di un’unica azienda) involge apprezzamenti di fatto rimessi al giudice del merito che, ove adeguatamente motivati, rimangono incensurabili in sede di legittimità.
Il “ramo d’azienda” è trasferibile così come l’azienda intera, anche se non ha le stesse garanzie per i lavoratori dell’intero complesso aziendale: identificato come “articolazione funzionalmente autonoma”, dopo la riforma del 2003 è liberamente identificabile dagli imprenditori che operano il trasferimento purché risponda al requisito dell’autonomia funzionale. Il lavoratore può solo presentare le dimissioni per giusta causa se le condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica. C’è da sottolineare che il ramo d’azienda non viene menzionato dall’art. 2112 c.c. e, essendo molto più flessibile rispetto all’intera azienda, spesso i lavoratori invocano l’art. 1406 c.c. in modo che possano bloccare un trasferimento per loro svantaggioso.
Ma in realtà secondo la Cassazione[108] in occasione della cessione di un ramo di azienda, può applicarsi la disciplina dettata dall’art. 2112 cod. civ. anche in caso di frazionamento e cessione di parte dello specifico settore aziendale destinato a fornire il supporto logistico sia al ramo ceduto che all’attività rimasta alla società cessionaria, purché esso mantenga, all’interno della più ampia struttura aziendale oggetto della cessione, la propria organizzazione di beni e persone al fine della fornitura di particolari servizi per il conseguimento di specifiche finalità produttive dell’impresa.
J) Il deposito d’azienda
Non sembra suscettibile di formare oggetto di deposito, perché si tratta di un bene che per sua natura comporta per la conservazione, un’attività di amministrazione che esula dall’attività di custodia dedotta nel rapporto di deposito.
K) Il possesso d’azienda
È suscettibile di possesso laddove tale possesso venga considerato se non nell’ambito dell’universalità di mobili, e non quale complesso misto di mobili ed immobili; un possesso globale sarebbe ancor meno rilevabile nel caso in cui si ritenesse la struttura aziendale composta anche di beni immateriali.
art. 1160 c.c. usucapione delle universalità di mobili: l’usucapione di un’universalità di mobili (c.c.816) o di diritti reali di godimento sopra la medesima si compie in virtù del possesso continuato per venti anni.
Nel caso di acquisto in buona fede (c.c.1147) da chi non e proprietario, in forza di titolo idoneo, l’usucapione si compie con il decorso di dieci anni.
Sul punto, proprio con ultima pronuncia, le sezioni unite,
Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 5 marzo 2014, n. 5087
hanno così stabilito: ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, l’azienda, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito.
Orbene, si legge nella sentenza in commento che il possesso è dunque configurabile sempre che, rispetto allo stesso bene, sia ipotizzabile la proprietà o un altro diritto reale, al cui esercizio corrisponda l’attività del possessore.
Che l’azienda possa essere oggetto di proprietà o di usufrutto è peraltro espressamente sancito dagli artt. 2556, comma primo e 2561 c.c.. È dunque pienamente giustificata l’affermazione che colui il quale esercita sull’azienda un’attività corrispondente a quella di un proprietario o di un usufruttuario la possiede, e, nel concorso degli altri requisiti di legge, la usucapisce.
Il possesso è qui riferibile esclusivamente al “complesso dei beni” unitariamente considerato, e non già ai singoli beni, che come è noto non appartengono necessariamente al titolare dell’azienda, e seguono le regole di circolazione loro proprie.
Il possesso dell’azienda, inoltre, come si avrà modo di leggere successivamente, è specificamente ed espressamente considerato nell’art. 670 c.p.c., che ammette il sequestro delle aziende – o di “altre universalità di beni” – quando ne sia controversa (la proprietà o) il possesso.
In definitiva il complesso di questi disposizioni non consente di dubitare – secondo il sommo collegio – che, nell’intento del legislatore, l’azienda debba essere considerata unitariamente sia sotto il profilo della proprietà (o dell’usufrutto; e con l’ovvia precisazione, anche in questo caso, che la proprietà del “complesso organizzato” non è proprietà dei singoli beni), e sia sotto quello del possesso.
art. 1170 c.c. azione di manutenzione: chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un’universalità di mobili può, entro l’anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo (Cod. Proc. Civ. 703 s.s.).
Secondo una sentenza di merito[109] il detentore qualificato del bene immobile in forza di contratto di affitto di azienda scaduto, che sia stato spogliato del possesso dall’affittante proprietario, se legittimamente e fondatamente ha proposto azione di reintegrazione nel possesso – godendo in tal guisa di tutela possessoria – non ha titolo alcuno ai fini del diritto al risarcimento dei danni verificatisi dopo lo spoglio violento e clandestino, determinando, la scadenza del contratto di affitto, l’occupazione di fatto dell’immobile da parte del detentore stesso, nonché la prevalente applicazione – in via analogica – delle norme sulla locazione, ed in particolare dell’obbligo di restituzione della cosa locata da parte del detentore/affittuario, essendo dunque ipotizzabile, in ispecie, un obbligo e diritto risarcitorio esclusivamente a favore dell’affittante proprietario ed a carico del detentore affittuario, per quanto assistito da tutela possessoria.
Per altra sentenza di merito[110] è inammissibile l’azione volta ad ottenere la reintegrazione nel possesso di un’azienda, estesa altresì alle facoltà ed ai diritti di natura obbligatoria ricompresi nel compendio.
L) Aspetti processuali
Sequestro giudiziario
art. 670 c.p.c. sequestro giudiziario: il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario:
1) di beni mobili o immobili , aziende o altre universalità di beni , quando ne è controversa la proprietà o il possesso , ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea;
2) di libri, registri , documenti , modelli, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea[111].
Il presupposto è che ci sia una controversia sulla proprietà o sul possesso della stessa res.
Per la Corte di Cassazione[112] l’azienda, quale complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, è compiutamente identificata mediante la specificazione del tipo di attività svolta e dei locali nei quali essa è esercitata, trattandosi di indicazioni idonee a comprendere tutti i beni presenti in detti locali e destinati allo svolgimento dell’attività, mentre la analitica individuazione di detti beni rileva al solo scopo di prevenire eventuali contestazioni in ordine alla riconducibilità degli stessi alla azienda; pertanto il sequestro giudiziario dell’azienda è validamente eseguito indicando nei relativi atti gli elementi indispensabili a permetterne l’individuazione, non occorrendo la specifica elencazione di tutti i beni che la compongono.
Con altra precedente decisione[113] in tema di sequestro giudiziario di azienda, la mancata indicazione dei singoli componenti destinati a formare specifico oggetto del sequestro stesso non è causa di invalidità od inefficacia di esso, a differenza che nel caso di sequestro conservativo, in cui la puntuale individuazione e descrizione dei beni assume la funzione di render noto lo specifico oggetto della garanzia patrimoniale riconosciuta al creditore procedente.
Sequestro preventivo
art. 671 c.p.c. sequestro conservativo: il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito , può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento[114] .
È il mezzo di difesa preventiva del diritto che ha lo scopo di garantire la conservazione e l’indisponibilità di determinati beni o cose, per il periodo necessario alla soluzione della controversia o al conseguimento del diritto dell’attore.
È discussa l’ammissibilità del sequestro conservativo.
La dottrina prevalente[115] sostiene la tesi negativa, sulla base di una serie di argomentazioni:
1) In primis si osserva che il sequestro conservativo costituisce una sorta di anticipato pignoramento e l’azienda, in sé considerata, non è pignorabile;
2) Si aggiunge che ai fini della sottoposizione dell’azienda nel suo complesso a sequestro non ha rilievo la configurabilità della stessa come universitas;
3) In ultimo tale teoria si fa forte dal dettato normativo dell’art. 2912 c.c., il quale estende il pignoramento solo agli accessori, alle pertinenze ed ai frutti della cosa pignorata e sia l’art. 671 il quale a differenza dell’art. 670 esplicitamente e letteralmente parla di “azienda”.
In merito la S.C.[116] ha affermato che a differenza di quello riguardante singoli beni, il sequestro preventivo dell’azienda, quale complesso di beni organizzati volto all’esercizio dell’impresa (articoli 2082 e 2555 del Cc), si estende automaticamente a tutti i beni compresi nel complesso aziendale, senza che occorra una specifica individuazione e una descrizione dei singoli beni a esso appartenenti. Di conseguenza rientrano nel vincolo stabilito con la misura cautelare non solo i locali e le attrezzature, ma anche i beni che, per le caratteristiche loro proprie, costituiscono prodotti e sottoprodotti della struttura aziendale e che, per questa loro natura, beneficiano della tutela penale dell’articolo 334 del Cp, non potendo essere sottratti, soppressi, distrutti, dispersi o deteriorati senza incorrere nella commissione del reato da detta norma previsto.
Provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
art. 700 c.p.c. condizioni per la concessione: fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito.
Per il Tribunale Fiorentino[117] in ordine alla pretesa inammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. per difetto di sussidiarietà, l’esperienza giurisprudenziale insegna che nella crisi del rapporto contrattuale di affitto di azienda possono teoricamente trovare spazio tanto la cautela tipica del sequestro giudiziario dell’azienda, quanto la cautela atipica della anticipazione degli effetti restitutori della emananda sentenza di risoluzione del contratto. Le due soluzioni tendono, infatti, a garantire differenti situazioni, atteso che la riacquisizione del compendio aziendale offre al concedente utilità ulteriori e diverse rispetto alla mera custodia o alla gestione temporanea dell’azienda, e pertanto può ritenersi che la tutela atipica per ottenere la restituzione dell’azienda può essere in astratto ritenuta ammissibile. Quanto al periculum in mora lo stesso può risultare dalla consistenza dell’inadempimento e dalle modalità con cui lo stesso si è manifestato e renda indifferibile la restituzione dell’azienda al concedente, il quale in attesa della definizione del giudizio di merito verrebbe altrimenti a rischiare di perdere le potenzialità dell’azienda stessa nel caso in cui il dissesto economico dell’affittuaria conducesse alla chiusura della medesima o comunque ad una forte contrazione dell’attività.
Inoltre[118] Il rigetto del “petitum” principale di una domanda cautelare d’urgenza non preclude l’ammissibilità dell’istanza di sequestro giudiziario in essa contenuta in via subordinata, sussistendo controversia sul possesso di un complesso immobiliare oggetto di un cessato contratto d’affitto d’azienda, vantando il ricorrente una pretesa restitutoria, e dovendo provvedere alla gestione temporanea dell’azienda al fine di conservarne il patrimonio, sussistendo la possibilità che si determinino situazioni idonee a pregiudicare l’attuazione del diritto controverso.
Infine[119] per il Tribunale Capitolino è corretto il ricorso all’art. 700 c.p.c. per ottenere il rilascio di un’azienda locata qualora le peculiari caratteristiche della stessa e la varietà dei rapporti negoziali che alla medesima fanno capo mal si adattino alle finalità prevalentemente conservative del sequestro giudiziario.
Pegno
art 2784 c.c. nozione: il pegno è costituito a garanzia dell’obbligazione dal debitore o da un terzo per il debitore.
Possono essere dati in pegno i beni mobili, le universalità di mobili, i crediti e altri diritti aventi per oggetto beni mobili.
La dottrina prevalente riconosce in maniera quasi totalitaria che tra le universalità oggetto di pegno rientri anche l’azienda
Il pegno in tal caso non graverà sulle singole res, ma sul complesso.
Il creditore pignoratizio avrà poteri simili a quelli dell’usufruttuario, con applicazione analogica della disciplina ex art. 2561 c.c.
Ipoteca
Per i beni immobili e per i mobili registrati facenti parte dell’azienda.
Secondo la giurisprudenza di legittimità[120] il rapporto che lega i vari beni organizzati in azienda è, in linea di principio, di assoluta parità, nel senso che, per definizione, nessuno di essi assume la funzione di bene principale, restando a carico di chi intende giovarsi del particolare regime collegato da caratteri qualitativi l’onere di provare la sussistenza di tale vincolo. Ne consegue che in mancanza l’ipoteca iscritta sull’immobile aziendale (nella specie, azienda alberghiera) non si estende automaticamente ai beni mobili che l’arredano, e che, stante l’autonomia funzionale dei singoli beni organizzati, per iniziare l’esecuzione forzata sui beni medesimi è necessario eseguire separati pignoramenti per gli immobili e per i mobili, salvo il ricorso all’art. 556 cod. proc. civ., con la conseguenza che, anche in caso di esecuzione congiunta, il creditore assistito da una causa di prelazione relativa solo al bene immobile, non può pretendere di essere soddisfatto con prelazione anche sul ricavato imputabile all’esecuzione forzata mobiliare.
Prova
Per la S.C.[121] deve escludersi che i limiti previsti dagli articoli 2721 e 2725 Cc, alla prova di un contratto per il quale sia richiesta la prova scritta, ad substantiam o ad probationem, come i limiti di valore per la prova testimoniale, valgano anche quanto esso sia dedotto come mero fatto storico nei confronti di terzi, operando – in realtà – detti limiti esclusivamente allorché il contratto sia invocato in giudizio quale fonte di diritti e obblighi tra le parti contraenti. Allo stesso modo anche l’articolo 2556 del Cc, nell’imporre la forma scritta ad probationem di negozi attinenti al trasferimento dell’azienda, concerne esclusivamente i rapporti tra cedente e cessionario tra i quali è incorsa la convenzione, mentre di questa i terzi, a essa estranei, sono abilitati a fornire la prova senza soggiacere alla suddetta limitazione. Lo stesso principio, infine, trova applicazione con riferimento all’articolo 110 della legge 22 aprile 1941 n. 633, sul diritto d’autore, secondo cui la trasmissione dei diritti di utilizzazione spettanti agli autori delle opere deve essere provata per iscritto. Ne segue, pertanto, che detta regola non è applicabile nell’ipotesi in cui il trasferimento sia invocato dal cessionario del diritto di utilizzazione nei confronti del terzo che abbia in tesi violato detto diritto, essendo in tal caso la cessione invocata quale mero fatto storico e può essere provata con qualsiasi mezzo.
A mente di una pronuncia della S.C.[122] in tema di promessa di pagamento, i limiti alla prova testimoniale, desumibili dall’art. 2556, primo comma, cod. civ. (in forza del quale i contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di un’azienda debbono essere provati per iscritto), operano solo quando sia dedotto, come fonte di obblighi, direttamente e specificamente il contratto e la parte chieda in giudizio l’accertamento o l’adempimento del suo credito. Quando, però, la pretesa creditoria si fondi su una promessa di pagamento o su una dichiarazione ricognitiva di debito, in cui la causa non venga neppure enunciata, come il promittente, allo scopo di superare la presunzione di esistenza del rapporto sottostante (art. 1988 cod.civ.), non incontra alcun limite probatorio, e può provare con testimoni l’inesistenza o l’estinzione del rapporto giuridico assunto a causa della promessa, così il destinatario della promessa medesima può contrastare con qualsiasi mezzo istruttorio i risultati della prova prevista dalla controparte, e, quindi, far ricorso alla prova per testimoni contraria, anche se essa abbia ad oggetto un contratto per cui sia richiesta la forma scritta ad probationem (nella specie, trasferimento di azienda), quale fonte dell’obbligazione cui la deliberazione si riferisce, tenuto conto che, in questa situazione, il contratto stesso viene dedotto solo per esigenze difensive, quale mezzo al fine di consentire alla promessa di pagamento di spiegare i suoi effetti.
Mentre riguardo alla cessione dei debiti secondo la S.C. in caso di cessione di azienda, l’iscrizione dei debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, nei libri contabili obbligatori è elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente dell’azienda e, data la natura eccezionale della norma (art. 2560 cod. civ.) che prevede tale responsabilità, non può essere surrogata dalla prova che l’esistenza dei debiti era comunque conosciuta da parte dell’acquirente medesimo.
Anche se nel giudizio promosso dal terzo creditore nei confronti dell’alienante dell’azienda, per il pagamento di un debito inerente all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriore al trasferimento (art. 2560, primo comma, cod. civ.), è irrilevante l’accertamento sia dei patti intercorsi in ordine ai preesistenti debiti aziendali tra alienante ed acquirente dell’azienda, sia dell’esistenza della annotazione del debito nei libri contabili obbligatori, la quale assume valore, ai sensi del secondo comma dell’articolo citato, solo nel diverso caso in cui il terzo creditore abbia proposto domanda di pagamento del suddetto debito nei confronti — solo od anche — dell’acquirente dell’azienda.[123]
Stima dell’avviamento
La pluralità dei criteri di stima in astratto adottabili nell’indagine tecnica intesa a determinare il valore dell’avviamento nell’azienda non obbliga il giudice ad una previa analisi comparativa di essi al fine di chiarire in motivazione le ragioni della scelta del criterio che, impiegato in concreto, abbia condotto a risultati convincenti e decisivi[124].
Il divieto di concorrenza
L’alienante di un’azienda che rilevi, nei cinque anni successivi al trasferimento, altra attività ubicata nello stesso quartiere e destinata alla commercializzazione di prodotti rientranti nella stessa tabella merceologica, compie atto di concorrenza sleale; va pertanto concessa tutela cautelare urgente in ipotesi di illecito concorrenziale, per impedire che la condotta illecita sia portata ad ulteriori conseguenze[125].
Esecuzione
La società di capitali nella quale sia conferita l’azienda di una impresa individuale succede in tutti i rapporti attivi e passivi di quest’ultima. Da ciò consegue che la società nella quale sia confluita l’azienda di altra è soggetta all’esecuzione forzata fondata su un titolo giudiziale pronunciato nei confronti del conferente l’azienda, oltre ad essere legittimata a proporre opposizione all’esecuzione stessa[126].
Per la S.C. con ultima pronuncia
Corte di Cassazione, sezione III, sentenza n. 17876 del 31 agosto 2011
non è legittimato all’opposizione di terzo all’esecuzione, ex art. 619 c.p.c., l’affittuario di una azienda che comprenda i beni mobili oggetto della procedura espropriativa. Infatti si legge nella sentenza che la prevalenza del diritto di credito sulla pretesa del creditore procedente non può riconoscersi alla locazione ed al comodato sicchè quest’ultimi non sono titoli giuridicamente idonei a legittimare il diritto allegato dal terzo.
Per tali rapporti la tutela è allora meramente obbligatoria e può essere invocata esclusivamente nei confronti del dante causa, con le opportune azioni concesse appunto per la limitazione, la compressione, la soppressione delle possibilità di godimento del bene oggetto dell’obbligazione pattiziamente assunta.
Inopponibilità del giudicato al creditore antecedente
Il giudicato ottenuto da un creditore nei confronti di chi abbia alienato la propria azienda, sulla base di un credito derivante da un contratto stipulato per l’esercizio dell’azienda stessa, non è opponibile all’acquirente dell’azienda a norma dell’art. 2558 c.c. , qualora la vicenda traslativa sia già compiuta al momento in cui il creditore ha fatto valere il proprio credito, sicché nessuna successione si é verificata nel diritto controverso a norma dell’art. 111 c.p.c. [127].
Posizione processuale
In caso di trasferimento d’azienda si realizza una successione a titolo particolare nella generalità dei rapporti preesistenti dal cedente al cessionario; ne consegue che, ove rispetto ad uno dei rapporti sia pendente una controversia, il cessionario che sia intervenuto, ex art. 111 cod. proc. civ., nel processo, accettando il contraddittorio sulle domande formulate verso il suo dante causa e svolgendo difese nel merito, assume la veste di parte processuale in qualità di titolare del diritto in contestazione e non quale terzo, non potendosi qualificare il suo intervento come adesivo dipendente[128].
Per una sentenza di merito[129] il negozio di cessione di azienda non è plurilaterale. Il terzo contraente di cui all’articolo 2558 del c.c. e il terzo creditore di cui all’articolo 2560 del c.c. non sono parti di esso. Deriva da quanto precede, pertanto, che l’accertamento dell’avvenuta conclusione del contratto, invocata dal terzo creditore per ottenere una condanna nei confronti del presunto cessionario, non dà luogo a una situazione di litisconsorzio necessario con il preteso cedente.
NOTE
[1] Minervini – Belviso
[2] Aspetti riguardanti le Licenze
Ad esempio secondo una sentenza di merito la licenza comunale per l’esercizio del commercio di vendita al pubblico, quale autorizzazione amministrativa che tende a disciplinare nell’interesse pubblico l’esecuzione dell’attività commerciale, ha carattere personale e non può essere trasmessa in virtù di un semplice accordo tra privati né può interferire nei rapporti giuridici di carattere negoziale privato che abbiano attinenza con l’attività dell’esercizio. Conseguentemente, l’eventuale cessione della licenza, essendo contraria a norme imperative, è colpita da nullità ex art. 1418 c.c., ancorché detta licenza sia considerata dalle parti come elemento dell’azienda trasferita, alla cui gestione si riferisce, restando unicamente valido il patto con cui il cedente si sia obbligato nei confronti del cessionario a prestare il suo consenso o comunque a compiere l’attività necessaria per consentirgli di ottenere una nuova licenza, essendo un tale impegno finalizzato non alla violazione del principio della personalità della licenza, bensì alla sua osservanza. Corte d’Appello di Roma Sezione III civile, sentenza 05 aprile 2011, n. 1473. Conforme Tribunale di Milano civile, sentenza 03 novembre 2010, n. 12246; licenze e certificazioni non costituiscono, all’evidenza, beni aziendali: le licenze, in quanto autorizzazioni amministrative, non sono suscettibili di trasferimento per atto tra privati (il subentro è possibile solo per effetto di un nuovo atto amministrativo), mentre le certificazioni ineriscono a impianti o strutture e sono complementi indispensabili a detti impianti e strutture, ma non costituiscono beni giuridici di per sé. Principi ripresi dai dettami della Corte Suprema secondo cui le autorizzazioni amministrative all’esercizio di un’attività di impresa, avendo carattere personale, non sono riconducibili tra i beni che compongono l’azienda; pertanto, nel caso in cui questa sia ceduta, il relativo contratto non può ritenersi, di per sé, nullo per violazione del principio di intrasferibilità delle autorizzazioni amministrative. Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 16 ottobre 2006, n. 22112. Per altra pronuncia le espressioni con le quali, nei negozi relativi alla cessione di aziende, si dichiari che il titolare attuale si impegna a cedere, o cede le relative licenze commerciali ed autorizzazioni amministrative, in genere, vanno intese nel senso più limitato, avente piena efficacia giuridica, dell’assunzione di un obbligo, da parte del cedente, a rinunciare alle licenze a lui intestate ed a non opporsi alla concessione di una nuova licenza al cessionario, e ciò perché tale patto non viola il principio della personalità ed intrasmissibilità delle autorizzazioni amministrative, ma è anzi diretto ad assicurarne l’osservanza. Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 26 novembre 2009, n. 24893. Mentre, sempre secondo altra pronuncia di legittimità, non è affetta da nullità la clausola inserita in un contratto di affitto di azienda con la quale le parti stabiliscono che l’affittuario, il quale abbia ottenuto il rilascio a suo nome delle licenze depositate dal titolare dell’azienda, sia tenuto, al termine del rapporto, a cedere al medesimo titolare le licenze, dovendosi intendere tale clausola come assunzione di un obbligo, da parte dell’affittuario cedente a non opporsi alla concessione di una nuova licenza al titolare cessionario, e ciò perché tale clausola non viola il principio della personalità ed intrasmissibilità delle autorizzazioni amministrative, ma anzi è diretta ad assicurarne l’osservanza. Corte di Cassazione, sentenza del 3 novembre 1998, n. 10992.
[3] L. 27/2/1963 n.19 – l. 27/7 1978 n. 392 limitata tutela per l’avviamento.
[4] Tribunale di Roma Sezione V civile, sentenza 22 ottobre 2009, n. 21613
[5] Corte di Cassazione, sezione V, sentenza n. 28751 del 23 dicembre 2005.
[6] Corte di Cassazione, sentenza 5 luglio 1968, n. 2258.
[7] Corte di Cassazione Sezione Tributaria civile, sentenza 13 maggio 2011, n. 10586
[8] Corte di Cassazione, I sezione, sentenza 28 aprile 1998 n. 4319; Corte di Cassazione, I sezione, sentenza 27 febbraio 2004 n. 3973 Costituisce azienda soltanto il complesso dei beni organizzato per l’esercizio di una specifica e ben individuata impresa, non di una qualsiasi possibile impresa astrattamente ipotizzabile, e, se è vero che per la configurabilità dell’azienda non è necessario che l’impresa sia in atto, nondimeno occorre che ne siano percepibili i potenziali elementi di identificazione, ed, in specie, il settore commerciale in cui quell’impresa opera od opererà, così come, se si può ammettere che i beni in tal modo organizzati siano poi utilizzabili dal cessionario dell’azienda (o di un suo ramo) per attività imprenditoriali anche diverse da quelle specificamente esercitate dal cedente, è pur sempre indispensabile che quel vincolo di organizzazione teleologica – il cui accertamento in concreto è riservato al giudice di merito – sussista. (Nell’affermare i principi di cui in massima, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito, che – in fattispecie di pretesa cessione del contratto di locazione di immobile urbano ad uso commerciale ai sensi dell’art. 36 della legge n. 392 del 1978 – aveva escluso la sussistenza di una cessione di ramo di azienda, per difetto del vincolo di organizzazione teleologica, essendo l’attività commerciale svolta dal cessionario radicalmente diversa da quella in precedenza esercitata dal cedente, per la quale il cessionario non era neppure fornito della necessaria licenza, ed, esclusa pertanto ogni cessione di avviamento, i beni in concreto trasferiti si riducevano ad alcuni scaffali, banconi ed altre suppellettili di per sè inidonei a rappresentare un complesso unitario di beni organizzati a fini economici).
[9] Corte di Cassazione, sezione V, sentenza del 25 febbraio 2002 n. 2702; Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 20 gennaio 2006 n. 1137
[12] Per un approfondimento sulle società di persona aprire i seguenti collegamenti: ”La responsabilità per le obbligazioni sociali nelle società semplici” ed “Il concetto di capitale sociale e quota nelle società di persona: la cessione, l’affitto, usufrutto e pegno della quota”
[13] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 04 giugno 1997, n. 4986; Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 3 aprile 1993, n. 4053
[14] Corte di Cassazione, sentenza del 22 marzo 1980, n. 1939.
[15]Difatti per una sentenza di merito la conoscenza effettiva dei debiti che incombono sull’azienda ceduta da parte dell’acquirente non è rilevante, e quindi non ne può formare oggetto semplicemente della relativa prova per testi, se dette esposizioni non risultano regolarmente iscritte nei libri contabili obbligatori. Solo detta iscrizione, infatti, integra formalmente l’elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente medesimo rispetto ai debiti aziendali. Tribunale di Cassino Sezione Lavoro civile, sentenza 15 gennaio 2010, n. 23
[16] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 11 febbraio 2005, n. 2838
[17] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 04 giugno 1997, n. 4986: conforme, Corte di Cassazione, sezione III, sentenza dell’ 11 dicembre 1990, n. 11767
[18] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 24 marzo 2001, n. 4307
[19] Corte di Cassazione, sentenza n. 8098 del 2006; Corte di Cassazione, sentenza n. 13580 del 2007.
[20] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 09 ottobre 2009, n. 21481
[21] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 09 dicembre 2005, n. 27286. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, facendo corretta applicazione dei comuni criteri di ermeneutica contrattuale, non aveva ravvisato tale attitudine né sotto il profilo oggettivo – a causa dell’esclusione dalla cessione di gran parte degli elementi aziendali e dell’omessa specificazione dei macchinari oggetto del trasferimento – né sotto quello soggettivo – a cagione della mancata indicazione del prezzo dei macchinari e di quello totale della vendita, nonché dell’omessa previsione della successione nei rapporti di lavoro e nei debiti che ineriscono obbligatoriamente alla cessione di un’azienda o di un ramo di essa
[22] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 15 maggio 2006, n. 11130. Nella specie, è stata pronunciata la risoluzione della cessione di un’azienda alimentare che, essendo sprovvista delle canne fumarie – peraltro non indicate fra i beni aziendali – non era stata in grado di svolgere l’attività di cottura dei cibi alla quale era preordinata per mancanza delle prescritte autorizzazioni amministrative, di cui il cedente aveva dichiarato l’esistenza
[23] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 03 aprile 1993, n. 4053
[24] Vedi anche La Comunione par.fo C
[25] Per un approfondimento dell’istituto aprire il seguente collegamento La formazione progressiva del contratto il contratto preliminare
[26] Tribunale di Vicenza Sezione I civile, sentenza 18 marzo 2011, n. 320
[27] Tribunale di Monza civile, sentenza 04 febbraio 2008, n. 348. Nella fattispecie, la cessione aveva ad oggetto un’autorimessa e il prezzo dell’avviamento determinato nel contratto era stato pattuito sulla base del numero di veicoli presenti ad una certa data, mentre al momento della presa in possesso dell’azienda da parte del cessionario, il numero di veicoli presenti era di molto inferiore.Il giudice ha rigettato la domanda di risarcimento die danni avanzata dal cessionario, non risultando in alcun modo provato che il venditore avesse garantito la presenza di un numero minimo di veicoli, nè la corrispondenza alla realtà del valore pattuito
[28] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 13 gennaio 2005, n. 560. Presupposto giuridico per la legittima configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori(e la conseguente idoneità della condotta di uno dei due concorrenti ad arrecare pregiudizio all’altro, pur in assenza di danno attuale), così che la normativa dettata, in materia, dall’art. 2598 cod. civ. non può ritenersi applicabile ai rapporti tra professionisti (nella specie, avvocati). La nozione di azienda di cui al n. 3 dell’art. 2598 sopra citato, difatti, coincide con quella di cui al precedente art. 2555, stesso codice, sicché (pur essendo innegabile che, sotto il profilo meramente ontologico, studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant’altro, assimilabili ad una azienda) l’intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall’attività d’impresa (intento confermato, tra l’altro, proprio con riguardo alla professione di avvocato, dal regime delle incompatibilità di cui all’art. 3 primo comma del R. D.L. 1578/1933, comprendente, tra l’altro, il divieto dell’esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un’azienda commerciale) va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità “tout court” del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti, e ciò in via di interpretazione tanto diretta, quanto analogica, senza che possa, in contrario, invocarsi il disposto di cui all’art. 2105 cod. civ., funzionale alla disciplina della responsabilità contrattuale del prestatore nei confronti del proprio datore di lavoro ed alla repressione di una fattispecie di concorrenza illecita, laddove l’art. 2598 attiene alla responsabilità extracontrattuale tra imprenditori onde reprimerne comportamenti di concorrenza sleale.
[29] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n. 16026 del 19 dicembre 2001.
[30] Tribunale di Catania civile, ordinanza 28 aprile 2003
[31] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 16 febbraio 1998, n. 1643; conforme, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 20 gennaio 1997, n. 549, Cassazione civile, sentenza 24 luglio 2000, n. 9682..Corte di Cassazione sezione I civile, sentenza 19 novembre 2008, n. 27505. In tema di divieto di concorrenza, la disposizione contenuta nell’art. 2557 cod. civ., la quale stabilisce che chi aliena l’azienda deve astenersi, per un periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta, appropriandosi nuovamente dell’avviamento, non ha il carattere dell’eccezionalità, in quanto con essa il legislatore non ha posto una norma derogativa del principio di libera concorrenza, ma ha inteso disciplinare nel modo più congruo la portata di quegli effetti connaturali al rapporto contrattuale posto in essere dalle parti. Pertanto, non è esclusa l’estensione analogica del citato art. 2557 cod. civ. all’ipotesi di cessione di quote di partecipazione in una società di capitali, ove il giudice del merito, con un’indagine che tenga conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso concreto, accerti che tale cessione abbia realizzato un “caso simile” all’alienazione d’azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la pronuncia della corte territoriale, che, nel regime anteriore alla riforma societaria del 2003, aveva ritenuto non provata la cessione di azienda, in un caso di cessione del 50% delle quote ad altro socio, che già deteneva il restante 50% e rivestiva la carica di amministratore unico della società). Il contratto di cessione di azienda, prosegue la decisione in esame, oltre a produrre il trasferimento di questa, comporta anche per il cedente l’assunzione dell’ulteriore obbligazione di non tenere in concreto comportamenti che vanifichino la ragione pratica dell’operata cessione, la cui durata va oltre il momento del trasferimento protraendosi per il tempo previsto dall’art. 2557 c.c. L’illecito consistente nella violazione di tale obbligo ha natura contrattuale, attiene alla causa del contratto e quindi al suo esatto adempimento ed incide su diritti di natura dispositiva e transigibile. La violazione del divieto di concorrenza, nascente dal contratto, dà luogo, infatti, alla possibilità per il cessionario, anche indipendentemente dal fatto che si siano verificati danni, di richiedere la risoluzione per inadempimento del contratto di cessione, il cui sinallagma funzionale è venuto meno. L’estensione analogica della disciplina dettata dall’art. 2557 c.c. al caso di cessione della partecipazione di una società di capitali, conclude la Corte, trova il suo fondamento nel rilievo che la partecipazione è bene di secondo grado, disponendo della quale l’alienante trasferisce indirettamente anche l’azienda che fa capo alla società cui si riferisce la partecipazione. Non sempre al trasferimento della partecipazione segue anche il trasferimento dell’azienda, sì che sul punto si impone una indagine sulla fattispecie concreta, devoluta al giudice di merito. L’estensione analogica presuppone, peraltro, che ricorra tra l’ipotesi direttamente regolata dall’art. 2557 c.c. ed il trasferimento della partecipazione l'”eadem ratio“, sì che l’azione di danni in caso di violazione del divieto ha sempre le medesime caratteristiche che si sono prima delineate, vale a dire è prevista nell’interesse dell’acquirente, per evitare la dispersione dell’avviamento e ad essa si può anche aggiungere la domanda di risoluzione del contratto di cessione per inadempimento
[32] Corte di Cassazione, sentenza del 17 settembre 1997, n. 9251.
[33] Tribunale di Ivrea Sezione Lavoro civile, sentenza 19 marzo 2008; conforme Tribunale di Torino civile, ordinanza 30 giugno 2006. Un caso particolare, poi, è stato affrontato da altro Tribunale di merito – Tribunale di Tempio Pausania civile, ordinanza 20 dicembre 2006 – secondo il quale In tema di contratto di cessione d’azienda commerciale avente ad oggetto l’alienazione di azienda per l’esercizio dell’attività di taxi, unitamente alla licenza, al mezzo e a tutti gli altri elementi che concorrono a formare il patrimonio aziendale, integra la violazione del divieto di concorrenza contrattualmente sancito nonché legalmente previsto dall’art. 2557 c.c., la condotta del cedente il quale, omettendo di volturare le utenze telefoniche (fissa e mobile) connesse all’esercizio di tale attività, continui ad esercitare la medesima attraverso l’uso di veicoli altrui e mediante diverse forme pubblicitarie. In un tale contesto, infatti, sussistono tutti i presupposti per la violazione del suddetto divieto, ossia l’obbligo per il cedente di attenersi alla prescrizione contrattuale, il materiale svolgimento di un’attività d’impresa «affine» a quella ceduta, nonché l’idoneità della stessa a sviare la clientela dell’azienda ceduta (1). Pertanto, in presenza di tali elementi, va senz’altro accolta la domanda cautelare avanzata in via d’urgenza del cessionario volta ad ottenere tutela inibitoria mediante ordine di cessazione di qualsivoglia attività connessa all’oggetto del contratto da parte del cedente. D’altronde i presupposti per l’operatività della tutela riconosciuta dall’art. 2557 c.c. sono, da una parte, l’intenzione di trasferire insieme con l’oggetto del contratto anche l’avviamento clientelare dal quale l’acquirente trae le speranze di un reddito futuro pari a quello consentito nel passato dall’alienante, e dall’altra la particolare pericolosità dell’alienante, al quale sarebbe agevole, con un’attività in concorrenza, sottrarre all’acquirente la predetta clientela nonostante la percezione del corrispettivo per la sua cessione (in questi termini Trib. Milano, 12 ottobre 1978).
[34] Tribunale di Torino civile, ordinanza 30 giugno 2006
[35] Tribunale di Torino Sezione Sezioni Specializzate civile, ordinanza 01 luglio 2005
[36] Pretore Roma, 6 marzo 1992, in RDCo, 1992, II, 397.
[37] Trib. (Ord.) Torino, Sez. IX, 20 gennaio 2009. Nel caso di specie, uno dei due convenuti in via cautelare, dipendente dell’attrice, e tutti i 14 dipendenti e/o collaboratori dell’attrice medesima si erano dimessi anticipatamente, con l’accertata loro intenzione di seguire le scelte professionali del collega predetto; mentre a sua volta l’altra convenuta aveva manifestato l’intenzione di assumerli alle proprie dipendenze in una nuova società; si è pertanto ritenuto sussistere l’animus nocendi, ossia l’interesse di entrambe le parti resistenti di procedere alla disgregazione della società ricorrente, allo scopo di subentrare nelle posizioni di mercato da essa occupate; in particolare, si è tenuto conto della modalità abnorme dello storno dei dipendenti e collaboratori, diretta a privare l’impresa attrice della intera squadra di personale, da tempo qualificata ad operare in un certo settore; con l’ulteriore avvertenza che è irrilevante l’assenza di patti di non concorrenza nei contratti tra l’attrice ed suoi ex dipendenti, concretando la concorrenza sleale una responsabilità extracontrattuale, e non contrattuale; in considerazione di quanto sopra, ed in accoglimento di ricorso ex art. 700 c.p.c., è stato inibito ad entrambi i resistenti di stipulare, direttamente o indirettamente, contratti di lavoro o di collaborazione con i predetti 14 ex dipendenti della ricorrente
[38] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 20 febbraio 1996, n. 1311
[39] Capozzi, Dell’azienda
[40] Per un maggior approfondimento dell’istituto aprire il seguente collegamento La cessione del contratto
[41] Corte di Cassazione, sentenza dell’11 agosto 1990, n. 8219
[42] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 29 marzo 2010, n. 7517
[43] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 07 marzo 2001, n. 3312
[44] Capozzi, Campobasso, Auletta, Casanova, Colombo.
[45] Corte di Cassazione, sentenza del 26 febbraio 1994, n. 1975. La sussistenza di tale accordo è ravvisabile nell’ipotesi in cui sia stato convenuto che i debiti relativi ai rapporti di agenzia, ivi compreso quello per il fondo di indennità di risoluzione dei rapporti stessi, rimangano a carico dell’alienante, senza che per l’efficacia dell’accordo abbia rilevanza la mancata comunicazione al terzo interessato della esclusione del rapporto di agenzia dal trasferimento.
[46] Capozzi, Dell’azienda
[47] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 28 marzo 2007, n. 7652
[48] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 14 maggio 1997, n. 4242
[49] Corte di Cassazione, sentenza del 29 aprile 1999, n. 4301. Nella specie, si era verificato il conferimento ad una società del ramo di un’altra azienda comprensivo delle attività produttive e di commercializzazione inerenti ad una lottizzazione immobiliare e il giudice di merito, con la sentenza confermata sul punto dalla S.C., aveva ritenuto la società cessionaria di tale ramo aziendale responsabile per l’inadempimento delle obbligazioni relative all’esecuzione di opere di urbanizzazione già contrattualmente assunte dal soggetto cedente nei confronti di acquirenti di unità immobiliari
[50] Corte di Cassazione, sezione II, sentenza n. 19870 del 15 settembre 2009.
[51] Corte di Cassazione, sentenza del 26 maggio 1962, n. 1247.
[52] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 19 gennaio 2010, n. 685
[53] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 30 gennaio 2009, n. 2491
[54] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 21 marzo 2008, n. 7686. Per altra sentenza di merito in tema di affitto d’azienda, l’art. 2558 c.c. considera come effetto naturale dell’affitto, salvo patto contrario, il subingresso dell’affittuario nei contratti inerenti all’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale, e tale effetto esclude (con conseguente mancata liberazione del locatore d’azienda e contraente originario) solo in presenza di una specifica manifestazione di opposizione dell’altro contraente. Ne consegue che, in presenza dei detti presupposti (inerenza del contratto all’azienda; carattere non personale dello stesso), affinché si realizzi la successione dell’affittuario nel contratto, non è necessario dimostrare il consenso del terzo contraente. Tribunale di Torino Sezione IV civile, sentenza 25 gennaio2008, n. 495. In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 16 giugno 2004, n. 11318. Vedi anche Cassazione civile, Sez. II, sentenza 7 marzo 2001, n. 3312, secondo cui l’art. 2558 c.c., nel disciplinare, in via generale, le vicende dei contratti in corso, stabilisce che, in assenza di diversa pattuizione, l’acquirente subentri nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale. Ne consegue che, per derogare alla regola generale stabilita dalla norma codicistica ed evitare il conseguente subingresso dell’acquirente nei rapporti negoziali del cedente, occorre provare il “carattere personale” del rapporto stesso, ovvero l’esistenza del “patto contrario”. Inoltre, nella disciplina di cui all’art. 36 della legge n. 392 del 1978 sull’equo canone, in caso di cessione o di affitto di azienda relativi ad attività svolta in un immobile condotto in locazione, non si produce l’automatica successione del cessionario nel contratto di locazione dell’immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell’azienda, ma la successione è soltanto eventuale e richiede comunque la conclusione, tra cedente e cessionario dell’azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione, senza necessità, in tale seconda ipotesi, del consenso del locatore, in deroga all’art. 1594 cod. civ., ma salva comunque la facoltà di quest’ultimo di proporre opposizione per gravi motivi, entro trenta giorni dalla avvenuta comunicazione della cessione del contratto di locazione insieme all’azienda, proveniente dal conduttore. Corte di Cassazione Sezione III civile, Sentenza 03 aprile 2003, n. 5137
[55] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 20 aprile 2007, n. 9486
[56] Tribunale di Trieste civile, sentenza 16 febbraio 2011, n. 124
[57] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 26 ottobre 2007, n. 22538
[58] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 12 ottobre 2007, n. 21445. Nella specie, l’agente era receduto per giusta causa dal contratto di agenzia adducendo che la società cessionaria del sottostante rapporto, secondo le risultanze del relativo bilancio e dell’allegata relazione del collegio sindacale, non mostrava di offrire sufficienti garanzie di solvibilità e di consistenza economica e patrimoniale; la sentenza di merito che, pretermettendo l’esame della predetta documentazione, aveva escluso la sussistenza della giusta causa di recesso è stata cassata per insufficienza della motivazione dalla S.C., che ha enunciato l’anzidetto principio di diritto
[59] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 12 aprile 2001, n. 5495
[60] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 22 luglio 2004, n. 13651
[61] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 07 novembre 2003, n. 16724. Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto che non subentri nei rapporti contrattuali in corso il locatore dell’azienda che ne riacquisti il godimento prima della scadenza in conseguenza della risoluzione del contratto per inadempimento dell’affittuario
[62] Tribunale di Monza Sezione I civile, sentenza 08 febbraio 2011, n. 279 Nella fattispecie al vaglio dell’adito Giudice, verificatasi la descritta ipotesi, si rivelava, pertanto, manifestamente illegittima la pretesa creditoria vantata dall’associazione nei confronti del soggetto terzo, subentrato all’imprenditore associato, in quanto non avente con la medesima alcun tipo di rapporto. Ne conseguiva l’accoglimento della proposta opposizione e la revoca del provvedimento monitorio.
[63] Corte di Cassazione Sezione Tributaria civile, sentenza 18 dicembre 2008, n. 29653. In applicazione di tale principio, la S.C. ha affermato la legittimazione passiva della società di persone, a fini di recupero di un debito IVA dell’azienda individuale, ancorchè i termini per la relativa dichiarazione fossero scaduti al momento della donazione
[64] Tribunale di Benevento civile, sentenza 17 gennaio 2008
[65] prevalente giurisprudenza Corte di Cassazione, sez. un. 15 febbraio 1979 n.1001
[66] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza n.. 13676 del 13 giugno 2006
[67] Martorano
[68] Pettiti
[69] Corte di Cassazione, sez. un. 15 febbraio 1979 n.1001
[70] Corte di Cassazione Sezione Tributaria civile, sentenza 09 aprile 2009, n. 8644. Conforme Corte di Cassazione Sezione Tributaria civile, sentenza 12 marzo 2008, n. 6578. La cessione d’azienda comporta per legge la cessione dei crediti relativi all’esercizio di essa, ivi compresi i crediti d’imposta vantati dal cedente nei confronti dell’erario: per effetto della cessione, il cedente è privo di legittimazione a domandare all’erario il rimborso dell’Iva pagata in eccedenza.
Secondo altra pronuncia in caso di cessione di azienda, il cessionario non può portare in detrazione il credito Iva vantato dal cedente. Corte di Cassazione Sezione Tributaria civile, sentenza 16 aprile 2008, n. 9961.
[71] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 16 giugno 2004, n. 11318. La Cassazione ha avuto modo di precisare anche che l’obbligo di smaltimento dei rifiuti classificati come tossici e nocivi ex d.P.R. n. 915 del 1982 cui è tenuto il titolare di una determinata azienda, configura una obbligazione “propter rem”, in quanto, come risulta dagli artt. 3, comma terzo, e 13 di detto d.P.R., l’obbligo non grava sulla cosa in sé – il complesso aziendale – bensì sul soggetto individuato in relazione all’esercizio di una determinata attività dalla quale deriva la produzione dei rifiuti; ciò comporta che, nel caso di cessione dell’azienda, l’acquirente della medesima è tenuto ad adempiere l’obbligo di smaltire i rifiuti prodotti anteriormente all’acquisto della medesima, che si trovino al suo interno alla data dell’acquisto, tuttavia, trattandosi di un’obbligazione vicaria e solidale, egli può agire nei confronti dell’alienante, allo scopo di ottenerne la condanna al pagamento dei costi sopportati per lo smaltimento dei rifiuti prodotti anteriormente all’acquisto dell’azienda. Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 11 novembre 2003, n. 16913
[72] Cassazione Civile, sezione I, sentenza n. 23780 del 22 dicembre 2004.
[73] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 09.10. ottobre 2009, n. 21481. Tribunale di Nocera Inferiore civile, sentenza 05 marzo 2010, n. 347. In caso di cessione di azienda, la cessionaria risponde dei debiti dell’azienda ceduta, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2560, comma 2, c.c., esclusivamente ove essi risultino dai libri contabili obbligatori. L’iscrizione nei libri contabili, difatti, si configura come elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente in relazione ai suddetti debiti, senza che essa possa essere surrogata da altre forme di conoscenza della situazione debitoria dell’azienda, eventualmente a disposizione dell’acquirente, atteso che l’art. 2560 c.c. è norma a carattere eccezionale e perciò insuscettibile di interpretazione analogica. Inoltre secondo altra pronuncia di merito
A norma dell’articolo 2560 del Cc in caso di trasferimento di azienda l’acquirente risponde dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta se essi risultano dai libri contabili obbligatori. Si tratta di un elemento costitutivo della fattispecie che è onere del creditore provare, a nulla rilevando la conoscenza che il cessionario abbia avuto aliunde dei debiti del cedente. La domanda proposta ex articolo 2560 del Cc deve, pertanto, essere rigettata qualora dell’esistenza di tale elemento non sia fornita idonea dimostrazione. Al riguardo, inoltre, elementi significativi in tal senso non possono trarsi né dalla richiesta di ammissione alla procedura di amministrazione controllata del cedente, ove sono riportati i dati aggregati dell’indebitamento, né dall’ammissione del credito del terzo al passivo del fallimento del cedente, potendo essa fondarsi esclusivamente sulla documentazione prodotta dallo stesso creditore. (Nella specie, il creditore aveva chiesto e ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti di un imprenditore individuale. Interrotto il giudizio di opposizione a seguito del fallimento dell’opponente, il creditore, oltre a insinuarsi nel passivo del fallimento aveva dedotto, in un nuovo giudizio, che l’azienda del proprio debitore – attività di vendita e di assistenza di autovetture di una certa casa produttrice in forza di rapporto di concessione con questa ultima – non era cessata ma era proseguita dai figli dell’originario debitore che avevano, allo scopo, costituito una società a responsabilità limitata. Il giudicante, pur avendo accertato la avvenuta cessione di azienda, con una serie di negozi tra loro funzionalmente collegati, anche atteso che alla instaurazione del rapporto di concessione tra la casa produttrice di automobili e la Srl non era stato estraneo l’originario imprenditore individuale, il quale si era anzi attivato al fine del buon esito delle trattative, rientrando essa in un disegno complessivo volto a consentire alla neo costituita società la prosecuzione dell’esercizio dell’azienda di cui era titolare la ditta individuale, ha rigettato – comunque – la domanda, per mancanza di prova che i debiti dell’imprenditore individuale risultassero dai registri obbligatori di quest’ultimo). Tribunale di Benevento civile, sentenza 17 gennaio .2008
[74] Tribunale di Trento civile, sentenza 19 gennaio 2010, n. 42
[75] Corte di Cassazione, sezione V, sent. 16473 del 18 giugno 2008.
[76] Corte di Cassazione 23 febbraio 1948.
[77] Il presente articolo è stato così sostituito dall’art. 1, D.Lgs. 02.02.2001, n. 18, con decorrenza dal 01.07.2001.
[78] Il presente comma è stato così sostituito dall’art. 32, D.Lgs. 10.09.2003, n. 276, con decorrenza dal 24.10.2003. Si riporta di seguito il testo previgente:
“Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto d’azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità .”
[79] Il presente comma è stato aggiunto dall’art. 32, D.Lgs. 10.09.2003, n. 276, così come modificato dall’art. 9, D.Lgs. 06.10.2004, n. 251, con decorrenza dal 26.10.2004. Si riporta di seguito il testo previgente l’ultima modifica:
“Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’articolo 1676.”
[80] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 11 marzo 2002, n. 3469
[81] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 07 giugno 2000, n. 7743; nella specie, relativa alla continuazione di un’impresa edile da parte degli eredi del titolare per il completamento degli appalti in corso e alla successiva costituzione di una nuova impresa da parte di uno degli eredi, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente il trasferimento in base alla mera identità delle attività produttive delle due imprese. Da vedere: Sen 21/10/1995 10993 sez I Civ; Sen 17/04/1996 3627 sez III Civ
[82] Per un maggiore approfondimento dell’istituto aprire il seguente collegamento L’usufrutto
[83] Corte di Cassazione, sentenza 9 giugno 1973, n. 1668.
[84] Corte di Cassazione, sentenza 2 gennaio 1967, n. 2.
[85] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 20 aprile 1994, n. 3775
[86] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 09 agosto 2007, n. 17459
[87] Per un maggior approfondimento dell’istituto delle Servitù aprire il seguente collegamento Le servitù prediali
[88] Corte di Cassazione, sentenza 10 giugno 1987, n. 5068.
[89] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 05 gennaio 2005, n. 166
[90] Corte di Cassazione, sezione III, sentenza n. 23496 del 17 dicembre 2004. Sulla base di tale principio la Suprema Corte ha ritenuto corretta la valutazione di sussistenza di un affitto d’azienda in un caso in cui dalla concessione in godimento erano rimasti esclusi i rapporti di lavoro con il personale dipendente, i debiti e gli arredi
[91] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 28 marzo 2003, n. 4700
[92] Tribunale di Roma Sezione V civile, sentenza 20 ottobre 2010, n. 20816. Principio già espresso dalla S.C. secondo la quale La differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto di azienda consiste nel fatto che, nella prima ipotesi l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all’immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione. Nell’affitto di azienda, invece, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elmetti costitutivi del complesso di beni mobili ed immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario. Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 04 febbraio 2000, n. 1243. Ancora, secondo altra pronuncia più datata La locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall’affitto di azienda (nella specie, alberghiera) perchè la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene – l’immobile concesso in godimento – che assume una posizione di assoluta ed autonoma centralità nell’economia contrattuale, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi che, legati materialmente o meno ad esso, assumono, comunque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione, mentre, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo, così che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all’art. 2555 cod. civ. (nella specie, la S.C. ha ritenuto correttamente motivata in punto di fatto la sentenza del giudice di merito che, premessa la non decisività del tenore letterale delle espressioni contenute nella convenzione negoziale intercorsa tra le parti, ne ha escluso il carattere di affitto di azienda, qualificandola come locazione, sulla scorta di quattro ordini di considerazioni: 1) il rinvio contrattuale ad una serie di norme dettate per la locazione dalla legge 392 del 1978; 2) la esistenza di una comunicazione extracontrattuale, successivamente intervenuta, nella quale si faceva riferimento “al punto 6 del contratto di locazione” ed alla contemporanea cessione, con l’azienda, del “contratto di locazione”; 3) le molteplici iniziative intraprese dal proprietario dell’immobile e consistite in una serie di intimazioni di sfratto per finita locazione; 4) l’espresso richiamo contenuto nella prima ricevuta del canone – per l’effetto non gravata da IVA – alla esenzione sancita dall’art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972 per le locazioni di immobili, ma non per gli affitti di azienda). Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 08 agosto 1997, n. 7361 conforme: Sen 08/09/1986 5488 sez III Civ; Sen 25/05/1995 5787 sez III Civ; Sen 17/04/1996 3627 sez III Civ
[93] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21620
[94] Corte di Cassazione, sentenza del 28 novembre 1981, n. 6361.
[95] Corte di Cassazione, sentenza del 6 maggio 1997, n. 3950. Nella specie trattavasi di un bar interno, conferito in gestione ad un privato dal circolo ricreativo fra i dipendenti di un Ministero, in base ad un contratto qualificato dal giudice di merito — con sentenza confermata dalla S.C. — quale affitto di azienda
[96] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 13 maggio 2010, n. 11599. In senso conforme, Cassazione civile, Sez. III, sentenza 28 maggio 2009, n. 12543 e Cassazione civile, Sez. III, sentenza 27 giugno 2002, n. 9354. In altra massima si legge che la concessione del godimento di un locale adibito ad esercizio commerciale può integrare affitto di azienda, ovvero locazione di immobile munito di pertinenze, a seconda che, sulla scorta della effettiva e comune intenzione delle parti, in relazione alla consistenza del bene ed a ogni altra circostanza del caso concreto, risulti che l’oggetto del contratto sia un’entità organica e capace di vita economica propria, della quale l’immobile configura una mera componente, in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi aziendali, ovvero sia in via principale l’immobile medesimo, ancorché dotato di accessori, come entità non produttiva. L’accertamento di tali criteri ed il risultato della relativa indagine da parte del giudice di merito è incensurabile in sede di legittimità, se si prospetti immune da vizi logici e giuridici. Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 19 luglio 2005, n. 15210
[97] Corte di Cassazione, sentenza 16 giugno 1998, n. 5986 (conf. Corte di Cassazione 30 marzo 1982, n. 1986).
[98] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 06 novembre 2001, n. 13689. Nella specie, la S.C., nell’enunciare il suddetto principio, ha confermato la decisione dei giudici del merito che avevano ritenuto il rapporto in contestazione come locazione ad uso commerciale e non affitto di azienda, non essendo stata provata dal locatore anche la disponibilità dei beni strumentali per l’esercizio dell’azienda che erano stati, invece, ceduti al conduttore da un terzo
[99] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 19 gennaio 2010, n. 685
[100] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 14 luglio 2004, n. 13075
[101] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 10 agosto 2002, n. 12142
[102] Corte di Cassazione, sentenza 9 febbraio 1988, n. 1400.
[103] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 22 marzo 2006, n. 6292
[104] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 09 dicembre 2005, n. 27286. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, facendo corretta applicazione dei comuni criteri di ermeneutica contrattuale, non aveva ravvisato tale attitudine né sotto il profilo oggettivo – a causa dell’esclusione dalla cessione di gran parte degli elementi aziendali e dell’omessa specificazione dei macchinari oggetto del trasferimento – né sotto quello soggettivo – a cagione della mancata indicazione del prezzo dei macchinari e di quello totale della vendita, nonché dell’omessa previsione della successione nei rapporti di lavoro e nei debiti che ineriscono obbligatoriamente alla cessione di un’azienda o di un ramo di essa
[105] Tribunale di Bologna Sezione II civile, sentenza 22.05.2007, n. 1196
[106] Cassazione civile, Sez. I, sentenza 31 agosto 2005, n. 17586
[107] Corte di Cassazione Sezione 3 civile, sentenza 06 marzo 2006, n. 4800
[108] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 22 marzo 2006, n. 6292. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva negato l’applicabilità dell’art. 2112 cod. civ. in relazione al trasferimento di larga parte del parco automezzi di una società telefonica, alla società cessionaria del ramo aziendale avente ad oggetto l’installazione di reti telefoniche di distribuzione, sulla considerazione che esso era funzionale sia al settore dell’azienda ceduto che a quello rimasto alla società cessionaria, senza considerare che la maggior parte del lavoro di gestione del ramo automezzi riguardasse in realtà il settore oggetto della cessione
[109] Corte d’Appello Bologna, 18/02/2008
[110] Tribunale di Monza, 08 ottobre 2001
[111] Il numero della sezione di cui fa parte il presente articolo è stato sostituito dall’ art. 74 L. 26.11.1990 n. 353.
[112] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 21 gennaio 2004, n. 877
[113] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 21 giugno 2000, n. 8429
[114] Il numero della sezione di cui fa parte il presente articolo è stato sostituito dall’ art. 74 L. 26.11.1990 n. 353
[115] Capozzi Dell’azienda – Coniglio – Cantillo – Caturani – Vocino – Protetti – Andriolli
[116] Corte di Cassazione, Sezione VI penale, sentenza 08 gennaio 2002, n. 228
[117] Tribunale Firenze, 20 gennaio 2010. Sempre per il medesimo Tribunale può essere accolta l’istanza cautelare volta ad ottenere, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., l’immediato rilascio di un’azienda concessa in affitto a causa dei gravi e reiterati inadempimenti contrattuali, qualora il pregiudizio fatto valere non appaia evitabile con lo strumento del sequestro giudiziario, il quale non attribuisce al ricorrente il godimento pieno ed immediato del bene e comporta una situazione (nomina del custode, amministrazione in custodia) non congrua rispetto alle esigenze di tutela, tenuto conto dei costi relativi e della durata della custodia; l’ulteriore presupposto per la concessione del provvedimento può essere individuato nel fatto che, pur trattandosi di posizioni a contenuto patrimoniale, il pregiudizio paventato potrebbe non essere compiutamente risarcibile per equivalente in considerazione dello scarto temporale tra il momento della lesione e il momento della tutela. Tribunale Firenze, 21 agosto 2009
[118] Trib. (Ord.) Bari, Sez. II, 03 agosto 2006. In tema aprire il seguente collegamento www.iussit.eu – Tribunale di Nola ordinanza 26 luglio 2011
[119] Tribunale Roma, 02 febbraio 2010
[120] Corte di Cassazione, sentenza del 29 settembre 1993, n. 9760.
[121] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 13 dicembre 1999, n. 13937
[122] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 22 marzo 2005, n. 6191
[123] Corte di Cassazione, sentenza 20 marzo 1990, n. 2319.
[124] Corte di Cassazione, sentenza 3 aprile 1973, n. 896.
[125] Pretore Roma, 5 febbraio 1991, in Fit, 1993, I, 633.
[126] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 24 aprile 2008, n. 10676
[127] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 25 luglio 1978, n. 3723
[128] Corte di Cassazione Sezione Lavoro civile, sentenza 24 giugno 2008, n. 17151
[129] Tribunale di Benevento civile, sentenza 17 gennaio 2008