Corte di Cassazione, civile, Sentenza|4 settembre 2024| n. 23769.

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali, implicando pur sempre la relativa statuizione una valutazione dell’esito globale della lite. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, nel rigettare l’appello, aveva condannato l’appellante al pagamento delle spese processuali del secondo grado di giudizio, omettendo di considerare che la domanda dallo stesso formulata era stata accolta in primo grado, sia pure per una somma inferiore a quella richiesta).

Sentenza|4 settembre 2024| n. 23769. Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

Data udienza 6 giugno 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Spese giudiziali civili – Condanna alle spese – In genere rigetto dell’appello – Regolamentazione delle spese di lite – Valutazione dell’esito globale della lite – Necessità – Fattispecie.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

composta dagli Ill.mi Magistrati

Dott. MANNA Felice – Presidente

Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere

Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere Rel.

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 1973/2020 R.G., proposto da

An.Ca., rappresentato e difeso in proprio, con domicilio eletto in Roma, Via (…), presso l’avv. Ma.Ca.

-RICORRENTE-

contro

Me.Ma., rappresentato e difeso dall’avv. Ac.Bo., con domicilio in Ascoli Piceno, alla Via (…).

-CONTRORICORRENTE-

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Ancona n. 882/2019, depositata in data 30.5.2019.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 6.6.2024 dal Consigliere Giuseppe Fortunato.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Stefano Pepe, che ha concluso, chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

RAGIONI IN FATTO IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il Tribunale di Fermo, in accoglimento dell’opposizione proposta da Me.Ma., ha revocato il decreto ingiuntivo n. 643/2009 ottenuto dall’avv. An.Ca. per il pagamento di Euro 17.652,00 a titolo di compensi professionali, condannando l’opponente al versamento della minor somma pari ad Euro 6.563,93, oltre accessori.

La sentenza è stata confermata in appello.

La Corte anconetana ha respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione proposta dall’appellante, affermando che il parere del Consiglio dell’ordine ha valore di atto amministrativo non vincolante nel giudizio di opposizione e che il Me.Ma. non aveva inteso ottenerne l’annullamento o la disapplicazione, volendo solo resistere alle pretese di pagamento del difensore, discutendosi, quindi, di un diritto soggettivo di natura patrimoniale, precisando inoltre che il suddetto parere costituisce prova del credito solo ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, mentre nel successivo giudizio di opposizione è onere del professionista dar prova delle attività svolte.

Nel merito la pronuncia ha stabilito che l’espressa riserva formulata nell’invito di pagamento del 9.10.2008 in modo del tutto generico, non autorizzava il difensore ad esigere un importo maggiore di quello inizialmente richiesto e che correttamente il Tribunale aveva liquidato il compenso sulla base del primo conto presentato dal professionista, poiché il cliente non era stato preavvertito della successiva maggiorazione. In ogni caso, il difensore non aveva dato prova di quali attività avesse svolto autonomamente, essendo gli atti sottoscritti da un co-difensore, e peraltro, nel compilare la parcella, non aveva applicato la riduzione per la difesa in materia di lavoro e previdenza ed aveva duplicato gli importi per le voci esame, studio e ricerca documenti.

Ha confermato la compensazione delle spese di primo grado, condannando l’appellante al pagamento di quelle di appello.

La cassazione della sentenza è chiesta dall’avv. An.Ca. con ricorso in tre motivi.

Me.Ma. resiste con controricorso.

La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale dinanzi alla Sesta sezione civile, è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza n. 14775/2021.

Il Pubblico Ministero ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte.

2. Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 5 della L. 2248/1865 e dell’art. 113 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c. sostenendo che il parere di congruità della parcella professionale, essendo un atto amministrativo che non era stato impugnato nel termine di legge, era divenuto definitivo ed era vincolante, non potendo il giudice disapplicarlo in assenza di vizi di legittimità.

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

Il motivo è infondato.

Nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo si controverte della spettanza del compenso del professionista e perciò di un diritto soggettivo che non trova titolo nel parere di congruità, ma nell’attività effettivamente svolta e nel rapporto di patrocinio.

Il valore probatorio del parere si esaurisce nella fase monitoria ai fini dell’emissione dell’ingiunzione di pagamento, valendo nella successiva opposizione, ove contestato, quale mera dichiarazione asseverata ed unilaterale del difensore (Cass. s.u. 19427/2021).

Il parere è reso dal competente del Consiglio dell’ordine sulla base delle voci indicate dallo stesso difensore e senza alcun previo accertamento dell’effettivo svolgimento delle prestazioni elencate nella parcella (Cass. 10428/2005; Cass. 13743/2002).

Proprio per la natura meramente valutativa e non vincolante, non sussiste alcun onere del cliente di impugnarlo dinanzi al giudice amministrativo.

L’attribuzione alla cognizione del giudice amministrativo della verifica di legittimità del parere, inteso quale atto amministrativo, riguarda le diverse ipotesi in cui venga la lite insorga tra il difensore e il Consiglio dell’ordine degli avvocati e riguardi il rilascio o il contenuto del parere, stante la natura di ente pubblico non economico del medesimo Consiglio ed il carattere di tale parere – da ritenere un atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, emesso nell’esercizio di poteri autoritativi e tale da implicare una valutazione di congruità del “quantum” (cfr. Cass. s.u. 6534/2008; Cass. s.u. 14812/2009).

3. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c.

Si deduce che la Corte di merito avrebbe esaminato d’ufficio la rilevanza della riserva di richiesta di un maggior compenso formulata nella parcella, che, secondo il ricorrente, non esigeva l’impiego di formule sacramentali, per cui la prima richiesta, inoltrata prima dell’introduzione della causa, non poteva considerarsi vincolante. Inoltre, il Giudice distrettuale avrebbe omesso di pronunciare sul terzo motivo di appello vertente sul carattere seriale delle attività svolte dal difensore ed avrebbe riesaminato le singole voci della parcella in assenza di uno specifico motivo di gravame.

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

Anche tale motivo è infondato.

La sentenza ha confermato la pronunciata di primo grado per il carattere seriale delle liti, l’assenza di prova delle prestazioni, la non corretta applicazione della tariffa, la duplicazione delle voci di tabella, facendo propria la quantificazione di cui alla prima nota non perché vincolante, ma perché correttamente elaborata, in conformità al principio secondo cui, qualora l’avvocato, dopo avere presentato al cliente una parcella per il pagamento di un dato importo, successivamente richieda, per le stesse attività, un pagamento maggiore sulla base di una nuova parcella, il giudice, oltre a poter liberamente valutare (salva l’ipotesi in cui la prima parcella abbia carattere vincolante in quanto conforme ad un pregresso accordo o espressamente accettata dal cliente), eventuali elementi che facciano ritenere giustificata e legittima la maggiore richiesta, deve valutare la congruità degli onorari richiesti sulla base ed in funzione dei parametri previsti dalla disciplina positiva, con apprezzamento che, se adeguatamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. 995/2022; Cass. 2575/2020; Cass. 31413/2019; Cass. 2575/2018; Cass. 6454/2008).

È insussistente anche violazione del giudicato interno, avendo lo stesso appellante riproposto il tema della congruità della somma liquidita e del carattere vincolante del parere del Consiglio dell’Ordine, sollecitando un riesame della quantificazione effettuata dal Tribunale, che è stata integralmente confermata in appello. Il giudicato interno non si determina sul fatto, ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (Cass. 9202/2018; Cass. 8604/2017; Cass. 1377/2016).

Quanto all’omessa pronuncia sul terzo motivo di appello, il giudice di merito ha in realtà valutato l’attività del difensore, ravvisando in concreto il carattere seriale delle liti, quale elemento, che unitamente agli altri, ha condotto alla liquidazione dei minimi, assumendo in proposito una pronuncia esplicita di infondatezza del gravame. La censura è inoltre generica, e pertiene al giudizio di fatto, nel punto in cui sostiene che tutte le attività indicate nella parcella erano state concretamente svolte dal difensore.

4. Il terzo motivo censura la violazione dell’art. 92, comma secondo c.c., ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c. sostenendo che, poiché la controparte non aveva proposto appello incidentale e poiché l’appello principale del difensore era stato respinto, il giudice poteva al più compensare le spese, non potendole porre a carico del ricorrente, al quale non poteva addebitarsi neppure il raddoppio del contributo unificato.

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

Il motivo è fondato.

La Corte territoriale, pur respingendo l’appello del difensore, non poteva condannarlo al pagamento delle spese di appello in applicazione del criterio della soccombenza.

Non era consentito tener conto delle sole statuizioni adottate in secondo grado, occorrendo valutare l’esito globale della lite, non potendosi trascurare che la domanda di pagamento del difensore era stata comunque accolta, sia pure per un importo inferiore a quello richiesto.

In queste ipotesi, l’attore, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., non può essere condannato, neppure in parte, al pagamento delle spese processuali, sicché detti oneri, ove non siano stati interamente posti a carico del convenuto, possono essere, totalmente o parzialmente, compensati tra le parti (Cass. 21069/2016; Cass. 21684/2013; Cass. 19613/2018; Cass. 1572/2018).

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

Sussistevano le condizioni per il raddoppio del contributo unificato, avendo la Corte adottato una pronuncia tipologicamente rientrante in quelle che autorizzano tale statuizione.

La “ratio” dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, va individuata nella finalità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose (Cass. 16363/2015; Cass. 10306/2014), e il raddoppio consegue – per esplicita previsione di legge – al mero riscontro del totale rigetto dell’impugnazione, oltre che alla dichiarazione di inammissibilità, senza necessità da parte del giudice di ulteriori verifiche, competendo all’amministrazione esigere il pagamento previsa verifica delle ulteriori condizioni per il pagamento, trattandosi di entrata di natura tributaria.

Il compito dell’ufficio giudiziario che abbia definito l’impugnazione è – quindi – limitato a dar atto della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, se la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione), essendo esonerato da tale dichiarazione solo quando la pronuncia non rientra in alcuna di suddette fattispecie (Cass. s.u. 4315/2020).

In conclusione, è accolto, nei limiti di cui in motivazione, il terzo motivo di ricorso con rigetto delle altre due censure. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, si dispone la compensazione delle spese di appello, dato l’esito del gravame e il parziale accoglimento della domanda, oltre che delle spese di legittimità, in considerazione dell’accoglimento del solo terzo motivo di ricorso.

Al rigetto dell’appello non consegue necessariamente la condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, respinge le altre censure, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, compensa integralmente le spese del giudizio di appello e quelle del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione in data 6 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 4 settembre 2024.

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