Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|| n. 31026.
Al fine di permettere al paziente l’espressione di un consenso informato al trattamento sanitario
In tema di responsabilità per attività medico-chirurgica, al fine di permettere al paziente l’espressione di un consenso informato al trattamento sanitario, il medico deve fornire informazioni dettagliate in merito alla natura, portata ed estensione dell’intervento, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, che ben possono essere contenute in un modulo prestampato, la cui idoneità, ai fini della completezza ed effettività del consenso, va, invece, esclusa ove il contenuto del modulo sia generico.
Ordinanza|| n. 31026. Al fine di permettere al paziente l’espressione di un consenso informato al trattamento sanitario
Data udienza 24 ottobre 2023
Integrale
Tag/parola chiave: Responsabilita’ civile – Professionisti – Attivita’ medico – Chirurgica obbligo del medico di informare il paziente – Contenuto – Modalità di adempimento – Sottoscrizione di un modulo prestampato – Ammissibilità – Condizioni – Condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di interventi di chirurgia estetica – C.t.u. – Saldo effettivo – Artt. 1453, 1223, 1218 c.c. – Azione di risoluzione – Principio di autonomia – Principio di integrale riparazione del danno patrimoniale e non patrimoniale – Esecuzione dell’intervento di addominoplastica – Cass. n. 11348 del 12/06/2020 – Responsabilità sanitaria – Restituzione compenso – Risoluzione contratto – Domanda – Necessità – Consenso informato – Mancanza
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente
Dott. RUBINO Lina – Consigliere
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere
Dott. ROSSELLO Carmelo Carlo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22772/2020 R.G. proposto da:
(OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. (OMISSIS) (p.e.c. indicata: (OMISSIS)), con domicilio eletto presso il suo studio in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) e (OMISSIS) s.n.c., rappresentati e difesi dall’Avv. (OMISSIS) (p.e.c. indicata:
(OMISSIS)), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell’avv. (OMISSIS) (p.e.c.: (OMISSIS));
– controricorrenti –
e nei confronti di
(OMISSIS) S.p.a (incorporante (OMISSIS) S.p.a.) e (OMISSIS) S.p.a.;
– intimate –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia, n. 5350/2019 depositata il 27 novembre 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 ottobre 2023 dal Consigliere Emilio Iannello.
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FATTI DI CAUSA
1. (OMISSIS) convenne in giudizio, nel 2013, davanti al Tribunale di Padova, (OMISSIS) e la (OMISSIS) s.n.c. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di quattro interventi di chirurgia estetica (lifting facciale, lifting delle palpebre, rinoplastica ed addominoplastica) eseguiti dal (OMISSIS) presso detta struttura.
Esteso il contraddittorio anche nei confronti della (OMISSIS) S.p.a. e della (OMISSIS) S.p.a. (oggi (OMISSIS) S.p.a.), chiamate in causa rispettivamente dal medico e dalla struttura per esserne manlevati in caso di condanna, ed espletata c.t.u., con sentenza n. 1414 del 2017 il Tribunale accolse la domanda esclusivamente con riferimento agli esiti antiestetici della addominoplastica (cicatrici evidenti sull’addome della paziente), conseguentemente condannando i convenuti, in solido, a pagare all’attrice la somma di Euro 6.000,00, oltre interessi al tasso legale dalla data di comunicazione della decisione fino al saldo effettivo.
2. Con sentenza n. 5350/2019, depositata il 27 novembre 2019, per quanto ancora interessa, la Corte d’appello di Venezia ha confermato tale decisione, condannando l’appellante alle spese.
3. Per la cassazione di tale sentenza (OMISSIS) propone ricorso per cassazione affidato a sette motivi, cui resistono, con unico controricorso, (OMISSIS) e la (OMISSIS) s.n.c..
Le assicurazioni intimate non svolgono difese nella presente sede.
Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
La ricorrente e i controricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS) s.n.c. hanno depositato memorie.
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RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: “Art. 360 n. 3 Violazione di legge in relazione all’articoli 1453, 1223, 1218 (articolo 2056, 1226), 1284 c.c.: l’azione di risarcimento del danno contrattuale non richiede la preventiva proposizione (o il relativo accertamento) dell’azione di risoluzione stante il principio di autonomia delle predette azioni violazione del principio di integrale riparazione del danno (patrimoniale e non patrimoniale) e, con rispetto a quest’ultimo, violazione delle Tabelle Milanesi micro permanenti (ivi riportate)”.
1.1. Come puo’ evincersi dalla stessa titolazione esso prospetta due distinte censure:
– da un lato, si deduce che, in violazione del principio di integralita’ del risarcimento, la Corte d’appello ha riconosciuto, e liquidato in parte, solo il danno non patrimoniale (biologico) subito in conseguenza della imperita esecuzione dell’intervento di addominoplastica, ma non anche il diritto ad ottenere la restituzione dei compensi corrisposti e cio’ perche’ l’appellante non aveva chiesto la risoluzione del contratto di prestazione di opera professionale; si sostiene al riguardo che, cosi’ motivando, la Corte ha erroneamente postulato, in difformita’ dal pacifico indirizzo della giurisprudenza di legittimita’, l’esistenza “tra le due azioni (inadempimento e risoluzione)” (cosi’ in ricorso, all’inizio di pag. 24) di un rapporto non di autonomia ma di stretta interdipendenza;
– dall’altro, si lamenta che, posta una percentuale invalidante del danno estetico del 6%, la Corte d’appello ha liquidato il riduttivo importo di Euro 6.000, distante per difetto da quello che sarebbe stato dovuto secondo le Tabelle del Tribunale di Milano del 2018 (Euro 9.084,00), facendone peraltro decorrere gli interessi dalla data della decisione, invece che, quanto meno, dalla domanda giudiziale.
1.2. La prima censura e’ inammissibile, ex articolo 366 n. 4 c.p.c.; la seconda e’ in parte infondata, in parte inammissibile.
1.2.1. La prima, invero, postula l’applicazione da parte della Corte territoriale di una regola di giudizio che non emerge dalla sentenza impugnata. Questa, invero, non ha affatto detto che non vi e’ autonomia, ma anzi stretta interdipendenza, tra la domanda di risoluzione del contratto e quella di risarcimento del danno da inadempimento e non ha, dunque, contravvenuto al pacifico indirizzo, evocato in ricorso, secondo cui la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale puo’ essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, giacche’ l’articolo 1453 c.c., facendo salvo in ogni caso il risarcimento del danno, esclude che l’azione risarcitoria presupponga il necessario esperimento dell’azione di risoluzione del contratto.
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Ben diversamente, ed in piena coerenza con tale principio, essa ha affermato che la domanda di restituzione dei compensi corrisposti avrebbe potuto essere presa in esame solo se fosse stata avanzata domanda di risoluzione, nella specie non proposta: il che significa se ne trae per converso che, secondo la Corte, l’esborso dei compensi non puo’ considerarsi conseguenza pregiudizievole dell’inadempimento, suscettibile come tale di formare oggetto di pretesa risarcitoria.
Tale ratio decidendi non e’ colta dal ricorso e non e’ dunque fatta segno di specifiche critiche, il che – comportando comunque l’inammissibilita’ della censura – esaurisce lo scrutinio da compiersi in questa sede.
Puo’ comunque ad abundantiam osservarsi che si tratta di una motivazione anche corretta in iure dal momento che:
– l’esborso dei compensi in favore del professionista, se si vuole anche da un punto di vista logico e spesso anche cronologico, non e’ “conseguenza” della prestazione inadempiente; tanto meno, da un punto di vista piu’ strettamente giuridico, puo’ considerarsi conseguenza pregiudizievole (come tale risarcibile) dell’evento di danno determinato dall’inadempimento; esso costituisce, piuttosto e semplicemente, la controprestazione gravante sul cliente (nella specie il paziente) secondo il sinallagma derivante dal contratto d’opera professionale; trova dunque titolo nel contratto, il quale non viene meno automaticamente in conseguenza dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento dell’obbligo assunto dall’altra parte del contratto, a tal fine richiedendosi, nel nostro ordinamento, la risoluzione del contratto, che e’ pronuncia costitutiva, non dichiarativa, subordinata alla valutazione giudiziale della gravita’ dell’inadempimento (articoli 1453, 1455 c.c.), salvo il rimedio preventivo dell’eccezione di inadempimento (articolo 1460 c.c.)
– intanto, dunque, delle somme a tal titolo versate al professionista si puo’ richiedere la restituzione in quanto sia proposta domanda di risoluzione, la quale peraltro – proprio perche’ distinta e autonoma, quanto a presupposti ed effetti – non puo’ ritenersi implicitamente contenuta nella domanda di risarcimento (v., in tal senso, Cass. n. 23820 del 24/11/2010, citata in sentenza; principio espressamente richiamato e ribadito da Cass. n. 11348 del 12/06/2020, citata in ricorso);
– nella specie, peraltro, i giudici di merito hanno accertato che l’inesatto adempimento ha riguardato solo uno dei quattro interventi di chirurgia estetica, il che – si osserva qui solo incidentalmente e ad abundantiam – esclude che la prestazione medica resa possa per l’intero considerarsi inidonea a giustificare il corrispettivo conseguito, essendosi estrinsecata anche attraverso altri interventi, dai quali non e’ conseguito, secondo quanto accertato, alcun pregiudizio.
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1.2.2. La seconda critica e’ infondata la’ dove lamenta la mancata applicazione, per la liquidazione del danno non patrimoniale, delle Tabelle di Milano.
Va infatti rammentato che, secondo pacifica acquisizione, “in tema di risarcimento del danno alla salute conseguente ad attivita’ sanitaria, la norma contenuta nel Decreto Legge n. 158 del 2012, articolo 3, comma 3, (convertito dalla l. n. 189 del 2012) e sostanzialmente riprodotta nella l. n. 24 del 2017, articolo 7, comma 4, – la quale prevede il criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base al Decreto Legislativo n. 209 del 2005, articoli 138 e 139 (Codice delle assicurazioni private) – trova applicazione anche nelle controversie relative ad illeciti commessi e a danni prodotti anteriormente alla sua entrata in vigore, nonche’ ai giudizi pendenti a tale data (con il solo limite del giudicato interno sul quantum), in quanto la disposizione, non incidendo retroattivamente sugli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilita’ civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite al patrimonio del soggetto leso, ma si rivolge direttamente al giudice, delimitandone l’ambito di discrezionalita’ e indicando il criterio tabellare quale parametro equitativo nella liquidazione del danno” (Cass. 11/11/2019, n. 28990).
E’ dunque mal posta la doglianza in quanto motivata dalla pretesa applicazione delle piu’ favorevoli Tabelle di Milano.
1.2.3. Nondimeno la valutazione della correttezza, in iure, della liquidazione del danno operata dal giudice a quo puo’, comunque, e deve essere condotta in relazione al parametro rappresentato dalle tabelle di cui all’articolo 139 del codice delle assicurazioni private, sebbene non richiamato in ricorso.
Cio’ perche’, come noto, l’esatta qualificazione giuridica delle questioni dedotte in giudizio – sostanziali, attinenti al rapporto, o processuali, attinenti all’azione e all’eccezione – puo’ essere operata, anche d’ufficio, dalla Corte di cassazione, nell’esercizio dell’istituzionale potere di censura degli errori di diritto, ove le circostanze a tal fine rilevanti siano state compiutamente prospettate nella pregressa fase di merito dalla parte interessata (v. ex multis Cass. n. 27542 del 28/10/2019; n. 9143 del 17/04/2007). E la liquidazione del danno effettuata sulla base di criteri non conformi a quelli previsti dalla legge (o secondo tabelle non piu’ attuali) si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’articolo 1226 c.c. (v. Cass. n. 17977 del 2007; n. 1083 del 2011; n. 25485 del 2016; n. 22265 del 2018; n. 24155 del 2018)
1.2.4. Tanto premesso, deve pero’ osservarsi che, nella specie, l’importo liquidato dal primo giudice e confermato dalla Corte d’appello si discosta solo di poco, per difetto, da quello previsto nelle citate tabelle per la liquidazione del danno biologico da invalidita’ permanente del 6% (Euro 6.476,94), ma di cio’ la sentenza offre una giustificazione che, sebbene addotta per contrastare la non pertinente pretesa dell’appellante di applicazione delle Tabelle di Milano, appare idonea ad escludere l’errore di diritto anche nella diversa prospettiva d’analisi qui seguita. Si rimarca, infatti, in motivazione (v. pag. 11) che “il danno estetico presente nella regione addominale e’ riconducibile all’operato del (OMISSIS) solo in parte, essendo anche conseguente alla presenza di un pannicolo adiposo formatosi dopo l’intervento”, il che sembra alludere al fatto che, in realta’, la menomazione eziologicamente riferibile all’intervento e’ di portata invalidante anche inferiore a quella nel minimo stimata dal c.t.u. nella misura del 6%, la maggior gravita’ essendo ascrivibile a causa (non preesistente ma) sopravvenuta all’intervento. Ipotizzando dunque, alla luce di tale precisazione, una percentuale invalidante anche di poco inferiore, l’importo liquidato rientra pienamente in quello spettante, per il solo danno biologico (ma sulla mancata liquidazione del danno morale non viene proposta alcuna censura), secondo le menzionate tabelle.
1.2.5. La censura poi relativa alla mancata liquidazione degli interessi e’ inammissibile, in quanto prospetta questione nuova che non risulta trattata nel giudizio di appello. Trattandosi di statuizione gia’ contenuta nella sentenza di primo grado, contro di essa la parte avrebbe dovuto proporre specifico motivo di gravame, che non risulta invece proposto, ne’ al riguardo nulla viene dedotto in ricorso.
2. Il secondo motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: “Art. 360 n. 5 omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti omessa pronuncia (articoli 112, 115 c.p.c.) il contratto era gia’ estinto ragion per cui l’invocata necessita’ di una pronuncia risolutoria sarebbe stata anche inammissibile”.
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La censura e’ inammissibile, oltre che manifestamente infondata. L’inammissibilita’ va predicata:
a) per la sovrapposizione di censure eterogenee e incompatibili (omessa pronuncia, error in procedendo ex articolo 360 n. 4, ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti, ex articolo 360 c.p.c., n. 5);
b) per la palese inosservanza degli atti e documenti richiamati, in violazione dell’articolo 366 n. 6 c.p.c.;
c) per l’inconferenza dell’argomento di critica, dal momento che, anche ammesso (ma non concesso) che sia vero che la domanda di risoluzione non puo’ essere proposta rispetto a rapporti estinti, non ne deriverebbe alcuna ragione di contrasto rispetto alla ratio decidendi addotta in sentenza secondo cui l’esborso dei compensi non costituisce danno risarcibile ma puo’ disporsi solo per effetto del venir meno (per risoluzione o annullamento o declaratoria della nullita’) del titolo contrattuale che lo giustifica.
E’ appena il caso di soggiungere che la tesi non ha alcun fondamento giuridico, dal momento che: a) il pagamento del prezzo non “estingue” il contratto ma l’obbligazione che da esso deriva; b) l’estinzione dell’obbligazione non impedisce alla parte che ne abbia interesse di far valere l’inadempimento della controparte per inadempimento, attraverso domanda di risoluzione, tra l’altro anche e proprio al fine di ottenere la restituzione di quanto pagato.
Il precedente richiamato in ricorso di Cass. n. 9125 del 1993 riguarda la ben diversa questione della corretta esegesi dell’articolo 1976 c.c. circa i limiti (fatti oggetto per l’appunto di restrittiva interpretazione, proprio per armonizzarla con i principi surrichiamati) nei quali tale disposizione consente la risoluzione della transazione novativa.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce che l’aver ritenuto validamente espresso il consenso attraverso la sottoscrizione di un generico modulo prestampato integra, gia’ di per se’, violazione di legge (in relazione alla Cost., articoli 2, 13, 32; 1218, 1176, comma 2, 1175, 1374, 1375 cod. civ) non potendosi in quel modo ritenere soddisfatte le esigenze informative del consenso.
3.1. Il motivo e’ inammissibile, ai sensi dell’articolo 366 n. 4 c.p.c..
Non e’ dato leggere nella sentenza, ne’ la ricorrente la individua, alcuna affermazione nel senso che, al fine di dimostrare l’esistenza di un valido e adeguato consenso informato, e’ sufficiente la sottoscrizione di un generico modulo prestampato, in essa piuttosto
leggendosi che “non corrisponde al vero quanto affermato dall’appellante principale, secondo cui il modulo di consenso informato firmato dalla (OMISSIS) conterrebbe informazioni generiche, in quanto dalla lettura dei due contratti “di prestazione d’opera intellettuale e contestuale consenso informato”, risulta che alla predetta l’intervento era stato dettagliatamente spiegato, come anche tutti i rischi a esso conseguenti, che nessuna promessa o garanzia le era stata fatta quanto alla certezza del risultato estetico sperato e che a seguito dell’intervento potevano derivare varie complicanze tra le quali un risultato esteticamente insoddisfacente. Erano state, quindi, fornite alla paziente puntuali ed esaustive informazioni idonee a permetterle di valutare tutti i rischi correlati all’intervento al quale intendeva sottoporsi”.
Si tratta, dunque, di motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.
Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione e’ rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo e’ regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione e’ erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale puo’ considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali e’ esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa e’ errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneita’ al raggiungimento dello scopo.
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In riferimento al ricorso per cassazione tale nullita’, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, e’ espressamente sanzionata con l’inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 366 n. 4 c.p.c. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
Varra’ sul punto precisare che la giurisprudenza di questa Corte esclude bensi’ l’idoneita’ – al fine di conseguire lo scopo di permettere al paziente l’espressione di un consenso informato al trattamento sanitario – della sottoscrizione di un modulo del tutto generico, ma cio’ non significa che sia anche esclusa sempre e comunque l’idoneita’, a tale scopo, della sottoscrizione di un modulo prestampato, anche quando questo contenga “informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative” (v. Cass. n. 23328 del 19/09/2019; n. 2177 del 04/02/2016; n. 24791 del 08/10/2008).
Nella specie, l’idoneita’ in tal senso del modulo e’ espressamente attestata in sentenza e costituisce frutto di una valutazione che, in iure, appare anche corretta, in quanto effettivamente corrispondente al contenuto del modulo stesso, quale riportato in ricorso.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’articolo 360, comma 1, num. 5, c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti: fatto in thesi rappresentato dalle informazioni poste sul modulo prestampato le quali – si dice – “contengono, anche in concreto, informazioni generiche e prive di specificita’ sia con riguardo alle conseguenze dell’intervento sia con riguardo agli effetti di esso”. Afferma di non aver ricevuto alcuna informazione ne’ riguardo all’esito specifico delle conseguenze e degli effetti della programmazione cumulativa degli interventi chirurgici, ne’ circa l’esito delle cicatrici, pure eccessive ed evidenti, ne’ riguardo ai tempi di guarigione, ne’ sulle complicanze dell’intervento.
4.1. Il motivo e’ manifestamente infondato.
Il contenuto del modulo di consenso informato costituisce oggetto di esplicita e specifica analisi nella sentenza impugnata.
L’evocazione del vizio di cui al n. 5 dell’articolo 366 c.p.c. e’ dunque, in tale contesto, palesemente fuori segno.
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’articolo 360, comma 1, num. 5, c.p.c., “violazione di legge in relazione alla Cost., articolo 102, comma 2, ed articolo 1 c.p.c.: la funzione giurisdizionale e’ esercitata dai Magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, in relazione alla premessa metodologica posta dal c.t.u. condiziona(n)te tutto l’elaborato peritale” (cosi’ testualmente nell’intestazione).
L’argomentazione critica muove dalla considerazione svolta nella relazione di c.t.u. la’ dove si rileva che, sebbene “la programmazione e l’esecuzione di piu’ interventi nel corso della stessa seduta, non corrisponde ad un approccio terapeutico prudente”, da tale “scelta imprudente” non discese, pero’, “alcuna “lesione” e dunque nessun danno”.
Si sostiene che l’adozione, da parte del consulente, di un errato concetto di “lesione” ha determinato l’errato approccio metodologico di tutto l’accertamento peritale. Cio’ in quanto la valutazione del consulente, muovendo dal concetto penalistico di “lesione”, si e’ erroneamente concentrata sulla censurabilita’ della condotta del chirurgo invece che sull’esistenza di un danno risarcibile e del nesso causale.
5.1. La censura e’ inammissibile.
Essa infatti attinge non la sentenza impugnata ma la consulenza tecnica d’ufficio, in un passaggio particolare, senza pero’ che sia indicato quale riflesso abbia avuto tale passaggio argomentativo sulla decisione impugnata, la quale ha escluso l’esistenza di danni risarcibili diversi e ulteriori rispetto a quelli legati agli esiti cicatriziali antiestetici dell’intervento di addominoplastica, sul rilievo – fondato sulle conclusioni dell’ausiliario – che, da un lato, gli altri interventi risultano correttamente eseguiti nel senso che hanno ottenuto, illo tempore, i risultati estetici programmati e, dall’altro, la problematica respiratoria lamentata dalla paziente “non fosse collegata all’intervento di rinoplastica ma risiedesse nella preesistente deviazione del setto nasale, la cui correzione non era stata chiesta al chirurgo”, l’intervento essendo destinato “esclusivamente a ottenere un miglioramento estetico e non funzionale”.
Varra’ comunque soggiungere che l’argomentazione critica, pur riguardata in rapporto all’enucleato passaggio della relazione di consulenza, si rivela oscura, non essendo spiegato ne’ essendo dato comprendere in qual modo e per quale ragione logico-giuridica le valutazioni espresse circa la censurabilita’ dell’approccio terapeutico adottato dal chirurgo abbiano poi, secondo la ricorrente, influenzato, tanto da falsarla, la conclusione circa l’insussistenza, comunque, e nonostante quell’erroneo approccio, di un nesso causale con i pregiudizi lamentati.
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6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’articolo 360, comma 1, num. 3, c.p.c., “violazione di legge – articoli 2697 c.c. (onere della prova ed inversione) – violazione della regola presuntiva ex articolo 2727 ss c.c. con riflessi sull’errata applicazione delle regole causali (articoli 40, 41 c.p. articoli 1223, 1227 c.c.)”.
Rileva che la risarcibilita’ del danno in ordine alla funzionalita’ respiratoria e’ esclusa in sentenza sul presupposto che non risulterebbe provata in giudizio l’efficienza respiratoria della paziente prima dell’intervento di rinoplastica (cioe’, mancherebbe la prova che, prima dell’intervento, la paziente respirasse bene).
Sulla base di tale premessa, lamenta che tale ritenuta carenza probatoria viola le norme sull’onere della prova (articolo 2697 c.c.) oltre alle regole presuntive previste dagli articoli 2727 ss. c.c..
Sotto il primo profilo argomenta che:
– il fatto che la pregressa disfunzione respiratoria non risulti in atti, ed in particolare dalla cartella clinica, non puo’ deporre contro il paziente essendo, tale difetto di annotazione, dovuto essere colmato dalle parti resistenti;
– inerendo l’intervento chirurgico di rinoplastica a prestazioni medico-sanitarie di routine spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate dalla sua responsabilita’ dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento;
– la regolarita’ respiratoria dell’essere umano (in assenza di specifiche indicazioni contrarie) si presume (iuris tantum) ex articoli 2727 ss. c.c..
6.1. Il motivo e’ inammissibile, ai sensi dell’articolo 366 n. 4 c.p.c..
Anch’esso, infatti, non si confronta con la sentenza impugnata, la quale, ben diversamente da quanto postulato in ricorso, ha escluso il nesso causale dei problemi respiratori con l’intervento di rinoplastica, non perche’ “non” fosse provato che questi “non” preesistessero, ma all’opposto per il positivo convincimento che essi “risiedesse(ro) nella preesistente deviazione del setto nasale”.
La critica, dunque, non pone un problema di qualificazione giuridica della fattispecie, in particolare sul piano delle regole di riparto dell’onere della prova, ma prospetta una quaestio facti, che peraltro non risulta dedotta in appello come motivo di gravame ed e’ comunque da considerarsi preclusa – ai sensi dell’articolo 348-ter, ultimo comma, c.p.c. (come sostituito dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera a), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) – dall’avere la Corte d’appello deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado, non avendo la ricorrente assolto l’onere in tal caso su di essi gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano da quelle poste a fondamento della decisione di appello (v. Cass. 22/12/2016, n. 26774; 06/08/2019, n. 20994; 15/03/2022, n. 8320).
6.2. Varra’ comunque rammentare che, secondo principio consolidato nella piu’ recente giurisprudenza di questa Corte, “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione e’ preposta l’obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicche’, ove sia dedotta la responsabilita’ contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, e’ onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalita’ fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre e’ onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilita’ dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 11/11/2019, nn. 28991 – 28992).
E’ ben vero che, sul piano della prova per presunzioni, avra’ agio di operare l’orientamento giurisprudenziale consolidato in tema di negligente tenuta della cartella clinica e potra’ essere recuperata la distinzione tra prestazioni routinarie (o secondo una dottrina “ad esito vincolato” o ancora secondo altra dottrina “con risultato predeterminabile”) e prestazioni che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficolta’ (le prime autorizzando la presunzione che il mancato conseguimento del risultato in questione appaia come collegato necessariamente ad un inadempimento del debitore).
E tuttavia, nella specie, nulla risulta dalla sentenza quanto alla qui dedotta carente tenuta della cartella clinica e, in particolare, circa la mancata annotazione in essa delle condizioni preesistenti del setto nasale, di guisa che quella posta costituisce, come detto, quaestio facti estranea al paradigma censorio evocato e comunque non dedotta nei termini e nei limiti in cui il relativo sindacato e’ consentito in questa sede ai sensi dell’articolo 360, comma 1, num. 5, c.p.c..
Quanto poi al carattere routinario dell’intervento, si tratta di giudizio che attiene allo scopo proprio dello stesso, meramente estetico e non funzionale, sicche’ nessun argomento presuntivo se ne puo’ ricavare per concludere che il danno funzionale sia da esso derivato e non fosse invece, come ritenuto in sentenza, preesistente.
6.3. E’ mal posta, quindi, anche l’indicazione dell’articolo 2729 c.c. quale parametro normativo cui riferire il controllo di legittimita’ di tale valutazione.
La Corte d’appello, infatti, non ha posto a base della propria sentenza di rigetto l’esistenza di prove presuntive, di guisa che non vi e’ in sentenza l’adozione di un ragionamento presuntivo la cui correttezza possa vagliarsi in iure in relazione ai criteri dettati dall’articolo 2729 c.c..
E’ la ricorrente, piuttosto, che afferma che vi erano elementi da valorizzare in tal senso e che non lo sono stati, ma con cio’ essa non ha fatto altro che proporre e inammissibilmente sollecitare una diversa valutazione del materiale istruttorio (v. Cass. 29/03/2022, n. 10146, in motivazione, par. 10).
7. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia, infine, con riferimento all’articolo 360, comma 1, num. 5, c.p.c., “omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stato oggetto di discussione tra le parti: l’operato del CTU in ordine al denegato riconoscimento dell’intervento infausto circa la subita operazione di rinoplastica”.
Sono riproposti gli stessi argomenti di critica sopra considerati e si lamenta anche l’omessa considerazione di altri elementi rappresentati dal c.t.u. di parte e da altri documenti.
7.1. Il motivo e’ inammissibile.
In disparte il rilievo, gia’ di per se’ assorbente, della inosservanza dell’onere di specifica indicazione dei documenti richiamati, in violazione dell’articolo 366 n. 6 c.p.c., la censura investe la ricognizione della fattispecie concreta quale operata sulla base degli accertamenti peritali.
Essa, dunque, deve considerarsi preclusa in questa sede, come gia’ detto, ex articolo 348-ter, ultimo comma, c.p.c., dall’esito sul punto conforme delle valutazioni operate da entrambi i giudici di merito, non avendo la ricorrente assolto l’onere in tal caso su di essa gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano, sul punto, da quelle poste a fondamento della decisione di appello.
8. La memoria che, come detto, e’ stata depositata dalla ricorrente, ai sensi dell’articolo 380-bis.1, comma 1, c.p.c., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.
Al fine di permettere al paziente l’espressione di un consenso informato al trattamento sanitario
9. Il ricorso deve, dunque, essere rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
10. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’articolo 1-bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS) s.n.c., delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 3.100 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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