In tema di ricettazione per violazione dell’art. 9 co 7 della Legge n. 376/2000 che punisce chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente
Al fine dell’integrazione del reato di ricettazione non è essenziale l’effettivo conseguimento del profitto in quanto lo scopo dell’incriminazione è quello di reprimere il possesso di una cosa di provenienza delittuosa, quando l’agente sia a conoscenza di tale provenienza e voglia comunque ricavarne dal possesso una qualsiasi utilità o vantaggio e che il bene giuridico tutelato non è la salute, protetta, nel caso di specie dal reato presupposto, bensì l’interesse patrimoniale e l’amministrazione della giustizia, perché l’esigenza sottesa all’incriminazione di ricettazione è quella di vietare la circolazione delle cose di provenienza criminosa
La ricettazione è configurabile anche quando abbia ad oggetto cose provenienti da un delitto che non sia contro il patrimonio, perché anche in tal caso, dall’acquisizione di beni di provenienza illegittima, che il legislatore ha inteso scoraggiare e punire, deriva un incremento patrimoniale. La norma incriminatrice d’altra parte indica come caratteristica della res la provenienza da “qualsiasi” delitto, dovendosi peraltro intendere il concetto di “provenienza” nel suo ampio senso proprio, che comprende qualsiasi forma di derivazione della cosa da una condotta illecita della quale può dunque costituire tanto il “profitto” che il “prodotto” (cioè il materiale risultato della trasformazione vietata). In sintesi l’interesse tutelato dall’articolo 648 attraverso l’incriminazione delle condotte che comportano la circolazione di cose provenienti da delitto, è inteso sia in via immediata ad evitare che una qualsiasi attività delittuosa diventi fonte di successivi vantaggi, sia in via mediata a limitare all’origine la spinta al compimento dei reati.
Suprema Corte di Cassazione
sezione II penale
sentenza 19 gennaio 2017, n. 2640
Ritenuto in fatto
Ricorre per cassazione, a mezzo difensore, L.M. , avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano che il 27.2.2015 ha confermato la sentenza del Tribunale che in data 14.10.2011 lo aveva condannato per ricettazione continuata di sostanze dopanti.
Lamenta il ricorrente:
1. insussistenza dell’elemento oggettivo del reato per mancanza del reato presupposto che non può essere la violazione dell’art. 9 L. n. 376/2000 per mancanza del dolo specifico della somministrazione di sostanze finalizzata a prestazioni agonistiche e all’elusione dei controlli specificamente predisposti in campo agonistico;
2. insussistenza dei presupposti del reato di ricettazione per mancanza dell’elemento soggettivo costituito dal dolo specifico di procurare a sé ingiusto profitto. Sul punto viene richiamata giurisprudenza di questa corte che ha affrontato il tema specifico in particolare la sentenza numero 843 del 2013.
Considerato in diritto
Con il primo motivo di ricorso lamenta il ricorrente la mancanza del reato presupposto che sostiene non possa essere la violazione dell’art. 9 della L. N. 376/2000 per mancanza del dolo specifico consistente nella finalità di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, mentre nel caso in esame si sarebbe al di fuori dell’attività sportiva, avendo il L. impiegato le sostanze per finalità meramente estetiche.
Il motivo è infondato.
I giudici di merito hanno individuato il reato presupposto della ricettazione contestata all’imputato nella violazione dell’art. 9 co 7 della Legge n. 376/2000 che punisce chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, evidenziando come il fornitore del ricorrente, R.L. è stato condannato con sentenza irrevocabile per detto reato e sottolineando come costui abbia svolto un’attività di intermediazione nella circolazione delle sostanze dopanti connotata dal carattere della continuità, oltre che da una, sia pur elementare, organizzazione e che le sostanze da lui cedute al L. erano Proviron e Gonasi.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha già avuto modo di rilevare sia l’autonomia dell’ipotesi di reato di cui alla L. n. 376 del 2000, art. 9, comma 7, sia la sua natura di reato di pericolo che non necessita di dolo specifico, come emerge dallo stesso dettato del comma, che non fa menzione di un fine di alterazione dei risultati agonistici, limitandosi a sanzionare il commercio di determinate sostanze “attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente”. In particolare nelle sentenze n. 17322 del 2003 Rv. 224957 e n. 46246 del 2013 Rv. 257857, condivise da questo Collegio, è stato osservato: “Quanto al profilo dell’elemento soggettivo, la formula della norma non determina dubbi sul fatto che non sia richiesto, a differenza delle ipotesi di cui al primo ed al secondo comma, il dolo specifico. Non è operazione ermeneutica corretta e conforme al principio di legalità, la individuazione degli elementi costitutivi di una fattispecie penale mediante il ricorso alla ratio della legge prescindendo dal suo testo. Dal significato o delle parole usate e dalla connessione di esse risulta che la norma non richiede per la configurazione del delitto di commercio di tali sostanze il dolo specifico che è, invece, richiesto per i delitti previsti nei commi 1 e 2 dello stesso art. 9. Nel diritto penale sostanziale, più che in ogni altro settore, va applicata la regola, generale del ubi voluit dixit e ubi tacuit, noluit, e, dunque, il dato letterale è decisivo ai fini della corretta applicazione della norma penale. Del resto, appare evidente che la ratio legis risponde all’esigenza di sanzionare il commercio clandestino di “… sostanze biologicamente o farmacologicamente attive…” ricomprese nelle classi di farmaci il cui uso è considerato doping, indipendentemente dal fine specifico del soggetto agente. In altri termini, il commercio delle predette sostanze è, comunque, vietato attraverso canali diversi dalle farmacie e da altri dispensari autorizzati, allo scopo di evitare che esse siano messe in circolazione, al di fuori delle rigorose prescrizioni stabilite nell’art. 7 della stessa legge e di prevenire, in tal modo, il pericolo che possano essere usate, somministrate e procurate ad altri come farmaci dopanti. Si tratta, dunque, di reato di pericolo, nel senso che la norma è diretta a prevenire il pericolo che la condotta delittuosa di commercio clandestino di farmaci anabolizzanti possa determinare per la tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping”.
Correttamente pertanto i giudici di merito hanno ritenuto reato presupposto della ricettazione contestata al ricorrente la violazione dell’art. 9 co 7 L. n. 376/2000.
Infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Contesta il ricorrente la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico di ricettazione, vale a dire di avere compiuto l’azione al fine di procurare a sé ad altri un profitto.
Deve preliminarmente rilevarsi che il dolo specifico e ciò che distingue la ricettazione dal favoreggiamento reale, sussiste infatti favoreggiamento reale qualora l’agente riceva cose provenienti dal reato in modo disinteressato, solo per giovare all’autore del delitto presupposto e che il legislatore, diversamente da altre fattispecie di reato (rapina, sequestro di persona, appropriazione indebita) non qualifica il profitto perseguito dall’agente come ingiusto. La giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni affermato che, ai fini della configurabilità del dolo specifico del reato di ricettazione, non è necessaria l’ingiustizia del profitto (in tal senso, cfr. Sez. 1, n. 6695 del 1979, Rv. 142633, Sez. 2, n. 17718 del 2011 Rv. 250156 e da ultimo Sez. III n. 21596 del 2016 Rv 267165). Così come nella lettura comunemente accettata ed in linea con la definizione di questo elemento negli altri illeciti patrimoniali, il concetto di profitto viene inteso come qualunque vantaggio, utilità, non necessariamente materiale o di carattere economico, derivante dalla cosa.
Nel caso in esame, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, l’acquisto delle sostanze dopanti era finalizzato ad un’assunzione personale per finalità meramente estetiche. Sostiene il L. l’assenza del dolo specifico richiamando un arresto di questa Corte (sentenza n. 843 del 2012 Rv. 254188) che ha affermato che se la latitudine del concetto di profitto può essere estesa a qualsiasi utilità, anche di carattere non patrimoniale, la nozione di utilità, a sua volta non può però essere estesa all’infinito perché altrimenti si perverrebbe ad una interpretazione abrogante del dolo specifico richiesto dalla norma, con la conseguenza che la condotta di acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto sarebbe punibile solo sulla base del dolo generico, vale a dire la semplice conoscenza dell’origine illecita della cosa. La nozione di utilità, secondo la sentenza in parola, non può essere forzata fino al punto da includervi anche la mera utilità negativa, vale a dire ogni circostanza che, senza ledere diritti od interessi altrui, si risolva in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente. Ha ritenuto pertanto che doveva escludersi che il fine di compiere una azione in danno di sé stessi (stante gli effetti collaterali delle sostanze dopanti sull’organismo del suo assuntore), sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica (miglioramento delle proprie prestazioni o aspetto fisico), potesse integrare il fine di profitto, previsto dall’art. 648, per la punibilità delle condotte ivi descritte.
Il Collegio dissente da tale impostazione rilevando che al fine dell’integrazione del reato non è essenziale l’effettivo conseguimento del profitto in quanto lo scopo dell’incriminazione è quello di reprimere il possesso di una cosa di provenienza delittuosa, quando l’agente sia a conoscenza di tale provenienza e voglia comunque ricavarne dal possesso una qualsiasi utilità o vantaggio e che il bene giuridico tutelato non è la salute, protetta, nel caso di specie dal reato presupposto, bensì l’interesse patrimoniale e l’amministrazione della giustizia, perché l’esigenza sottesa all’incriminazione di ricettazione è quella di vietare la circolazione delle cose di provenienza criminosa.
Questa Corte ha in più occasione affermato (Cass 1987 Rv. 122111; 1987 Rv. 17639; 1993 Rv. 195331; si veda anche giurisprudenza in materia di ricettazione di arma clandestina) che la ricettazione è configurabile anche quando abbia ad oggetto cose provenienti da un delitto che non sia contro il patrimonio, perché anche in tal caso, dall’acquisizione di beni di provenienza illegittima, che il legislatore ha inteso scoraggiare e punire, deriva un incremento patrimoniale. La norma incriminatrice d’altra parte indica come caratteristica della res la provenienza da “qualsiasi” delitto, dovendosi peraltro intendere il concetto di “provenienza” nel suo ampio senso proprio, che comprende qualsiasi forma di derivazione della cosa da una condotta illecita della quale può dunque costituire tanto il “profitto” che il “prodotto” (cioè il materiale risultato della trasformazione vietata). In sintesi l’interesse tutelato dall’articolo 648 attraverso l’incriminazione delle condotte che comportano la circolazione di cose provenienti da delitto, è inteso sia in via immediata ad evitare che una qualsiasi attività delittuosa diventi fonte di successivi vantaggi, sia in via mediata a limitare all’origine la spinta al compimento dei reati.
È evidente quindi che l’acquisto consapevole di beni provenienti da delitto (nel caso in esame sostanze dopanti attraverso canali diversi dalle farmacie e dai dispensari autorizzati) effettuato con il fine specifico, non disconosciuto, di procurarsi il vantaggio di un miglioramento del proprio aspetto estetico realizza il reato di ricettazione nelle sue componenti: oggettiva e soggettiva. (in tal senso si è espressa anche Cass. Sez. II n. 15680 del 2016 Rv. 266516).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
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