Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 5 giugno 2014, n. 23620
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza della corte d’appello di Salerno in data 9.5.2013 veniva confermata la pronuncia di condanna di D.J.V. del Tribunale di Sala Consilina in data 21.7.2010, con cui era stata affermata la colpevolezza del prevenuto per i reati di omicidio colposo, incendio, detenzione di esplosivi ed era stata inflitta la condanna ad anni quattro e mesi tre di reclusione.
I fatti occorsero in (OMISSIS) , presso l’opificio dell’imputato, produttore di fuochi d’artificio; al seguito di esplosioni a catena che si verificarono nei locali della fabbrica e produssero incendio di vaste proporzioni, si registrò il decesso immediato di due giovani dipendenti del D.J. , S.P. e S.N. , mentre morirono successivamente C.F. (anch’essa dipendente dell’imputato) e V.V. , che si trovava sul luogo del sinistro per puro caso.
A seguito di un’indagine dibattimentale in primo grado molto approfondita, si addiveniva alla conclusione che l’inizio dell’esplosione ed il conseguente incendio,si verificarono in corrispondenza di una tettoia confinante con un laboratorio – a sua volta interessato dall’innesco – e di un locale di deposito di materiale inerte.
A D.J. venivano quindi elevati addebiti oltre che in termini di colpa generica – per aver detenuto materiale esplosivo in luoghi non autorizzati al deposito ed alla fabbricazione, ovverosia in uno spazio, quello sottostante la tettoia antistante il laboratorio di fabbrica, sia nel deposito adibito a ricovero di materiale inerte, ubicato a breve distanza dal laboratorio stesso -, numerosi addebiti di colpa specifica. In particolare, era stato, ascritta all’imputato la violazione di norme specifiche consistenti nell’intervenuta omissione di misure di sicurezza ed antincendio, imposte dalla legge proprio per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Quindi veniva contestata la violazione dell’art. 72 d.lgs. 626/1994 – che faceva divieto di immagazzinare sostanze chimiche incompatibili tra loro, atteso che era stato accertato che il materiale infiammabile era stato stivato insieme a materiali comburenti -, la violazione dell’art. 332 dpr 547/1955 – che prescrive ai titolari di fabbriche pirotecniche l’illuminazione elettronica dei laboratori con lampade esterne illuminanti l’interno, consistenti di accensione protezione di tipo antideflagrante -, la violazione dell’art. 358 dpr 547/1955 – che prescrive l’obbligo per i titolari di imprese di produzione di fuochi pirotecnici l’obbligo di utilizzare strumentazione antiscintilla; la violazione degli artt. 4, 88 quinquies e 88 novies d.lgs. 626/1994, quanto all’obbligo della valutazione dei rischi aziendali e di elaborazione di un piano di sicurezza antincendio ed antiesplosione, con adozione delle misure necessarie per la prevenzione incendi e l’evacuazione dei lavoratori, quali uscite di emergenza, sistemi di allarme, strumenti di estinzione; la violazione dell’art. 8 d.lgs 626/1994, già menzionato quanto all’obbligo di organizzazione all’interno di fabbriche aventi ad oggetto l’attività in questione, il servizio di prevenzione e protezione, con nomina di rappresentante della sicurezza diverso dal titolare aziendale.
Dette violazioni di norme specifiche erano risultate solo in parte causalmente legate all’evento, atteso che l’incendio era ritenuto essere stato cagionato dal verificarsi di un’esplosione interna ad un trapano a colonna, utilizzato nel locale sottostante la tettoia, dove erano stati stoccati dei fuochi, esplosione generatasi per il deposito di polveri esplosive aspirate dalla ventola del trapano, azionato da S.P. ed accese da una scintilla o da un fenomeno di frizione, che ebbe luogo nel motore in movimento. Lo scoppio del materiale esplosivo aspirato nel trapano veniva individuato come la causa determinante l’amputazione delle mani del lavoratore S.P. per l’accensione di un fuoco pirotecnico posizionato sul tavolo dove questi stava lavorando. Di talché la causa dei decessi veniva ritenuta riconducile agli effetti meccanici e termici delle esplosioni.
Venivano quindi ritenute particolarmente significative sotto il profilo eziologico quattro condotte colpose di natura omissiva o commissiva. La prima, consistita nell’uso improprio della tettoia utilizzata per allocare e lavorare materiale pirotecnico, contrariamente alla sua destinazione in base al progetto ed alle autorizzazioni rilasciate; detta tettoia in cui ebbe inizio l’innesco non poteva essere utilizzata come deposito di fuochi, proprio per la sua vicinanza al locale di produzione dei fuochi stessi, locale che esplose immediatamente dopo la proiezione dei lapilli infuocati provenienti dalla tettoia. In secondo luogo veniva rilevato l’intervenuto utilizzo di alimentazione elettrica del locale sottostante la tettoia, attraverso la realizzazione di linea elettrica di fortuna, laddove l’utilizzo di energia elettrica all’interno di opificio di fuochi pirotecnici è assolutamente vietata, essendo ammesso soltanto, previa predisposizione di impianti elettrici con caratteristiche antideflagranti ed isolanti, per precludere possibilità di innesco. In terzo luogo, veniva accertata la condotta colposa per esser stato realizzato il collegamento elettrico con una linea di fortuna, onde consentire l’alimentazione del trapano elettrico a colonna, vietato in laboratorio e luoghi limitrofi, proprio per il pericolo di innesco. In quarto luogo veniva accertata l’omessa formazione dei dipendenti sul rischio e la mancata predisposizione del documento di valutazione dei rischi, non avendo ricevuto il lavoratore menzionato (S.P. ) adeguata formazione sui rischi connessi all’attività aziendale, con riferimento alla situazione di pericolo legata all’uso di trapano elettrico in presenza di materiale esplodente.
Detto ciò e richiamato l’elaborato della prima sentenza quanto alla puntuale ricostruzione dei fatti, la corte disattendeva la doglianza della difesa, secondo cui non sarebbe intervenuta puntuale motivazione sui temi rassegnati con memoria depositata dopo le conclusioni, trattandosi di argomenti che ebbero ad ampliare il petitum, perimetrato dai motivi di appello. La corte ha sottolineato come il profilo di colpa di maggiore peso nella presente controversia è certamente rappresentato dalla colpa generica di avere utilizzato la tettoia come luogo di allocazione di materiale esplodente a cui si sono sommati profili di natura più specifica, quali l’alimentazione elettrica della tettoia, l’utilizzo di trapano non antideflagrante, la mancanza di informazione adeguata che erano comunque sempre riconducibili al primo profilo, atteso che sotto la tettoia non poteva essere svolta alcuna attività, meno che meno l’assemblaggio e stoccaggio degli esplosivi. Pertanto veniva disattesa la contestazione di mancata correlazione tra accusa e sentenza, atteso in primo luogo che l’imputato si trovò nella situazione di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione nel corso del processo e poi perché la correlazione permane se il novum si può includere come è avvenuto nel caso di specie, nel fatto contestato nel capo di imputazione.
Veniva disattesa la versione difensiva secondo cui la cassetta elettrica posta a monte del luogo in cui si verificò lo scoppio non forniva energia elettrica, poiché lo stesso imputato ebbe ad ammettere che il trapano veniva obbligatoriamente usato per allargare gli astucci di contenimento dei fuochi pirotecnici, compito che veniva svolto appunto da S.P. , senza specificare una volta affermato che quel trapano non era stato funzionante,con quali alternative modalità si operasse per l’assemblaggio dei fuochi e quali altri luoghi fossero destinati a tale tipo di operazione.
Non solo, ma i giudici del merito evidenziavano che la tettoia era risultata comunque collegata con corrente elettrica attraverso un allacciamento di fortuna ricavato da una presa a 220 volt del quadro elettrico ubicato nel casotto n. 8, tanto è vero che nei pressi della tettoia furono rinvenuti tratti di cavo volante e la giunzione anomala dei cavi e che nel casotto 8, vennero rinvenuti una spina elettrica inserita nella presa a 220 volt, nonché un cavo strappato (verosimilmente a seguito di intervento di modifica dolosa dello stato dei luoghi quando l’opificio era in sequestro), un cavo elettrico arrotolato compatibile con la giunzione al cavo FROR tagliato, che scendeva a valle verso la tettoia e dall’altro lato, con la spina inserita nella presa del quadro elettrico.
A riprova che il trapano fosse in azione nelle mani del povero S.P. ricorreva il dato che il medesimo riportò mutuazioni agli arti inferiori, tranciati all’altezza delle cosce con sfondamento del cranio, spiegabili con gli effetti meccanici dell’esplosione; non solo, ma il trapano presentava il mandrino abbassato e l’abbassamento era strettamente collegato con l’utilizzo da parte dell’operatore; il trapano poi presentava lo scioglimento dello scudo di alluminio e della ventola in alluminio, compatibile con un’esplosione avvenuta nel vano motore e non compatibile con l’onda di calore generata dall’esplosione degli artifici pirotecnici sotto la tettoia.
Venivano disattese dalla corte territoriale le richieste di rinnovazione istruttoria, onde disporre accertamento peritale sulle polveri, poiché suonava del tutto congetturale l’ipotesi che l’esplosione fosse stata provocata da polveri a rischio diffuse sul mercato in quell’arco temporale; non solo, ma è il forte effetto meccanico che determinò la mutilazione di una delle tre vittime che prevalse sull’effetto termico che portava fondatamente a sostenere che l’esplosione fu determinata dall’accumulo di un quantitativo consistente di colpi scuri sotto la tettoia. Tale dato rendeva superfluo qualsivoglia ulteriore accertamento, senza contare che l’accumulo di artifici pirotecnici risultò di gran lunga superiore rispetto alla misura consentita (la licenza prevedeva mille chili lordi, escluso l’imballaggio, laddove ne furono accertati kg. 2800 in un unico locale).
Sul punto, la corte ribadiva quanto opinato dal primo giudice sull’integrazione del reato di cui all’art. 10 L. 497/1974 e non già della contravvenzione di cui all’art. 678 cod.pen, avendosi riguardo ad esplosivi (e non a materiale esplodente), per l’elevata potenzialità, attesa la loro concentrazione e quindi per la loro micidialità.
2. Avverso detta decisione, ha interposto ricorso per cassazione l’imputato pel tramite del suo difensore, deducendo quattro motivi.
Con il primo motivo viene dedotta violazione dell’art. 603 cod.proc.pen.: viene contestata la individuazione della genesi e dell’allocazione della prima esplosione, posto che la polvere non confezionata, ma libera, aspirata dalle ventola del trapano avrebbe potuto al più determinare una modesta fiammata.
Con un secondo motivo, viene dedotta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 516, 517, 518, 519, 520, 521 cod.proc.pen.; viene contestata la correlazione tra accusa e sentenza, poiché a detta della difesa, J. sarebbe stato condannato per condotte colpose non specificate nell’imputazione, non potendosi fare rientrare nel concetto di colpa generica le evoluzioni della contestazione, con il che si sarebbe determinata una lesione al diritto di difesa.
Con un terzo motivo, è stato dedotto vizio motivazionale per illogicità della motivazione, atteso che la ritenuta genesi dell’esplosione ricondotta allo scoppio di polvere pirica accumulatesi nel motore del trapano striderebbe con le risultanze processuali, atteso che il consulente del pm avrebbe escluso che sul trapano fossero presenti residui di alluminio, elemento non idrosolubile, componente essenziale nella composizione delle miscele esplodenti, il che escluderebbe la presenza di colpi oscuri sul tavolo da lavoro ove era occupato lo S. . Ancora, secondo la difesa se il trapano fosse stato in attività, le polveri accumulatesi nella ventola di raffreddamento, non avrebbero potuto raggiungere quantità tali da provocare l’amputazione delle mani di chi vi lavorava, poiché la polvere per provocare simili effetti avrebbe dovuto essere racchiusa in involucri.
Con un ultimo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2 I. 895/1967, in relazione all’art. 678 cod.pen., atteso che andava esclusa la micidialità degli artifici ritrovati e considerata la violazione in termini contravvenzionali.
Considerato in diritto
Preliminarmente deve essere rilevato che l’eccezione processuale avanzata dalla difesa all’odierna udienza, sul fatto che non sia stato dato avviso ad un secondo difensore (di cui non è stata peraltro provata la nomina) non è fondata, in quanto l’art. 613 cod.proc.pen. prescrive che in grado di cassazione, il difensore è nominato per la proposizione del ricorso o successivamente, cosicché tutti gli atti sono notificati presso il difensore che ha sottoscritto il ricorso e che assume la rappresentanza dell’imputato nel processo avanti la cassazione. La norma stabilisce infatti che solo in mancanza di una specifica nomina per la proposizione del ricorso “il difensore è quello che ha assistito la parte nell’ultimo giudizio, purché abbia i requisiti indicati nel comma 1”, vale a dire l’iscrizione nell’albo speciale (per tutte, Sez. U, n. 1282 del 09/10/1996, dep. 1997, Carpanelli, Rv. 206847). Il mandato per il giudizio di cassazione “esaurisce i suoi effetti nell’ambito del solo giudizio di legittimità, (v., tra le altre, Sez. 5, n. 25196 del 19/05/2010, Di Bona, Rv. 248473; Sez. 1, n. 7536 del 16/01/2002, Mesfaouyi, Rv. 220895; Sez. 3, n. 12242 del 13/11/1995, Rossit, Rv. 204560; Sez 6, n. 2281 del 01/06/1995, Piromallo, Rv 203068 e Sez. Un. 15.12.2011, n.121649). Poiché il ricorso è stato sottoscritto dal solo avv.to Antonio De Paola ed al ricorso è stata allegata procura con cui l’imputato delegava il difensore a proporre il ricorso per cassazione, solo a quest’ultimo dovevano essere comunicati gli atti introduttivi il giudizio avanti questa Corte. La procedura di notificazione va quindi immune da censure.
Il ricorso difetta di specificità, essendo meramente ripetitivo di doglianze avanzate nel giudizio di secondo grado, su cui è intervenuto un adeguato discorso giustificativo, che non è stato adeguatamente considerato. Non solo, ma la difesa tende ad elevare censure che si atteggiano a critiche alle valutazioni date dai giudici di merito, onde sollecitare un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione già assunta. Di conseguenza va dichiarato inammissibile.
La ricostruzione dei fatti è intervenuta sulla base di una rigorosa disamina delle consulenza di accusa e difesa: in particolare, quanto al luogo dell’innesco ed allo sviluppo delle esplosioni, ricorreva addirittura una sostanziale coincidenza tra le posizioni dei consulenti dell’accusa e quelli della difesa, che indicarono all’unisono la tettoia contrassegnata con il numero 9, come luogo di innesco, in corrispondenza del rinvenimento del cadavere senza gambe di S.P. , che esplose prima del locale contrassegnato con il numero 2, – in ragione del fatto che se così non fosse stato la porta di divisione tra i due locali e la serratura sarebbero state proiettate verso l’esterno -, locale in cui la sfera di fuoco generatasi dall’esplosione nella tettoia 9 passò per la luce della porta che separava dal laboratorio 2, accendendo altro materiale esplodente e che dalle esplosioni nei locali 9 e 2, avvenne la trasmissione del fuoco ai materiali esplodenti collocati sotto la tettoia contrassegnata dal numero 7. La dinamica dei singoli passaggi esplosivi è stata ricostruita con l’ancoraggio a dati obiettivi e quindi con un percorso assolutamente conducente che non si espone a critiche, né evoca carenze istruttorie, colmabili con rinnovazioni di alcun genere.
Non sono ravvisabili difetti di correlazione tra accusa e sentenza, atteso che il capo di imputazione oltre a ravvisare profili di colpa generica, ha dettagliato le specifiche violazioni delle norme poste a prevenzione di eventi consimili, in un contesto di particolare pericolo, in ragione del materiale trattato e lavorato.
È del resto principio affermato da questa Corte con continuità quello secondo cui in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna, se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. IV, 21.6.2013, n. 51516, Rv 257902); inoltre è stato affermato che non viola il principio di correlazione con l’accusa la sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo a seguito di infortunio sul lavoro laddove, a fronte di una contestazione di colpa generica per omesso controllo dello stato di efficienza di una macchina per la tutela della sicurezza dei lavoratori, venga affermato la responsabilità a titolo di colpa specifica, riconducibile all’addebito di colpa generica (Sez. III, 8.4.2010, n. 19741, rv 247171).
Nel caso di specie, la contestazione all’imputato fu di tale ampiezza da comprendere tutti i profili che sono stati ritenuti, per cui non si ravvisa alcuna forzatura dei termini della contestazione elevata, né l’imputato ha avuto alcuna limitazione nel suo diritto di difesa, per non essere stato edotto di specifici profili di colpa.
Quanto alla ricostruzione dei fatti, non può essere messo in dubbio che la genesi dell’esplosione sia riportabile all’intervenuto irresponsabile utilizzo di trapano elettrico, allacciato con presa volante, atteso che è stato spiegato con adeguate argomentazioni sorrette scientificamente, che detto trapano fu trovato con mandrino abbassato e bloccato, segno dell’intervenuto utilizzo ad opera dell’operatore, per eseguire dei fori nelle confezioni in cui dovevano essere collocati i fuochi; che fu rinvenuto posizionato sul tavolo nell’angolo nord ovest della tettoia 9, dopo essere stato proiettato nella posizione finale in cui venne rinvenuto; che lo stesso era funzionante, fu alimentato con corrente elettrica portata con fili volanti costituenti linea elettrica di fortuna, in ispregio alle più elementari misure di sicurezza; che un’esplosione all’interno del motore, determinò l’innesco del materiale esplodente posto sul tavolo e sotto il tavolo, tanto che il povero S.P. che lavorava a quel tavolo, subì la mutilazione agli arti inferiori tranciati all’altezza delle cosce, proprio per gli effetti meccanici dell’esplosione.
La ricostruzione operata nei suoi minimi dettagli, così come riportata nella sentenza di primo grado, non può essere messa in discussione dal semplice fatto che non siano state rilevate tracce di alluminio, ovvero che la polvere pirica per produrre effetti così devastanti dovesse essere racchiusa in involucri, trattandosi di profili di fatto ampiamente superati dalla scientifica ricostruzione degli accadimenti che è stata operata e che nessuna incidenza possono avere per giustificare una ricostruzione alternativa.
Quanto alla qualificazione del reato, non può non essere ribadito che questa Corte ha avuto occasione di affermare che integra il delitto di illegale detenzione di esplosivi e non la contravvenzione di detenzione abusiva di materie esplodenti, la condotta avente ad oggetto materiali pirotecnici, non micidiali se singolarmente considerati, che in determinate condizioni – quali l’ingente quantitativo, il precario confezionamento, la concentrazione in ambiente angusto, la prossimità a luoghi frequentati – costituiscono pericolo per persone o cose, assumendo nell’insieme la caratteristica della micidialità (Sez. I, 14.10.2013, n. 45614, Rv 257344). Nella categoria delle “materie esplodenti” indicata nell’art. 678 cod. pen. rientrano quelle sostanze (nella specie un petardo) prive di potenzialità micidiale sia per la struttura chimica, sia per le modalità di fabbricazione, dovendo invece essere annoverate nella diversa categoria degli “esplosivi” – la cui illegale detenzione è sanzionata dall’art. 10 della legge n. 497 del 1974 – quelle sostanze caratterizzate da elevata potenzialità, le quali, per la loro micidialità, sono idonee a provocare un’esplosione con rilevante effetto distruttivo ( Sez. IV 16.6.2009, n. 32253, rv 244630).
A fronte di motivi manifestamente infondati che precludono l’instaurarsi di un corretto rapporto processuale avanti questa Corte (Sez. Un. 22.3.2005, n. 23428, Bracale), non si fa luogo alla verifica dell’intervenuto decorso della prescrizione, successivamente alla sentenza di seconde cure.
Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità del ricorso ; a tale declaratoria, riconducibile a colpa del ricorrente, consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 cpp, così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.
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