Linfoma non-hodgkin

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 28 aprile 2014, n. 17801

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Firenze ha parzialmente riformato la pronuncia di condanna emessa a seguito di rito abbreviato dal G.i.p. del Tribunale di Firenze nei confronti di C.A., che era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di omicidio colposo in danno di F.M.. Il giudice di secondo grado, infatti, ha ritenuto eccessiva la pena inflitta, che ha ridotto da anni uno a mesi otto di reclusione, confermando ogni altra statuizione.
2.1. Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito, la M. era deceduta a causa di un linfoma di Hodgkin giunto ad uno stadio assai avanzato, che non era mai stato diagnosticato dal C., medico curante della medesima, nonostante le visite mediche da questi eseguite il 28 maggio, il 15 novembre 2008 ed il 14 gennaio 2009, nel corso delle quali la patologia era stata riconoscibile, sia in ragione dell’esito offerto dai mezzi diagnostici qualora attivati, sia per i presenti segni fisici esteriori della malattia, se correttamente rilevati. Per contro, solo in occasione della prima visita il C. aveva prescritto una radiografia del torace, peraltro indicata come da compiersi successivamente; mentre nel complesso egli si era orientato per l’origine psicologica dei disturbi lamentati dalla paziente.
Pertanto, al C. era stato attribuito di non aver diagnosticato la malattia, che qualora tempestivamente accertata avrebbe potuto essere contrastata adeguatamente, sino alla sua risoluzione.
2.2. Una particolare attenzione è stata portata dai giudici territoriali alla tesi difensiva del rifiuto delle cure da parte della M.; tesi per la quale nelle ultime settimane di vita la donna avrebbe volontariamente evitato qualunque terapia. La Corte di Appello ha ritenuto infondata la prospettazione, giudicando che dalle diverse testimonianze acquisite al processo, consonanti alla documentazione disponibile, emerge che la M. aveva appreso dal C. che le proprie condizioni di salute non avevano base organica e “confidava nella sostanziale esattezza della valutazione del dr. C. e riteneva inutile andare da altri specialisti”. Di rifiuto di cure – ha continuato la Corte di Appello – può parlarsi quando il medico ha fatto una corretta ipotesi diagnostica e ciò nonostante il paziente si è sottratto alla prescrizione degli accertamenti e delle terapie. Nel caso di specie la patologia non era mai stata diagnosticata. La Corte distrettuale ha poi escluso che sulla base dei materiali di prova acquisiti potesse essere affermato che la M. si era rivolta ad ulteriori medici; mentre alcuna omissione a valenza interruttiva del nesso causale poteva essere attribuita ai familiari della donna, eventualmente profilandosi una mera colpa concorrente.
3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l’imputato a mezzo del difensore di fiducia, avv. V.V..
3.1. Con unico motivo deduce vizio motivazionale.
Rileva il ricorrente che la Corte di Appello ha omesso di valutare che dopo l’ultima visita eseguita dal C. il 14.1.2009 si instaurò un gravissimo quadro clinico ingravescente sino all’exitus, accompagnato da una persistente inattività della paziente. Gli elementi valorizzati dalla Corte distrettuale per affermare il rifiuto delle cure non sono stati confrontati con tale sviluppo; dal quale, al contrario, emerge il rifiuto delle cure e l’accettazione della morte.

Considerato in diritto

4. Il ricorso è infondato.
4.1. L’esponente enuncia un vizio di omessa motivazione, a suo avviso non avendo la Corte di Appello preso in considerazione – nell’escludere che la morte della M. fosse stata dovuta al rifiuto delle cure da parte della stessa, quale fattore di assorbente efficienza causale – il “gravissimo quadro clinico che si instaura successivamente all’ultima visita cui la donna si sottopose, ed ingravescente sino all’exitus, accompagnato da una persistente inattività o areattività …”. La lettura della sentenza impugnata – di contro – pone in evidenza l’attenzione che la Corte di Appello ha prestato all’intero periodo in considerazione, e pertanto anche alla fase conclusiva della tragica vicenda.
Dopo aver ricordato che la difesa sosteneva che “soprattutto nelle ultime settimane prima del decesso F. avrebbe volontariamente evitato qualunque terapia, pur trovandosi in condizione fisica oramai estremamente debilitata…”; la Corte di Appello ha evidenziato che la M. era convinta che la sintomatologia che la affliggeva non avesse una “base organica”, reputando esatta la valutazione del caso fatto dal C., che ripetutamente le aveva dato indicazioni della derivazione psicologica delle sue condizioni; che la donna aveva manifestato di non voler assumere i farmaci antidepressivi prescrittigli dal C., ma anche di aver mantenuto ferma la fiducia nello stesso, motivo per il quale non si era rivolta ad altri medici. Pertanto, ha concluso il Collegio territoriale, nessun rifiuto di cure da parte della donna, che piuttosto, sulla scorta di quanto rappresentatole dal C., si era convinta che “era ben possibile semplicemente attendere ovvero tutt’al più limitarsi ai farmaci indicati dal dr. C.”.
Nel pervenire alle sue conclusioni, elaborate – lo si ripete – previa considerazione anche delle ultime settimane di vita della M., la Corte di Appello ha espresso il principio secondo il quale “di un ‘rifiuto’ si potrebbe parlare se da parte del medico vi fosse stata una corretta ipotesi diagnostica e ciò nonostante la persona offesa avesse continuato a sottrarsi alla prescrizione di accertamenti e a non assumere le terapie prescritte” (18).
L’affermazione risulta corretta, dovendosi unicamente precisare che tra i presupposti in fatto del rifiuto di cure può esservi anche la formulazione di una ipotesi diagnostica errata ma ritenuta corretta.
La Cassazione civile, nel prendere in esame il diritto del paziente di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte, ha precisato che il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale. Nella specie si è quindi giudicato non sufficiente una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, essendo necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure (Sez. 3, Sentenza n. 23676 del 15/09/2008, Rv. 604907; nel senso che il rifiuto delle cure deve essere espresso, libero e consapevole anche Cass. pen. Sez. 1, n. 26446 del 29/05/2002 – dep. 11/07/2002, PG in proc. Volterrani, Rv. 222581).
Il principio così posto merita senz’altro di essere condiviso, ed anzi riformulato ai fini che qui occupano nel modo che segue: “in tema di colpa medica, il ‘rifiuto di cure mediche’ consiste nel consapevole e volontario comportamento del paziente, il quale manifesti in forma espressa, senza possibilità di fraintendimenti, la deliberata ed informata scelta di sottrarsi al trattamento medico. Consapevolezza che può ritenersi sussistente solo ove le sue condizioni di salute gli siano state rappresentate per quel che effettivamente sono, quanto meno sotto il profilo della loro gravità”.
Nel caso che occupa, non è dubbio che il C. abbia formulato una diagnosi errata e che la M. abbia ritenuto di dover aderire alla stessa, solo rifiutando di assumere farmaci antidepressivi, che in nulla avrebbero modificato il decorso della grave patologia che l’affliggeva; che in nessun momento la paziente venne portata a conoscenza dal sanitario o da altri dell’effettiva natura e gravità di tale patologia. Pertanto, non vi è spazio alcuno per l’ipotizzato rifiuto di cure, del quale peraltro non dovrebbe affermarsi l’espressa formulazione, non potendosi intendere per tale un comportamento meramente passivo, che può trovare anche nelle scadute condizioni di salute la propria causa.
In conclusione, è certamente infondato l’assunto di una pretesa carenza motivazionale; allo stesso modo va rilevato che neppure è rinvenibile nella sentenza impugnata una manifesta illogicità o contraddittorietà. Occorre tener presente, al riguardo, che il vizio della manifesta illogicità deve risultare, per essere rilevante, dal testo del provvedimento impugnato, a nulla peraltro rilevando eventuali altre letture del materiale probatorio, pur egualmente corrette sul piano logico (ex multis, Sez. 6, n. 37270 dei 17/10/2006 – dep. 09/11/2006, Ouardass, Rv. 235506).
Nel caso che occupa – ribadito che non sussiste contestazione in ordine alla ricostruzione della condotta materiale del C. – la Corte di Appello ha tratto dalle premesse evidenziate conclusioni del tutto coerenti.
D’altro canto, la tesi difensiva non si nutre di alcun specifico elemento di prova, che sia stato pretermesso o malamente inteso dalla Corte territoriale, limitandosi l’esponente a proporre una diversa interpretazione delle circostanze già valutate dai giudici di merito.
5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla costituita parte civile per questo giudizio di cassazione, spese che si liquidano in euro 3.000,00, oltre accessori secondo legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché delle spese sostenute dalla costituita parte civile per questo giudizio di cassazione, spese liquidate in euro 3.000,00, oltre accessori secondo legge.

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