Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 9 luglio 2013, n. 29037
Ritenuto in fatto
1.1 Con sentenza del 25 gennaio 2012 la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza emessa dal GUP di quel Tribunale emessa il 4 novembre 2011 nei riguardi Z.R. (imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen. e 2 L. 638/00), riduceva l’originaria pena di giorni venti di reclusione ed Euro 90,00 di multa a giorni quattordici di reclusione ed Euro 60,00 di multa, previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
1.2 La Corte dolomitica, quanto al punto concernente la responsabilità dello Z. , ribadiva la sussistenza del rapporto di lavoro intercorrente tra questi e P.M. , nonostante tra le due parti esistesse un contratto di sub-appalto e alla base di tale convincimento poneva le risultanze provenienti dagli ispettori del lavoro che, in data (OMISSIS) , avevano effettuato un controllo presso il cantiere di lavoro ove era impegnato il P. . Escludeva, quanto al trattamento sanzionatorio, le circostanze attenuanti generiche cui ostavano i precedenti penali, riducendo tuttavia la pena per effetto della riconosciuta circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
1.3 Propone ricorso per l’annullamento della detta sentenza Z.R. , a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo, con un primo motivo, violazione di legge per erronea applicazione della legge penale e in ogni caso dell’art. 2094 cod. civ., in quanto la Corte di Appello aveva ritenuto configurato il rapporto di lavoro tra lo Z. ed il P. , nonostante agli atti non risultasse alcuna prova certa dell’esistenza di quel rapporto, senza che potessero assumere rilievo le dichiarazioni del P. e di tale PE.Do. , capocantiere. Con un secondo motivo la difesa deduce violazione di legge per assenza di motivazione in ordine al materiale esborso della retribuzione, da considerare quale elemento essenziale ai fini della penale responsabilità. Con un terzo motivo, sostanzialmente omologo, la difesa deduce identico vizio con riferimento alla mancata e/o illogica motivazione in punto di valutazione dell’elemento soggettivo del reato: afferma, infatti, la difesa che, trattandosi di reato per il quale è richiesto il dolo generico, nessuna spiegazione è stata resa dalla Corte territoriale in termini di volontarietà da parte dello Z. di stipulare un finto contratto di sub-appalto onde dissimulare un rapporto di lavoro subordinato con il malcelato intento di omettere il versamento delle ritenute previdenziali.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato nei termini che seguono. Precisato che la Corte distrettuale, nel riconoscere la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., ha rideterminato, riducendola, la pena detentiva originaria sotto il limite minimo di cui all’art. 23 del cod. pen. (circostanza comunque non rilevante stante la mancata impugnazione sul punto del P.G.), va comunque osservato che il primo motivo non è condivisibile. La tesi del ricorrente, riproposta negli identici termini con i quali è stata prospettata in sede di appello, anche se con l’indicazione analitica dei vari elementi a sostegno di tale tesi, ritiene che nella specie l’affermazione della Corte di Appello, in punto di sussistenza del rapporto di lavoro, sia del tutto errata. Ed a comprova di quanto affermato la difesa rileva: a) che le dichiarazioni del P. prese a base dalla Corte di Appello non fossero affatto dimostrative della circostanza che questi fosse un dipendente dello Z. ; b) che anche le dichiarazioni del capocantiere PE.Do. erano state interpretate in modo errato dalla Corte territoriale in quanto non adeguatamente contestualizzate; c) che anche le considerazioni contenute nel verbale di accertamento redatto dagli ispettori del lavoro non risultavano corrispondenti al vero né quanto alla natura delle opere, né quanto all’osservanza da parte del P. delle indicazioni fornitegli dal capocantiere, né quanto alla utilizzazione da parte del P. delle attrezzature di cantiere messegli a disposizione dalla impresa dello Z. , né quanto all’osservanza dell’orario di lavoro da parte del P. negli stessi termini in cui lo osservavano gli altri operai dipendenti dalla impresa dell’imputato, né, infine, quanto alle modalità del compenso rapportate alle ore di lavoro eseguite ed alle stesse modalità di erogazione del compenso.
1.2 Ora, prescindendo dal fatto che tali censure contengono una serie di rilievi in fatto improponibili in sede di legittimità, posto che il ricorrente intende sollecitare questa Corte a rileggere i contenuti del verbale di accertamento e le stesse dichiarazioni dei due testi di accusa (P. e PE. ) in termini alternativi rispetto a quelli interpretati dalla Corte territoriale (il che refluirebbe ai fini della inammissibilità del motivo) in ogni caso, la decisione della Corte di appello appare sul punto esauriente e corretta, in linea con le risultanze processuali ed esente da vizi logici manifesti.
1.3 Né può prospettarsi l’erronea applicazione della legge penale e di quella civile (art. 2094 cod. civ.) in quanto i criteri di valutazione adoperati dal giudice distrettuale ai fini di discriminare il rapporto di lavoro da altri tipi di prestazioni che, se vere, esenterebbero da responsabilità in ordine alla condotta contestata, appaiono condivisibili e correttamente applicati al caso concreto. Posto che il presupposto che giustifica la rilevanza penale della condotta delineata dall’art. 2 della L. 638/83 è dato dalla esistenza di un rapporto di lavoro dipendente che lega il datore di lavoro al prestatore d’opera con correlato obbligo della retribuzione e versamento dei contributi previdenziali, la prima questione che la Corte territoriale era chiamata ad affrontare (e che ha in effetti, affrontato) era proprio quella di verificare se, nel caso in esame, tra lo Z. (titolare della COSTRUZIONI Z.R. s.r.l.) e P.M. intercorresse un rapporto di lavoro subordinato, ovvero un tipo di collaborazione diverso, caratterizzato da sostanziale autonomia.
2. Secondo il costante indirizzo espresso dalla giurisprudenza della Sezione lavoro di questa Corte, il criterio distintivo tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo è costituito dal vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro che implica, ovviamente, una limitazione della autonomia e presuppone un inserimento nell’organizzazione aziendale. Ne consegue che altri elementi quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un determinato orario di lavoro, la forma della retribuzione, pur assumendo una natura sussidiaria, possono costituire gli indici sintomatici attraverso i quali poter affermare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: la valutazione espressa al riguardo dal giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità laddove immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivata, potendo censurarsi, invece, in tale sede soltanto i criteri generali ed astratti da applicare nel caso concreto (Cass. Sez. Lav. 24.2.2006 n. 4171, Rv. 587209; in senso conforme Cass. Sez. lav. 27.7.2009 n. 17455, Rv. 610380, Cass. Sez. lav. 15.6.2009 n. 13858, Rv. 608829 e Cass. Sez. Lav. 21.1.2009 n. 1536, Rv. 606460, secondo le quali occorre far riferimento ai fini della distinzione tra le due ipotesi ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione piuttosto che alla volontà espressa dalle parti ricorrendo poi ai c.d. “criteri interpretativi sussidiari” quali indici da tenere in considerazione ai fini della qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato piuttosto che autonomo).
2.1 È, quindi, l’assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro a costituire l’elemento discretivo preponderante da verificare di volta in volta, anche ricorrendo ad altri elementi fattuali, soprattutto quando la prestazione lavorativa sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità esecutive. L’elemento della subordinazione, per la sua specificità, va inteso quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del primo al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del secondo e conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa (Cass. Sez. lav. 2010 n. 7681 n.m.).
2.2 La Corte territoriale, sulla base dei dati – non contestati dalla difesa del ricorrente – emersi dal verbale di accertamento (acquisito in atti) e delle dichiarazioni rese dal P. e dal PE. , ha, per un verso, dato per certo il vincolo di subordinazione del P. allo Z. (a dire del P. , egli prendeva ordini e/o direttive dal capocantiere PE. svolgendo poi il lavoro affidatogli in piena autonomia, soggiacendo però ad altri ordini laddove le incombenze affidategli non fossero state adempiute nel modo prescritto – vds. pag. 5 della sentenza impugnata): il giudizio espresso al riguardo, oltre a rifarsi in via prevalente al vincolo di subordinazione (si legge nella sentenza a pag. 5 che “l’esistenza di un potere di controllo del datore di lavoro, per il tramite del capocantiere, sulle concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa e non solo del risultato, conferma l’ipotesi della subordinazione”), tiene in considerazione gli altri elementi di valutazione sussidiari quali: a) la determinazione del compenso su base mensile; b) le direttive impartite al P. ; c) l’utilizzazione da parte di costui (oltre a quelle proprie di pochissimo conto) delle attrezzature di cantiere; d) l’espletamento di mansioni in tutto analoghe a quelle degli altri dipendenti della ditta – vds. sempre pag. 5 della sentenza impugnata. Significativamente, poi, la sentenza esclude che il P. fruisse di attrezzature proprie, tranne quelle “minute”, così di fatto interpretando il contratto di appalto come un modo surrettizio per dissimulare un rapporto di lavoro subordinato, in linea, anche questa volta, con l’orientamento giurisprudenziale che richiama, ai fini della individuazione della natura del rapporto, non già la volontà delle parti, quanto dati oggettivi sintomatici (Cass. Sez. lav. 15.6.2009 n. 13858, cit.).
2.3 Il giudizio espresso dalla Corte, per la linearità che lo caratterizza e per la completezza degli elementi passati in rassegna, risulta immune da qualsiasi censura, tanto più che la sentenza impugnata si pone in netta antitesi, quanto a specificità di argomentazioni, con la (fin troppo) sintetica sentenza del Tribunale che da quasi per assiomatici tali dati senza alcuna valutazione in concreto.
3. Rigettato tale motivo, a diversa conclusione deve invece pervenirsi con riguardo al secondo e terzo motivo incentrati, di contro, sul diverso dato del difetto di motivazione in ordine alla effettività della retribuzione.
3.1 Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Sezione, in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali ex art. 2, comma 1 bis, della L. 638/83, rileva ai fini della configurabilità del reato la prova del materiale esborso della retribuzione, anche sotto forma di compensi in nero, desumibile anche da documenti provenienti dal datore di lavoro come i modelli DM10 (Cass. Sez. 3^ 25.9.2007 n. 38271, Pelle, Rv. 237829; v. anche Cass. Sez. 3^ 27.10.2005 n. 2641, P.G. in proc. Mele, Rv. 233281).
3.2 Accanto a tale elemento caratterizzante la condotta penalmente rilevante sotto il profilo oggettivo si colloca l’elemento soggettivo rappresentato dal dolo (generico) consistente nella consapevolezza, da parte del datore di lavoro, di omettere i versamenti dovuti, tranne che non sia ravvisabile una responsabilità per colpa che esclude il reato, di natura solo dolosa (Cass. Sez. 3^ 19.9.2012 n. 40365, P.G. in proc. Bottero, Rv. 253682).
3.3 Nel caso in esame né da parte del Tribunale, né da parte della Corte territoriale è stata svolta alcuna considerazione al riguardo, non essendo sufficiente il mero dato del pagamento tramite fatture.
3.4 Sussiste, pertanto, il vizio di motivazione denunciato, tanto con riguardo all’elemento oggettivo (occorrendo la precisazione da parte della Corte circa l’effettività della retribuzione corrisposta al P. ), sia dal punto di vista soggettivo (occorrendo, anche in questo caso, la precisazione della volontarietà dell’omissione da parte del datore di lavoro-imputato). Va, pertanto, disposto l’annullamento della sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Bolzano che, in tale sede, dovrà dare risposta ai superiori punti individuati da questa Corte come assolutamente carenti sul piano motivazionale.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Bolzano.
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