contibuto - valore causa

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza n. 29451 del 10 luglio 2013

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 27.6.12 la Corte d’Appello di Cagliari confermava la condanna emessa il 14.3.11 dal Tribunale della stessa sede nei confronti di A. M. per appropriazione indebita aggravata della documentazione concernente il condominio di cui l’imputato era stato amministratore fino a quando non era stato revocato con apposita delibera dell’assemblea condominiale.
Tramite il proprio difensore il A. M. ricorreva contro la sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nel limiti prescritti dall’art. 173 co. l° disp. att. c.p.p.:
a) erroneamente la gravata sentenza aveva ravvisato l’ingiusto profitto proprio del delitto p. e p. ex art. 646 c.p. nel continuare il ricorrente a comportarsi da amministratore del condominio (malgrado la revoca dalla carica, che egli reputava illegittima) così creando una sorta di gestione parallela rispetto a quella del nuovo amministratore, trattandosi di una mera ipotesi che, per di più, non avrebbe comportato nemmeno un qualche vantaggio economico;

b) malgrado l’espressa sollecitazione da parte della difesa del A. M., la Corte territoriale aveva omesso di dichiarare estinto per prescrizione il reato, che era stato commesso il 26.7.04, data della delibera dell’assemblea condominiale che aveva nominato un nuovo amministratore in luogo del A. M.
Il 10.5.13 la difesa del A. M. ha fatto pervenire motivi aggiunti (tardivi, in realtà si tratta in sostanza di una mera memoria con cui ha insistito nelle doglianze e nelle richieste di cui al ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il motivo che precede sub a) è manifestamente infondato.
Invero, per la configurazione del delitto di cui all’art. 646 c.p. basta che l’ingiusto profitto sia potenziale, non essendo necessario che esso si realizzi effettivamente, il che emerge pacificamente dal rilievo che la norma richiede solo che il soggetto attivo agisca “per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.
In altre parole basta – per il dolo specifico che caratterizza la fattispecie – il mero intento di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, a prescindere dalla concreta sua realizzazione.
Nel caso di specie, correttamente i giudici del merito hanno ravvisato il fine di profitto perseguito dall’odierno ricorrente nel fatto di continuare ad amministrare il condominio, il che lo poneva (e ciò non costituisce mera ipotesi, ma oggettiva constatazione) in condizioni di accampane ulteriori pretese o comunque di rendere più difficoltosa (se non di paralizzare) l’amministrazione del condominio stesso, giacché “come emerge dalla gravata pronuncia – il A. M. continuava a considerarsi amministratore del condominio ritenendo illegittima la delibera assembleare che lo aveva revocato, al punto da invitare i condomini dissenzienti a sottoscrivere un documento in suo sostegno.
È appena il caso di ricordare che l’ingiusto profitto di cui all’art. 646 c.p. non deve necessariamente connotarsi in senso patrimoniale (cfr. Cass. Sez. II n. 401 19 del 22.10.10, dep. 12.11.10).
2- Del pari manifestamente infondato è il motivo che precede sub b).
È pur vero che quello p.- e p. ex art. 646 c.p. è reato istantaneo (cfr. Cass. Sez. II n. 709 del 16.3.71, dep. 26.11.71), che si verifica con la prima condotta appropriativa, ma nel caso di specie la consumazione si è verificata non già al momento della revoca del A.M. e della nomina di nuovo amministratore (come si sostiene in ricorso, confondendo il mero venir meno del titolo per cui si detiene con la condotta appropriativa, che richiede quid pluris), bensì in quello in cui l’odierno ricorrente, volontariamente negando la restituzione della contabilità che ancora deteneva (nella consapevolezza di non avere più alcun titolo per trattenerla presso di sé), si è comportato uti dominus rispetto alla res.
Nel caso di specie tale momento va individuato – alla stregua dell’accertamento in punto di fatto compiuto dai giudici di merito, per come emerge dalla lettura dell’impugnata sentenza – al momento della notifica del precetto del l°.3.05, che dava seguito all’ordinanza del Tribunale di Cagliari che gli ordinava la consegna della documentazione.
Dunque, considerato come diesa quo quello del l°.3.05, deve constatarsi che il termine massimo di anni 7 e mesi 6 di prescrizione del reato ai sensi del combinato disposto degli artt. 157 co. 1° e 161 cpv. nuovo testo c.p. – da prolungarsi ulteriormente per effetto della sospensione della prescrizione dal 19.3.12 al 27.6.12 – non era ancora spirato alla data della sentenza impugnata (27.6.12).
Né importa che sia maturato alla data della presente pronuncia: valga in proposito il noto principio – ormai consolidatosi a partire da Cass. S.U. n. 32 del 22.11.2000, dep. 21.12.2000 – per cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione, anche se per manifesta infondatezza dei relativi motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (cfr., ad es. Cass. Sez. I n. 24688 del 4.6.2008, dep. 18.6.2008; Cass. Sez. IV n. 18641 del 20.1.2004, dep. 22.4.2004, e numerosissime altre).

Del pari è inammissibile il ricorso per cassazione proposto unicamente per far valere la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata e prima della sua presentazione, in quanto esula dai casi in relazione ai quali può essere proposto a norma dell’art. 606 c.p.p. (cfr., ad es., Cass. S.U. n. 33542 del 27.6.2001, dep. 11.9.2001).
3- All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che stimasi equo quantificare in euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, in data 17.5.13.

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